Liste di nozze – Racconti al balcone

La domenica è obbligatorio il pranzo a casa dei miei. Anche se, la sera precedente, io e Remo siamo stati costretti a partecipare ai festeggiamenti per il prozio Bruno, che non ci ha mai degnati di alcun interesse, salvo pretendere il cumulo di parenti e amici nel giorno del suo genetliaco da quando ha superato i novant’anni. Sarebbe anche un’occasione di giubilo, se non fosse che ogni anno il numero degli assenti per eventi funesti aumenta e la sensazione dei presenti è che il prozio approfitti dell’occasione per scagliare qualche anatema che lo mantenga in salute alle spalle di qualcuno. “Mors tua, vita mea”, insomma. Oggi sono sola, perché il mio vigliacco compagno si è rifiutato di accompagnarmi: “Non ce la posso fare”, sono state le sue testuali parole, prima di tornare a dormire. La gatta, sdraiata sulle sue gambe, mi ha minacciato con gli occhi gialli fulminandomi con una sola occhiata. Non ho insistito e sono uscita lasciandoli al loro destino. Nell’attesa che le orecchiette siano cotte, mi accascio sul divano davanti al televisore. C’è una trasmissione sugli abiti da sposa. Mi guardo intorno alla ricerca del telecomando. È sul tavolino, sopra un paio di fogli scritti nella calligrafia piccola e ordinata di mia madre. Un elenco lunghissimo di nomi, accanto ai quali una serie di numeri: +1, +2, addirittura +4 o +5 e gli indirizzi corrispondenti.
Ne riconosco solo una dozzina. Una annotazione in fondo: amici di Remo e Ninetta, con un punto interrogativo. La mia mente tarda a capire, finché un’illuminazione terrificante mi agghiaccia. Di fronte all’agonia del sabato sera, Remo mi aveva mormorato: “Dovessimo sposarci, non più di quattro gatti”. Io avevo sorriso, era un’ipotesi remota, di certo non attuabile a breve visto che non ne sentivamo alcuna necessità. Non avevo tenuto conto dell’udito fine di mia madre e della sua capacità di costruire castelli sul nulla. Avevamo una diversa opinione del significato dei tempi verbali: quel “dovessimo”, congiuntivo imperfetto, aveva per me un valore più che ipotetico, quasi impossibile, ma per lei era un indicativo presente.
Il riferimento di Remo ai quattro gatti le era sfuggito o la sua mente lo aveva semplicemente rifiutato. Per mero spirito autolesionista, proseguo nella lettura. Deve aver scomodato tutto l’albero genealogico della famiglia. Lei, anzi i suoi nonni, erano originari del casertano. Sono andati via da Santa Maria Capua Vetere negli anni Cinquanta. Non mi risulta che mia madre ci sia mai stata, neanche in gita di piacere. Eppure, ci sono almeno venti persone rispondenti a quella residenza. Sono sicura che, di fronte alle mie rimostranze, mi snobberebbe sdegnata sostenendo che “la famiglia è sempre la famiglia e se poi lo vengono a sapere, che figura ci facciamo?”. “Che ci frega?”, sarebbe stata la risposta spontanea con conseguente reazione di lesa maestà. Mi incuriosisce il fatto che la partecipazione paterna è limitata a una sorella e due nipoti. L’ex marito non è contemplato. Probabilmente, ci sono dei “se lo vengono a sapere” di serie A e di serie B. Sul secondo foglio, alcune annotazioni sparse: antipasti, primi, secondi, dolci, con varie scelte accanto ad ogni voce. Nomi esotici di cibi che nessuno di noi ha mai assaggiato in vita propria. Un paio di asterischi accanto a nomi di chef abbastanza noti e che dubito fortemente sarebbero disponibili a cucinare per me. O per lei. Poi bomboniere, confetti, inviti, partecipazioni, fiori e colombe bianche. Colombe? Bianche? Data l’età media dei partecipanti in elenco e la convivenza di quattro anni con il futuro quanto improbabile sposo, sarebbero più adatti degli avvoltoi. Anche più facili da recuperare, visto che continuerebbero a girare in tondo sul banchetto nuziale. Magari proprio sul prozio Bruno, decano della famiglia e ospite d’onore.
Pur di partecipare, avrebbe svenduto l’anima al diavolo. Intanto, lo schermo rimanda immagini di spose con abiti da principessa Disney o tubini striminziti che esplodono sotto il ginocchio in un tornado di tulle bianco. Dovrebbero iniettarmi una dose da cavallo di Valium, per avere qualche speranza di farmi indossare quella roba. Non mi sono mai chiesta che tipo di vestito mi piacerebbe, ma sono certa che non rientra fra quelli proposti qui. Quasi quasi le faccio uno scherzo e le dico che vorrei un Valentino o un Dolce e Gabbana. Un modello esclusivo che costi quanto un appartamento. Poi ci rifletto: non la sconvolgerebbe, anzi, la soddisfazione di dimostrare “alla famiglia” di quali fasti è capace per sua figlia la porterebbe a vendere casa e a vivere in camper. Meglio far finta di non aver visto niente.
Risistemo i fogli come li ho trovati e torno in cucina. Sta scodellando la pasta. Ha l’espressione felice di un bambino che ha trovato una splendida sorpresa nell’uovo di Pasqua. Ci sediamo a tavola. “Remo?”, chiede mio padre. “Aveva da fare per lavoro e ha preferito non interrompere”, mento. “Ha ragione, poverino, con tutto quello che serve”, lo giustifica mia madre. La guardiamo a bocca aperta, non partecipare al pranzo della domenica è un peccato capitale, salvo essere fuori dall’Italia o ricoverati in ospedale. Mio padre non commenta e inizia a mangiare. Io studio una mossa tattica per svignarmela appena ho finito. Devo aver inviato un messaggio telepatico a Remo, oppure è stato il senso di colpa a indurlo a chiamarmi appena ho finito di bere il caffè. “Nine? La caldaia si è bloccata, mi ero appena insaponato sotto la doccia e quasi ci resto secco con l’acqua gelata. Quando torni?”. Giuro che non mi lamenterò mai più di vivere con un uomo incapace di risolvere anche le più semplici emergenze domestiche. “Devo andare”, dico, infilandomi la giacca, senza darle il tempo di replicare e fingendo di non accorgermi della sua delusione. Apro la porta e Remo mi accoglie avvolto in un asciugamano. Profuma di bagnoschiuma. Gli punto l’indice contro: “Giurami che, dovessimo sposarci, scapperemo a Las Vegas. Da soli!”.