
A suo tempo, più precisamente nel 2008, Paolo Sorrentino girava “Il Divo” iconica pellicola che narrava la vita politica e il personaggio di Giulio Andreotti. In quel film venivano sviscerate tante delle questioni che lo hanno sempre visto al centro dell’odio di molti, raccontando non solo la vita del politico “costretto a compiere malefatte per assicurare il bene e lo sviluppo del Paese” ma anche, per quanto possibile, quella dell’uomo e della sua psiche.
In Hammamet, Gianni Amelio ha cercato di fare lo stesso, affidando l’interpretazione di uno degli uomini più potenti della storia d’Italia al bravissimo Pierfrancesco Favino che, senza ombra di dubbio è una delle migliori interpretazioni della nuova stagione, riproducendone il timbro di voce esatto e le espressioni facciali quasi indistinguibili dall’originale. In più di 2 ore di film, girato spesso nelle location originali che hanno fatto da cornice alla vita di Bettino Craxi, quello che il pubblico si aspetta è però molto diverso dalla trama.
Quello che il regista racconta sono infatti, gli ultimi mesi di Craxi, passati in esilio nella città di Hammamet in Tunisia, in una casa fatta di muri alti e guardie ad ogni angolo dove, secondo quanti dirà anche un politico italiano in visita, non si vede neanche il mare e quindi non è un gran che. Intorno a lui solo la famiglia, in qualche modo costretta anch’essa a fuggire: la figlia che lo accudisce e il figlio che, in patria, cerca di salvare la figura del padre. E Fausto, il figlio di un vecchio compagno di partito, suicidatosi dopo la condanna del Giudice. Lui come figura grottesca e quasi spaventosa, ospite ma allo stesso tempo nemico.
La dimensione psicologica dell’uomo tormentato e distrutto dalla sua stessa carriera, fatta di rinunce e soprattutto scelte sbagliate è ampiamente esplorata. Quella di Amelio di non toccare quasi per nulla le vicende del passato, quelle che in realtà hanno portato alla condizione che viene narrata è forse una scelta consapevole di non voler effettivamente esprimere un giudizio su quello che è, senza ombra di dubbio, un latitante, un fuggitivo dello stato che è scappato in Africa solo e soltanto per evitare le manette. Sarebbe stato bene ricordare almeno questo allo spettatore che un colpevole può provare a fuggire ma rimarrà sempre con i suoi rimorsi, con la sua rabbia verso chi invece non è stato toccato perché “lo facevano tutti”.
Hammamet rivela d’altro canto, uno splendido lavoro di regia, come anche di musica – curata da Nicola Piovani – e naturalmente di make-up, che risulta essere il punto di forza di questo film. La ricostruzione del volto di Bettino Craxi è studiata in ogni minima ruga e macchia, riproducendone le smorfie e gli sguardi.
Neppure i nomi di molti personaggi vengono esplicitamente detti, a partire da quello del protagonista che infatti viene appellato come “il Presidente”. C’è poi “il Giudice” che supponiamo essere Antonio Di Pietro e la figlia di Craxi, che nella realtà si chiama Stefania, nel film prende il nome di Anita. Visto a debita distanza, il film sembra voler usare un personaggio noto per raccontare un minuscolo aspetto della sua vita e, ad esser sinceri, qualsiasi altro personaggio non avrebbe fatto la differenza. Vuoi per i socialisti nostalgici, vuoi che ancora forse quel nome suscita un certo timore reverenziale, Hammamet riesce comunque a farsi desiderare dal pubblico.