Racconti al balcone: NON E’ MAI TROPPO TARDI

di Ida de Giorgio per IL7 Magazine

Anita era soddisfatta: aveva superato i quiz dell’esame teorico. Ne aveva sbagliato solo uno, ma restava convinta delle sue ragioni. La domanda, su come soccorrere un ferito, avrebbe dovuto prevedere l’opzione di chi non regge la vista del sangue. E, appunto, lei era capace di svenire al solo pensiero di un prelievo, figurarsi “premere una garza pulita sulla ferita zampillante”, in attesa dei soccorsi. Non lo avrebbe fatto mai, neanche se, ad aiutarla, ci fosse stato George Clooney con tutta l’equipe di E.R. Perché come lui nessuno più, altro che dottor Stranamore di Grey’s Anatomy.
Aveva deciso di prendere la patente il primo giorno di scuola di Andrea, il più piccolo dei suoi figli, vedendo le altre mamme giovani e disinvolte nelle loro auto. Aveva avuto tre maschi più uno. Diceva così perché il quarto non era previsto. Era arrivato fuori tempo massimo, quasi alla soglia dei cinquant’anni. Aveva desiderato fino alla fine una femminuccia, invece era nato Andrea. E, inutile dirlo, non appena l’aveva visto, quel microbo rugoso era diventato l’amore della sua vita. Anita voleva bene a tutti i suoi figli, naturalmente, ma riteneva che ad una madre si potesse perdonare una preferenza, anche se inconfessata. E poi Andrea era l’unico che ancora aveva bisogno di lei. Gli altri la consideravano una sorta di appendice della casa, compresa nel B&B. Erano diventati maschilisti retrogradi nonostante tutti i suoi sforzi, seguendo l’involuzione del padre. Eppure, aveva conosciuto suo marito ad una manifestazione femminista, mentre reggevano entrambi uno striscione. Si erano iscritti insieme all’università, facoltà di Legge, per combattere le ingiustizie del mondo. Poi era rimasta incinta e la soluzione più logica era stata quella di rinviare la laurea a dopo la gravidanza, mentre lui avrebbe continuato per poi lavorare nello studio del padre. Avrebbe dovuto capirlo, che dietro l’apparenza del progressista si nascondeva un tradizionalista del cavolo: “che pillola e pillola, che ti avveleni, tranquilla ci penso io”. Si era fidata ed era arrivato anche il secondo ed il terzo erede. Così, mentre la carriera di lui decollava, le aspirazioni di lei finivano nella pattumiera insieme ai pannolini sporchi. Non era più riuscita a riprendere gli studi, ma avrebbe fatto almeno la più semplice fra le cose che si era ripromessa di realizzare, prima di sposarsi in fretta e furia.

La sua iniziativa era stata accolta dall’ilarità. Persino il piccolino, contagiato dalle risate dei maschi dominanti, aveva cominciato a sghignazzare senza capire. Non le era chiaro se la scarsa considerazione nelle sue capacità era riferita alla età” avanzata”, come l’avevano definita, o alla sua intelligenza, ritenuta appena sufficiente a svolgere l’attività poco qualificata di moglie e madre.
“E quale auto dovresti guidare, poi?”, aveva chiesto ironicamente suo marito, geloso possessore di una Mercedes classe E coupé pluriaccessoriata. Trattava quell’auto meglio di qualsiasi essere umano: manutenzione periodica, lavaggio settimanale e disamina serale della carrozzeria. Era capace di controllare la suola delle scarpe dei passeggeri, prima di farli salire. Non l’avrebbe prestata a nessuno, tanto meno a lei. Anita non gli aveva neanche risposto e si intestardita ancora di più nel suo proposito.
Il giorno dell’esame, era tornata a casa con la voglia di festeggiare. Andrea era a scuola e gli altri al lavoro. Entrò in garage dalla porta interna. La Mercedes era coperta da un telo chiaro. Anita lo tolse e ammirò l’auto. Era veramente bella. Peccato per quel bozzo proprio al centro del cofano. Suo marito sarebbe impazzito, nel vederlo.

Già, suo marito. Appena Anita si era iscritta alla scuola guida, lui aveva cominciato a nascondere le chiavi dell’auto. Non le lasciava più come al solito sulla mensola dell’ingresso, ma da qualche parte nel suo studio. Pensava che non se ne sarebbe accorta? Di cosa aveva paura? Che la prendesse di nascosto come gli adolescenti che rubano la macchina dei genitori?
Quella cattiveria gliel’avrebbe fatta pagare. Era stato più facile del previsto. Preso dalla sua presunzione si era dimenticato del doppione nel cassetto del comò. Anita aveva aspettato il giorno adatto, la domenica, con tutti i ragazzi a letto e suo marito pronto per la consueta partita di tennis. Come al solito, lui aveva aperto la basculante e poi aveva cominciato a controllare la siepe, per evitare che rami sporgenti sul vialetto graffiassero l’auto. Anita era sgaiattolata in garage, aperto in silenzio lo sportello, messo in folle e tolto il freno. Poi aveva dato una bella spinta, prima di tornare in fretta in cucina. Voleva fare solo un piccolo danno, per giusta vendetta.
In un certo senso, era stata fortunata. Favorita dalla pendenza del viale, l’auto era piombata sull’uomo, prima di finire contro il cancello. Ci teneva tanto, era giusto si sacrificasse, proteggendola col suo corpo. Ci avevano creduto tutti, alla disgrazia. Anche l’assicurazione, che aveva saldato il premio della polizza sulla vita. Nessuno dei figli aveva voluto l’auto del padre. “La terrò qui”, aveva deciso l’affranta Anita, mentre pensava al suo futuro. Le sarebbe servita per andare a lezione, all’inizio dell’anno accademico.