Scripta manent / Racconti al balcone

Non gli piaceva leggere. Considerava sprecato tutto il tempo trascorso a scuola a imparare concetti inutili. Il suo lavoro consisteva nel gettare catrame sulle buche per poi livellarle o nel mettere malta sotto quelle maledette chianche che non volevano saperne di stare ferme. Mestiere utile all’umanità impegnata a correre, ma per il quale non era necessario avere nozioni di fisica o aritmetica. Guardava con sospetto chiunque fosse immerso nella lettura. Libri o quotidiani non faceva differenza. Non capiva quello sforzo di lavorare di fantasia per immaginare scenari sconosciuti. Gli occhi e le orecchie potevano dare informazioni più immediate senza bisogno di parole d’inchiostro. Era convinto che radio e televisione fossero la migliore fonte di conoscenza a disposizione. Se qualcuno gli faceva notare che le voci o i volti che gli parlavano dallo schermo non facevano altro che declamare un testo scritto, rispondeva con una alzata di spalle. Gli importava poco delle opinioni altrui. L’unica cosa che reputava degna di nota era la sua quotidianità e gli eventi che avrebbero potuto variarne la monotonia.
Le previsioni del tempo, ad esempio. Pioggia o neve come anche il caldo troppo afoso gli avrebbero impedito di adempiere adeguatamente al suo dovere. Non bastava sbirciare fuori dalla finestra, il clima era imprevedibile. Da un momento all’altro una tranquilla mattina di primavera poteva trasformarsi in un turbinio di acqua e vento, mettendo in dubbio la garanzia della paga. Come quella mattina, con lo scroscio violento che aveva costretto tutti a rifugiarsi dove potevano. Gli altri erano corsi verso il bar, per il conforto di un caffè caldo che togliesse la sensazione di umido. Lui era rimasto indietro, attirato da un portoncino di legno con una anta aperta dalla quale si intravedeva una scala di quelle di una volta, con i gradini alti di carparo bianco. Si era scrollato la pioggia di dosso come fanno i cani, lasciando una costellazione di puntini scuri sul pavimento. Si era guardato intorno, rendendosi conto con sgomento di essere entrato in una biblioteca. Non se n’era mai accorto prima, anche se era passato lì davanti moltissime volte.
Il lungomare era il luogo preferito delle sue passeggiate solitarie. Scendeva dalla scalinata, dava una sbirciata al castello in fondo al porto, si incamminava verso le Sciabiche e risaliva fino al Duomo. Non c’era un ingresso trionfale con cartelloni ammalianti che inneggiavano ad autori pregevoli e per lui sconosciuti, solo una targhetta che annunciava HDL, acronimo di History Digital Library. Non conosceva l’inglese, ma non ci voleva una laurea per fargli capire di essere finito all’inferno: storia e libreria erano sinonimo di noia mortale. Pericolosi come una malattia. Sul digitale non sapeva esprimere giudizi, sapeva dell’esistenza degli e-book, ma non gli erano mai sembrati questa grande innovazione. Di carta o in file erano sempre libri, da evitare come l’acqua in una osteria. Sbirciò la scala, una figura lo sovrastava dall’alto. Con uno sforzo di memoria riconobbe Dante Alighieri. Gli tornò in mente la professoressa di Italiano, che per dargli la sufficienza lo aveva costretto a imparare almeno le quattro righe iniziali della Divina Commedia. “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, si ricordò solo questo ma gli fece piacere; questa sensazione lo sorprese. I gradini erano decorati. Sembravano libri giganteschi impilati l’uno sull’altro. Il primo era L’epopea di Gilgamesh. Non lo aveva mai sentito nominare. Non sapeva neanche cosa significasse epopea, anche se per logica poteva essere una cosa come avventura o vita, forse. Anche gli altri, all’inizio, non gli dicevano niente. Poi riconobbe alcuni titoli. Li aveva visti al cinema o in tv. Gli piacevano i film avventurosi e quelli dove si rideva. La vita era già abbastanza triste di suo per farsi carico delle disgrazie altrui. Anche quelle finte. Pensò che l’Odissea fosse la storia di quel tipo che passa anni cercando di tornare a casa e che Confucio doveva essere un attore di quelli che fanno kung fu, come Bruce Lee.
Ma gli parve una cosa molto strana. Non riusciva a leggere le scritte in alto così cominciò a salire. “Ventimila leghe sotto i mari” se lo ricordava bene. Il sottomarino stranissimo e l’isola misteriosa che poi esplodeva per l’eruzione di un vulcano. O forse si stava confondendo ed erano due film diversi. Aveva visto anche “La macchina del tempo” e “2001 Odissea nello spazio”, con il computer che teneva compagnia all’astronauta. Finiva male, ma aveva invidiato la possibilità di avere un partner senza troppe esigenze se non quelle della ordinaria manutenzione. Una avvitata a un bullone, una passata di lavavetri al monitor e la possibilità di scegliere una gradevole voce femminile che lo intrattenesse con gli argomenti a lui più graditi. Ebbe una specie di intuizione. Aveva sempre pensato che la trama di un film fosse un’invenzione del regista. La storia, le scene, le cose che gli attori dicevano, tutto nasceva al momento, da un’idea brillante tradotta subito in pratica. Non aveva mai collegato un libro a un film. Ma salendo quella scala si stava rendendo conto che tutto quello che gli piaceva nasceva da pagine scritte dagli autori di romanzi. Questo lo incuriosì. Non l’avrebbe mai detto, ma aveva voglia di scoprire cosa c’era al di là della porta indicata da Dante. Varcò la soglia e si trovò circondato da maxischermi e scaffali pieni di libri. Ne prese uno e fece scorrere le pagine fra le dita. Gli diede una piacevole sensazione. Un fruscio attirò la sua attenzione. Due occhi luminosi lo fissavano. Una voce metallica lo salutò: “Benvenuto nella biblioteca del futuro”.