di Ida de Giorgio per IL7 Magazine
Eccomi qui: chiodi fra le dita, martello nella mano destra e lo scaffale fjalkinghe finalmente montato. Lo so, direte tutti, che c’entrano il martello e i chiodi? Non sono previsti dalle istruzioni.
Ma questa è solo la fine della storia.
E’ cominciata come al solito, con mia moglie che, di fronte alla parete nuda del corridoio, ha latrato:” ci serve uno scaffale.”
Mia moglie conosce solo l’imperativo ed il plurale majestatis significa, semplicemente, che io devo fare ciò che lei ordina.
All’Ikea il modello Gmarghet aveva le dimensioni giuste ma fjalkinghe era in offerta. “che ne sai?” è stata la risposta di mia moglie all’osservazione “sarà troppo lungo per…”.
Naturalmente lo scatolone era troppo grande per il bagagliaio ed ho guidato con uno spigolo infilato di traverso sotto l’orecchio destro, che non è stato comunque risparmiato dalle lamentazioni sull’auto proletaria sulla quale era costretta a viaggiare.
Anche l’ascensore era troppo piccolo per contenere il pacco e noi abitiamo al terzo piano.
Tre piani con una voce dall’alto che mi bombardava di rimbrotti sulla mia lentezza, sullo scarso vigore fisico e sul fidanzato del liceo che avrebbe dovuto sposare al mio posto.
Finalmente posiziono le assi dello scaffale Fjalkinghe sul pavimento della cucina, le dispongo una accanto all’altra e apro il manuale delle istruzioni.
Inserire la vite trilobata tgs nel foro qb con la brugola sw 4.
La mia comprensione si ferma a vite. L’espressione titubante non è sfuggita all’arpia, che attacca con la solfa:” che c’è? Non capisci? Ci riuscirebbe anche un bambino”.
Le viti ed il resto sono custoditi in una busta di plastica a prova di ladro.
I miei sforzi sono sottoposti a critiche ripetute: quando finalmente sortiscono a buon fine, la busta esplode come fece il Vesuvio, che ricoprì di lapilli infuocati su tutta Pompei. Esplodono anche gli improperi di mia moglie e mi accompagnano nella ricerca della minutaglia meccanica sparsa sul pavimento della cucina.
Decido di sistemare in ordine i vari pezzi, disponendoli a mucchietti simili sul tavolo, magari vedendoli così riuscirò a capirci qualcosa.
Torno a leggere le istruzioni, un occhio al foglio, un occhio alle assi.
Penso che la traduzione barese di Fjalkinghe sia Kitemmurt, anzi Kitestramurt, visto che è il modello grande.
Mentre cerco di capire come infilare il dado sp9 sulla apposita vite, l’avvoltoio si sposta e urta il tavolo, distruggendo la perfetta suddivisione da me creata.
Mentre vedo rotolare giù la mia pazienza, spinta dalle recriminazioni sulla mia idea balzana di usare un ripiano poco stabile, ecco che un’idea risolutiva illumina la mia mente.
Perché non tornare ai vecchi metodi, chiodi e martello, come si costruivano i solidi vecchi mobili di una volta?
Il primo colpo l’ho dato al centro della fronte, il secondo alla tempia destra.
Devo riconoscere che aveva ragione lei: assemblare i mobili Ikea è facile: un asse sotto, due di lato, una a chiudere e sui lati corti mi è bastata una comune sega per adattare le dimensioni.
Le istruzioni, su come liberarmi dello bara Fjalkinghe, le leggerò su internet.