La poltrona rossa – Racconti al balcone

Ecco, ha di nuovo appallottolato il foglio lanciandolo nel cestino. Non lo centra quasi mai, eppure è solo a pochi passi da lui. Da qualche tempo non riesce a trovare la concentrazione e lo so che da la colpa a me. Sembra che il nostro idillio sia finito. Da quando mi ha portata a vivere con lui, il nostro rapporto si va lentamente deteriorando. Prima, quando condividevo la casa con sua nonna, la cara Lidia, era tutto più bello. Mario arrivava con la sua cartellina, aveva sempre bisogno del testo di carta, e poi ci leggeva le parti del romanzo che era riuscito a scrivere. A volte cancellava interi tratti con un pennarello nero, che finiva per macchiare la pagina sul retro, altre volte filava tutto liscio come l’olio e gioiva come un bambino. Io restavo ad ascoltarlo senza dire una parola, seduta sulla poltrona rossa. La mia dama preferita, mi chiamava. A volte, diceva a Lidia che mi avrebbe sposato, se solo fosse stato possibile. Era bello vivere in quella casa. Era grande e accogliente, con una finestra che dava sul parco. Potevo vedere il passare delle stagioni, le foglie diventare gialle e scomparire e i rami, in primavera, vestirsi di nuovo verde. Il pomeriggio, ci sedevamo l’una di fronte all’altra e Lidia mi raccontava pezzi di vita. Aveva avuto un amante.
Quando parlava di suo marito, il tono della voce era composto. Episodi di quotidiana normalità, i figli, il lavoro, la malattia. La rassegnazione di chi si adatta ad una situazione serena ma subita. A volte, però, si stringeva il corpo esile con le braccia, poggiava la testa indietro e chiudeva gli occhi. Sospirava. Allora io capivo che stava pensando all’altro, al grande amore, all’uomo incontrato troppo tardi, agli incontri segreti, alle carezze furtive. Non raccontava mai di lui. Solo una volta si è lasciata sfuggire il suo nome, mentre lo chiamava nel mezzo di un amplesso vissuto solo nei ricordi della mente. L’ho tenuto per me, certe cose devono restare private. Sono emozioni che non si possono condividere. Quando lei è andata via per sempre, sono venuta qui, con la mia poltrona rossa. Mario sembrava felice, continuava a scrivere e a lasciarsi ascoltare, mi faceva l’occhiolino e diceva che avermi accanto a sé lo ispirava.
Ero la cosa migliore che gli fossi mai capitata. Io stavo bene, anche senza la finestra sul parco. Dall’unico affaccio che c’è qui si vede il muro di fronte, con un vecchio cartello pubblicitario di un detersivo che non esiste neanche più. Il vento ne porta via un pezzetto ogni volta che ne è capace e resta solo lo sfondo scolorito. Viviamo in un piccolo monolocale. Il letto, la scrivania, un angolo con la cucina, il bagno. Siamo costretti a stare l’una di fronte all’altro. All’inizio mi sorrideva, alzando gli occhi dalle parole. Poi ha smesso. Mi guarda ogni tanto con occhio torvo. Dice che si sente osservato e questo lo innervosisce. Io me ne sto seduta immobile, cercando di non dargli il minimo fastidio. Ha spostato la scrivania dandomi le spalle, ma poi si è lamentato di sentire ancora di più il mio sguardo puntato su di lui. A volte esce, allora io mi alzo e mi aggiro nel piccolo spazio come un fantasma, attenta a non spostare nulla. Siedo di fronte allo schermo a leggere le parole che non declama più. Guardo le vecchie foto sulle pareti, aspiro il suo profumo dal maglione appeso accanto alla porta. Accendo la radio e ballo al centro della stanza, stringendomi come faceva Lidia, con gli occhi chiusi, ondeggiando fra le braccia di un cavaliere inesistente. Un giorno Mario è tornato prima del tempo. La musica riempiva la casa. Non so perché gli ha dato fastidio.
Si è guardato intorno, come se non esistessi, alla ricerca di un estraneo che non c’era. Poi ha spento ed è tornato a sedersi di fronte al computer. Allora mi ha fissato, chiedendomi risposte che non volevo dargli. Così ha cominciato a cambiare. Forse è perché non sa nulla del mio passato. Neanche Lidia mi conosceva bene.
Mi aveva incontrato ad un mercatino dell’antiquariato. Io ero accanto ad un banchetto che vendeva vecchi ritratti. Le ero piaciuta subito. Quando due anime sembrano comprendersi così, senza troppe parole, non c’è bisogno d’altro. Lei aveva capito che cercavo solo la pace. A volte mi vedeva vagare di notte fra le stanze, oppure fissare il parco buio dietro i vetri, quando si alzava per bere dell’acqua o l’insonnia la spingeva a preparare una camomilla. Allora mi sorrideva e faceva finta di nulla, lasciandomi assorta nei miei pensieri.
Mi sarebbe piaciuto restare in quella casa, ma Mario aveva dovuto venderla. Uno scrittore con tanti sogni ma niente denaro. Il romanzo è la sua vita, per questo aveva preso a odiarmi. Come se, in qualche modo, io gli risucchiassi la creatività. Eppure, avrei avuto tanto da dirgli, se solo si fosse preso la briga di guardare dentro di me e non attraverso. Poteva studiare il mio viso, immaginare la vita che avevo vissuto, inventarla persino. Se solo avesse saputo come ascoltarmi. A volte, gli sussurravo qualcosa all’orecchio, sperando di intrufolarmi fra i suoi pensieri o, almeno, di comparire nei suoi sogni. Invece aveva preso a bere, vino scadente, che lasciava la bocca aspra. Lo vedevo, combattere con gli occhi che si chiudevano ed il capo che finiva col poggiarsi sulla tastiera, digitando caratteri a caso. Allora aspettavo qualche minuto, prima di sgusciare fuori dalla tela e librarmi nell’aria, lasciando la poltrona rossa vuota.