
Finiti gli Oscar, si ritorna al mondo reale, i pronostici sono finiti e i vincitori sono stati annunciati. Contro ogni previsione una delle statuette più ambite – quella per miglior film – è toccata a “The Green Book”, pellicola diretta da Peter Farrelly, che sconosciamo per essere stato alla guida di film comico-demenziali come “Scemo & più Scemo” o “Tutti pazzi per Mary”, sempre al fianco di suo fratello Bobby Farrelly.
Ebbene, sembra che questa volta il buon Peter giocasse da solo e pare essere stata una mossa vincente che gli è valso uno dei pezzi di più desiderati di Hollywood.
Una vittoria inaspettata dicevamo, prima di tutto perché i rivali della categoria erano pesci grossi ed agguerriti secondo perché la tematica non è inedita al mondo del cinema. La storia nell’insieme ha infatti quel sapore di già visto, precisamente con “Quasi Amici” opera francese dei registi Oliver Nakache e Éric Toledano che aveva raccontato la storia d’amicizia inaspettata fra un ricco uomo dei quartieri alti invalido e il suo “badante” di colore scapestrato che si ritrovano a vivere una convivenza quasi forzata dagli eventi ma che, nelle loro diversità e stranezze riescono a trovare una sintonia e anche a costruire una bella e solida amicizia.
In The Green Book siamo di fronte a una struttura del tutto simile, cambia l’epoca – fine anni ’60 – come ambientazione delle vicende.
Il campione degli Oscar è basato su una storia vera e mescola una grande colonna sonora con il brivido del racconto in pieno stile “on the road” e vanta le grandi interpretazioni dei suoi protagonisti.
Tony Vallelonga, un buzzurro italo-americano del Bronx che lavora come buttafuori in un noto locale della City viene mandato a casa per sei mesi e si ritrova a prestare servizio a un ricco musicista di colore (Donald Shirely), con il compito di diventare il suo autista per il tour nel Sud del paese. Il periodo è dei più complessi nell’America di quegli anni ed essere un omosessuale di colore è difficile se non pericoloso e Tony diventa a tutti gli effetti la sua spalla e la sua guardia del corpo. È un film dolce e tenero, che non vuole spingersi troppo oltre nella trattazione di argomenti così fragili restando su uno stile delicato e tenero che cerca di trarre il meglio dal peggio. A questo si aggiunge anche una vena ironica che però non sfocia mai nel demenziale o nel comico ma si mantiene piacevolmente elegante.
Non siamo nessuno per dire che il premio sia meritato o meno, vero è che le storie sull’inclusione funzionano sempre, soprattutto se dagli anni ‘60 siamo ben lontani dal poterle guardare con indifferenza.