Quando i Romani conquistarono Brindisi

Se buona parte dei cronisti è di bocca buona, nel senso che basta poco per renderli felici e per convincerli che pure la leggenda più leggendaria fa parte della storia, gli storici, al contrario, hanno per lo più la puzza al naso e la critica facile. Ne sa qualcosa Floro, un retore e storico vissuto tra il I ed il II secolo, la cui opera, “Bellorum omnium annorum septingentorum libri duo”, passa spesso per un semplice riassunto della storia romana approntato per un pubblico dozzinale, quando invece contiene parti talmente vaghe ed allusive da far presumere che solo un lettore in possesso d’una previa conoscenza dell’argomento possa cavarsela con profitto. Ne è un chiaro esempio proprio il brano dedicato alla nostra città: in sole quattro righe, Floro caratterizza tre importanti aspetti della storia brindisina, rimasti però lettera morta, non avendo nessuno saputo dare il giusto senso alle sue parole.
In questa occasione, limiteremo il nostro esame alla circostanza più eclatante che vede coinvolta addirittura una dea, lasciando le rimanenti questioni per altri eventuali incontri.
Floro si sofferma infatti sul conflitto che ci vide impegnati contro i Romani, riassumendo i due anni di guerra necessari alle truppe dell’Urbe per vincere la resistenza delle genti salentine, nel conciso passo in cui narra la presa della nostra città: “Alla sottomissione dei Picenti, si aggiunse quella, compiuta da Attilio Regolo, dei Salentini e della capitale della regione, vale a dire Brindisi insieme con il suo famoso porto” («Sallentini Picentibus additi caputque regionis Brundisium cum inclito portu M. Atilio duce»). Poi testualmente soggiunge: “E in questa battaglia, quale prezzo della vittoria, Pales, dea dei pastori, reclamò inoltre per sé un tempio” («Et in hoc certamine victoriae pretium templum sibi pastoria Pales ultro poposcit»). In altre parole, Attilio Regolo, per la conquista di Brindisi e del suo porto, promise ad una certa dea Pales la dedica d’un tempio.
Un brano di facile lettura che, però, pone grossi problemi a livello interpretativo. Non si capisce infatti cosa c’entri Pales, una dea che proteggeva i pastori e le loro greggi, con un evento bellico. E, a maggior ragione, restano oscuri i motivi che indussero il console romano a farle voto d’un tempio.
Non sapendo trovare una risposta precisa, i critici hanno inserito l’episodio in un ambito più ampio, giungendo così ad una conclusione generica: la presenza di Pales fa parte degli espedienti scenici cui Floro era solito ricorrere per drammatizzare il suo racconto. E, a supporto di questo parere, elencano una lunga lista di forme retoriche utilizzate dallo storico per gonfiare in un qualche modo i fatti narrati. In definitiva, a loro giudizio, l’entrata in scena della dea agreste non è che un trucco dozzinale per dare enfasi alla conquista di Brindisi. Un giudizio così netto che, di fatto, ha finito per condizionare il parere degli studiosi.
Per quel che si sa, l’unico tentativo scientifico non allineato con la critica è quello di Grelle e Silvestrini che considerano il riferimento divino «un’indicazione suggestiva della vocazione naturale riconosciuta alle campagne brindisine» osservando in conclusione che, attraverso il prodigio, la dea «ribadiva la connotazione agricola e pastorale delle terre annesse e confermava la destinazione che la maggioranza senatoria intendeva dare ad esse» (F. Grelle – M. Silvestrini, “La Puglia nel mondo romano. Storia di una periferia dalle guerre sannitiche alla guerra sociale”, Edipuglia, Bari 2013, p. 119). Come dire che la richiesta della dea rappresenta una suggestiva caratterizzazione del territorio brindisino e, al tempo stesso, un presagio sulla sua futura destinazione economica, ma con nessun effettivo aggancio con l’evento bellico in sé.
Per il resto la vicenda interessa al più i blog, che la dipingono in maniera alquanto folcloristica: in uno, ad esempio, si afferma che Pales deve essere stata anche dea della guerra; in altri, si dà la soluzione più scontata, vale a dire che la dea abbia offerto il divino appoggio alle armi romane, come facevano gli dèi omerici.
Morale della favola, per pregiudizio, per fantasticherie assortite o per questioni simboliche, il racconto di Floro non è mai stato valutato di per sé, in quanto si è in sostanza certi che egli abbia, in un qualche modo, alterato i fatti. Proprio per questo ho esaminato il passo, adottando l’approccio radicalmente opposto: ho dato per scontato che Floro fosse stato veritiero. Ho potuto così constatare che l’evento in sé non era né simbolico, né artificioso ma in fondo abituale quando un console romano si apprestava ad ordinare l’assalto finale ad una città assediata. Tutto ciò mi ha messo inoltre nelle condizioni di scoprire un prezioso frammento di storia cittadina, sinora del tutto sconosciuto.
Per chiarire la questione, occorre innanzitutto inquadrare i fatti nel giusto contesto. E ciò presuppone una necessaria premessa sui meccanismi formali adottati dai Romani in simili occasioni e, soprattutto, sugli atteggiamenti assunti nei confronti delle divinità.
A differenza di approcci religiosi più convenzionali, i Romani non consideravano le proprie divinità degli esempi di moralità da imitare, quanto piuttosto delle entità dotate degli stessi pregi e, al tempo stesso, afflitte dagli stessi difetti degli esseri umani, sicché anch’esse spesso alla mercé di poco nobili e commendevoli sentimenti. Al pari degli uomini, gli dèi erano pertanto suscettibili, irritabili, vendicativi, con l’aggravante che, essendo dotati di poteri sovrumani, erano potenzialmente dei nemici temibilissimi, capaci quindi di sconvolgere la vita di chi osava mettersi contro di loro. Era perciò molto più conveniente tenerseli buoni e stabilire con essi un regime di pace e di benevolenza. Questa situazione di concordia e, appunto, di pace è racchiusa nella famosa espressione «pax deorum», concetto di contenuto religioso che riguardava soprattutto la comunità dei cittadini nel loro insieme e non solo il singolo cittadino. Era pertanto vitale preservare questa situazione di pace e far sì che non fosse mai turbata da atti riprovevoli che potessero urtare gli dèi. Per ogni evenienza, soprattutto se pubblica, i Romani s’erano pertanto dotati di protocolli comportamentali che, all’occorrenza, utilizzavano in maniera quasi meccanica, proprio per non incorrere in errori o imprecisioni che, pure se compiuti in buona fede, avrebbero potuto sovvertire questo stato d’intesa che garantiva al singolo ed allo stato romano nel suo complesso la benevolenza divina.
Più o meno direttamente dal concetto di pax deorum discende quello di «bellum iustum ac pium» («guerra conforme al diritto e alle regole divine») in base al quale le guerre andavano dichiarate e condotte seguendo le regole previste dal diritto e dalle divinità, e nei soli casi in cui era stato il nemico ad arrecare un danno o un’offesa. Ogni evento o atto ostile era infatti potenzialmente un’azione sacrilega che rischiava di provocare la reazione degli dèi e di far perdere il loro favore, se non veniva affrontata entro i dettami giuridici e religiosi.
Riannodiamo il nastro del racconto e ritorniamo ad Attilio Regolo, impegnato in quella lontana estate del 267 a.C. a vincere la resistenza dei Brindisini che rappresentavano l’ostacolo più consistente dello schieramento salentino. C’erano voluti mesi ma infine il console, dopo un’accanita lotta, aveva preso il sopravvento sui nostri concittadini. Giungiamo così al momento in cui Brindisi è da giorni sotto assedio e la capitolazione ormai prossima. Regolo si appresta a dare il definitivo assalto alle mura della città tuttavia, prima di farlo, si rivolge a Pales promettendole appunto la dedica d’un tempio.
Perché questo voto fatto proprio a Pales? che nulla aveva a che fare con la guerra? Un fatto inspiegabile per la nostra mentalità ma coerente con le abitudini religiose dei Romani.
Per noi Pales è un’illustre sconosciuta; duemila e passa anni fa era, invece, una dea di prima grandezza. Allora la ricchezza si valutava in base alle terre ed al bestiame posseduti, e l’aristocrazia del tempo era perciò composta dai proprietari terrieri e dai pastori padroni di greggi. Pales, che di questi ultimi era la dea protettrice, aveva quindi un grande rilievo, tanto è vero che la sua festa si svolgeva il 21 aprile, in coincidenza con il giorno della fondazione di Roma. Il che mette in luce il ruolo sociale degli allevatori nel contesto cittadino arcaico e l’importanza della loro patrona, ma non dà risposta ai quesiti che ci siamo posti. Per poterlo fare, dobbiamo ritornare al menzionato timore dei Romani di suscitare la collera degli dèi. Timore che non riguardava solo le divinità del proprio pantheon, ma pure quelle venerate dagli altri popoli.
Il pericolo di irritare gli dèi degli avversari era particolarmente elevato proprio nel momento in cui si era sul punto di conquistarne la città; per questo, poco prima di sferrare l’attacco finale, quando ormai era certa la vittoria, i Romani compivano uno specifico rito, chiamato «evocatio», per farseli amici. Con questo rituale si invitava la divinità protettrice della città assediata ad abbandonare i luoghi protetti trasferendosi a Roma. Senza questo preliminare tentativo di accordo, non si poteva prendere la città perché c’era il rischio di fare prigionieri anche degli dèi. Rappresentava quindi la maniera più appropriata per guadagnarsi la neutralità del nume protettore e, al tempo stesso, per ottenere l’implicito permesso a conquistare la città nemica. Abbandonato dalla protezione del dio tutelare, il luogo assediato era di fatto dissacrato e poteva essere saccheggiato anche nei suoi luoghi in precedenza sacri, senza incappare in possibili ritorsioni divine.
I Romani erano però consapevoli che le sole preghiere non sarebbero state di per sé sufficienti allo scopo; per questo, per essere più convincenti, promettevano qualcosa di concreto: la consacrazione d’un tempio e l’istituzione d’un apposito culto.
A questo punto, fosse stata Pales la divinità protettrice di Brindisi, avremmo trovato la soluzione giusta al nostro problema. Peccato però che, come più volte ricordato, Pales era una dea romana e non faceva neppure parte della cerchia divina venerata dai nostri concittadini. Pertanto, sia pure in forma diversa, la questione si ripropone: quale motivo aveva Attilio Regolo di evocarla e di chiederle di trasferirsi a Roma, quando già vi risiedeva e vi riceveva il dovuto ossequio?
È quanto si scoprirà la prossima volta.
(1 – continua)