Prezioso, l’ultimo vescovo di Pietro a Brindisi

Non si sa a quale fonte Paolo Diacono abbia attinto per narrare che Brindisi era nel novero delle poche sedi di origine apostolica, perché voluta espressamente da san Pietro. Con ogni probabilità egli si basò su una tradizione preesistente che però, da monaco, e quindi da esperto conoscitore dei meccanismi religiosi, ritenne verosimile. Ed in effetti, Brindisi, insieme a Ravenna, Aquileia e Milano, rappresentava un punto chiave dell’impero e, di conseguenza, era più che plausibile che facesse parte delle città prescelte per la diffusione del nuovo credo. In merito non vi sono tuttavia evidenze documentarie che, per altro, scarseggiano per tutta la prima fase del processo di evangelizzazione della nostra terra. Bisogna così arrivare al concilio di Nicea del 325 per avere una prima traccia della diocesi brindisina, dovuta alla presenza di tale Marcus, «Calabriae», proveniente pertanto dalla Calabria che, come sappiamo, allora identificava il Salento. In particolare, i «Calabri» erano, in antichità, gli abitanti delle zone prospicienti le coste adriatiche del Salento, che, nell’entroterra, arrivavano a comprendere anche le attuali città di Lecce e Manduria. Essendo Brindisi il centro più importante della regione, i nostri concittadini finivano per essere, per certi versi, i Calabri per antonomasia, Per tale motivo, si ritiene che Marco rappresentasse l’episcopato della nostra città, ma questa è l’interpretazione più probabile, non quella che si può dare per certa.

Una breve digressione sugli etnici è a questo punto utile, per evitare banali confusioni. Noi Brindisini eravamo Calabri; non Calabresi, essendo quest’ultimo l’etnico attribuito agli abitanti dell’attuale Calabria. Non eravamo neppure, come a volte affermato, «Calabrienses», in quanto all’epoca questo termine indicava gli abitanti di una città della Dacia e, successivamente, di Caliabria e, ancor dopo, della moderna Calabria. Per questo, l’altro metropolita «Marcus Calabriensis», da taluni ritenuto Brindisino, non era nostro concittadino neanche alla lontana, ma con ogni probabilità un Daco.
Marco o non Marco, nessuno dubita che le gerarchie ecclesiastiche cercarono d’impiantarsi il prima possibile in una località strategica come Brindisi, crocevia privilegiato dalle più importanti vie di comunicazione (Appia, Egnazia e Minucia) e principale transito per l’Oriente. L’importanza della città conferiva pregio alla diocesi ma, con il passar del tempo, fu anche vero il contrario. La presenza della diocesi finì per conferire rilievo alla città e, soprattutto, a condizionarne la vita. E non solo dal punto di vista spirituale.

Alla scarsità delle fonti, si accoppia spesso una loro distorta lettura. In pratica, s’interpreta la Chiesa della tarda antichità alla luce delle attuali concezioni, e si finisce per darle una visualizzazione austera identificandola, spesso, con i monaci che facevano del misticismo la loro ragione di vita. Basterebbe leggere sant’Ambrogio per accorgersi che l’élite sacerdotale era ben diversa e forse molto più animata da motivazioni terrene. Non a caso, Ambrogio proveniva dai ruoli dei funzionari civili, nei quali ricopriva incarichi statali. Egli si trovava a Milano, appunto come amministratore della Liguria e della Romagna, quando, a seguito della morte di Aussenzio, vescovo ariano, scoppiò un pericoloso tumulto tra cattolici ed ariani per la successione. La scelta dell’ambiente clericale cadde su Ambrogio che, pur non essendo neanche battezzato, scalò le gerarchie divenendo d’incanto vescovo, non tanto per le sue pur notevoli doti morali, quanto piuttosto per le sue eccellenti qualità manageriali. E, serve ricordarlo, sant’Ambrogio non fu certo un caso isolato. Al contrario.

Tra le scarse tracce salvatesi dal passato, c’è una lettera con cui Celestino I nel 429 avvisa tutti i vescovi dell’Apulia et Calabria del divieto di proporre laici per l’episcopato («ad laicos non esse episcopatus deferendos»). Il che indurrebbe a credere che, anche dalle nostre parti, la nomina a vescovo di personalità esterne alle gerarchie ecclesiastiche s’avvicinava più alla regola che all’eccezione. E pare che ciò avvenisse soprattutto per contrastare l’elemento ariano. Comunque sia, nel Salento, la gran parte dei vescovi era di fede cattolica, come si evince dalla “Historia Arianorum” di sant’Atanasio, e quel che più conta che la funzione del vescovo non era solo garante dell’unità dei fedeli ma anche del buon andamento pubblico e, alle volte, persino politico. E tale tendenza divenne sempre più marcata, man mano che le autorità ecclesiastiche acquisivano sempre più potere e influenza. Depositari di beni e donazioni, esentati non solo dai «munera curialia», vale a dire dai servizi dovuti alla città ed allo Stato dai cittadini benestanti, ma anche dai «munera sordida» (obblighi di basso valore), dalla «collatio lustralis» (tassa quinquennale per chi svolgeva un mestiere), dai «munera extraordinaria» (tasse non ordinarie), i chierici cattolici divennero un corpo sempre più privilegiato che sviluppava una posizione di patronato con risvolti, non solo materiali, ma pure psicologici che ponevano a volte i cittadini in uno stato di non gradevole sudditanza. Il tutto modificò pure gli assetti sociali — il ceto medio di fatto sparì — e la configurazione stessa della città, considerato che lo sviluppo edilizio fu condizionato dalla diocesi, istintivamente portata a favorire la costruzione di immobili sacri e non di quelli civili. E fu forse a causa di tale tendenza se non si procedette alla manutenzione della cinta muraria, anche quando essenziale per la sopravvivenza. Senza dilungarsi troppo sull’argomento, perché meritevole d’una specifica trattazione, va qui sottolineato che le fortune cittadine divennero sempre più legate alle sorti della classe sacerdotale.
E Brindisi ne fu un tipico esempio: quando l’establishment clericale non la ritenne più utile ai suoi fini e decise quindi di abbandonarla per lidi più propizi, la nostra città fu inevitabilmente indirizzata verso i suoi secoli più bui. L’esperienza diocesana, infatti, s’interruppe grosso modo durante o subito dopo la fine della guerra gotica (535-553), allorquando le fortune di Brindisi s’avviavano al tramonto.

La cronotassi dei vescovi lascia desumere che l’ultimo episcopato databile con sicurezza è quello ascrivibile a Giuliano, che resse la cattedra brindisina al tempo di papa Gelasio I e, quindi, alla fine del V secolo. Dopo Giuliano, l’unico vescovo di cui si ha menzione è Prezioso il cui episcopato, per i motivi che saranno esposti, si situa verso la metà del VI secolo.
Di Prezioso si sa ben poco: un titolo sepolcrale scoperto nel 1876 in contrada Paradiso, che però lascia trasparire importanti indicazioni. Intanto il luogo di sepoltura, lontano dall’abituale necropoli cittadina, fa pensare ad una situazione inusuale che obbligò i Brindisini a svolgere una frettolosa cerimonia funebre, magari perché in fuga per salvarsi da un pericolo imminente. La lettura dell’epigrafe precisa poi che il vescovo Prezioso, della santa Chiesa cattolica di Brindisi, s’era addormentato nel sonno della pace e che era stato sepolto un 18 agosto di venerdì («Pretiosus aepescopus | aecletiae catolicae sanc | te bryndisine depositus | sexta feria quod est | XV kal septembris requiebit | in somno pacis |»). La formula «aecletiae catolicae» ci fa capire che Prezioso era un cattolico, vale a dire un rappresentante della chiesa ortodossa. Una simile sottolineatura era usuale in quel periodo come contrapposizione ad un vescovo giudicato eretico, in genere di dottrina ariana. Nel periodo in cui i Goti governarono la nostra penisola, Teodorico, per rispettare le disposizioni imperiali, aveva lasciato in vita gli organismi romani affiancandoli con quelli dei Goti. Sullo stesso territorio venivano così a coesistere due istituzioni distinte nel diritto (ius romano per gli Italici e consuetudinario per i Goti) e nella confessione (vescovi ariani per questi; cattolici per quelli, sia pure prevalentemente nelle regioni settentrionali). Sicché era usuale che venisse specificato se il vescovo era o no cattolico. In aggiunta, pure i termini utilizzati, chiariscono che è un’epigrafe funeraria collocabile tra il V e VI secolo. Se non bastasse, anche l’evento sembra più comprensibile, se inserito in un contesto conflittuale — quale quello derivante dalla guerra gotica — che possa meglio giustificare una sepoltura frettolosa, tra l’altro effettuata in un luogo irrituale.

Narra infatti Procopio che la nostra città, dopo essere stata per i primi dieci anni risparmiata dal conflitto che impegnava i Bizantini ed i Goti, ne venne investita pesantemente. Il problema è che Brindisi, non avendo come sappiamo cinta muraria che la proteggesse, era indifendibile e di fatto soggetta alle frequenti scorrerie dei contendenti. C’è un passo poco conosciuto della “Guerra gotica” (III 27) che sintetizza in maniera eclatante tale stato di cose. All’incirca nel 545 i Bizantini, da tempo impossessatisi senza colpo ferire della penisola salentina, subiscono il contrattacco dei Goti. Trinceratisi ad Otranto, i Bizantini non osano accettare lo scambio in campo aperto, tranne tal Vero che Procopio dipinge «temerario, perché dedito all’ubriachezza». Questi lascia infatti Otranto ed arriva nella nostra città; i Goti, accortisi della manovra, pensano che sia un pazzo oppure che abbia con sé un esercito talmente numeroso da poter garantire le difese di una postazione, come Brindisi, priva di fortificazioni. Venuti a sapere che era in effetti una decisione avventata, attaccano decisi; i Bizantini, appena li vedono comparire, non avendo modo di difendersi, se la danno a gambe, nascondendosi in una selva.
Il racconto è una chiara testimonianza di come i nostri concittadini si trovassero, indifesi, alla mercé di entrambe le parti in lotta. In una simile situazione, non c’è da stupirsi se la fuga rappresentasse l’unica possibile àncora di salvezza. Può quindi essere avvenuto che, mentre cercavano di mettersi al riparo da uno dei tanti assalti, siano stati costretti a seppellire il loro vescovo in fretta e furia. Se s’aggiunge poi che il 18 agosto 545 capitò giustappunto di venerdì, si ha una possibile data coerente con l’epigrafe.
Che sia stata questa, o un’altra, l’occasione per convincere il clero ad abbandonare la nostra città, poco conta. La diocesi brindisina chiuse i battenti più o meno in quel periodo di tempo e li riaprì, non senza forti titubanze dei vertici religiosi, secoli dopo. In effetti, la Brindisi piena di opportunità e di ricchezze non esisteva ormai più, e non esercitava più nessuna attrattiva.
Neppure per chi avrebbe dovuto rifiutare le lusinghe terrene.
(2 – fine)