Teatro d’asporto con consegna e consumo a domicilio: è l’originale trovata del cantastorie Giuseppe Vitale, attore di teatro e cinema, che spopola in tutta la Puglia, e anche oltre, offrendo agli spettatori “mangianti” la possibilità di scegliere tre diversi menu o di gustarli tutti insieme in un unico pasto. Perché, in tempi di pandemia, l’arte è essenziale quanto la medicina e nutrire l’anima è vitale quanto stuzzicare il palato.
“Porto i miei spettacoli sotto ai balconi o per strada, rispettando rigorosamente le norme sul distanziamento sociale. Le prenotazioni avvengono telefonando al 3200422825. C’è la possibilità di scegliere tra il “Menu Culacchi” (che prevede brevi racconti satirici), il “Menu Natale” (con racconti natalizi) e il “Menu Cunti” (che comprende racconti della tradizione salentina), oppure si può acquistare l’intero pacchetto ad un prezzo speciale”, dice Giuseppe Vitale, residente a Oria, ma orgoglioso delle sue origini cegliesi.
Nel curriculum di questo artista che si è reinventato ristoratore d’anime a domicilio, più dei titoli di studio, che pure ci sono e sono di tutto rispetto, contano le passioni. Giuseppe Vitale vanta, infatti, un diploma al liceo linguistico e una laurea in Lettere, ma ciò che ne definisce il percorso, come uomo e come artista, è altro. L’entusiasmo di quando, da bambino, seguiva gli sceneggiati tv immaginando di potersi trovare al posto di Sandokan / Kabir Bedi. La delusione che lo angustiava quando preparava con i compagni piccole recite di classe che puntualmente non venivano rappresentate, perché c’era il programma ministeriale da seguire e sempre qualcos’altro di più importante a cui non si poteva sottrarre tempo. L’appagamento provato nell’assecondare la sua naturale vocazione artistica quando ha consapevolmente scelto di fare della sua passione una professione.
“Quando mi chiedono il curriculum, inizio sempre dalla scuola elementare”, scherza. Poi prosegue: “Ricordo che guardavo “Alla conquista del West” e sognavo di potermi cimentare in qualcosa di simile. Poi, per un periodo piuttosto lungo, ho messo da parte i sogni. Ho studiato, ho iniziato a lavorare, ho accantonato la recitazione. Sino a quando, nel 2003, ho sostenuto e superato il provino per L’amore ritorna, il film di Sergio Rubini dove compare il gotha del cinema italiano. Conclusasi quell’esperienza esaltante, ho capito che non avrei potuto fare nient’altro nella vita. Ho lavorato ancora per il cinema in “È stato il figlio” di Daniele Ciprì, poi in diverse fiction Rai. Il teatro, però, resta il mio più grande amore. Attualmente ho costituito con Paolo Carone, cantautore e musicista, leader del gruppo “Sinthonica”, un progetto denominato “Mistero Salentino”: portiamo a teatro prevalentemente racconti con l’accompagnamento di musica dal vivo”.
In tempo di pandemia, anche per l’arte, come per il virus, servono le USCA: cosa sono esattamente?
“Le USCA sono una creatura di Ippolito Chiarello, che è per me un fratello più grande sulla strada dell’arte teatrale. Ippolito da circa vent’anni si esibisce non soltanto a teatro, ma anche per strada, riducendo la durata degli spettacoli e somministrandoli “a bocconi”. A marzo, il suo “barbonaggio” teatrale si è intensificato e si è trasformato in consegna a domicilio e in consumo da asporto. Per cui le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, nate per garantire assistenza medica a domicilio durante la pandemia, sono diventate nel linguaggio di noi teatranti e per iniziativa di Ippolito, Unità Speciali di Continuità Artistica, attraverso le quali è possibile curare l’astinenza del cuore”.
Quali sono i sintomi e quali le conseguenze di quella che lei chiama “astinenza del cuore”?
“Credo che il sintomo più grave sia l’inaridimento. Un inaridimento che non colpisce soltanto gli aspetti artistici della vita, ma la produzione del pensiero a tutto tondo. Nel corso della storia, gli uomini sono stati capaci di generare e nutrire la bellezza. In questo momento, la chiusura di teatri, cinema e musei sta prosciugando questa capacità. La conseguenza più triste è la perdita della pienezza della condizione umana, che si riduce alla soddisfazione dei bisogni elementari”.
Questa perdita ha anche una ricaduta sociale, cioè sugli spettatori?
“Certamente. Per l’artista il non detto è qualcosa che risuona in testa ininterrottamente, è come avere un continuo ritorno di voce in cuffia mentre si sta parlando. Le parole che si depositano nella mente senza passare per l’apparato di fonazione provocano all’attore una vera e propria malattia. Per lo spettatore quel male non viene alla bocca, ma all’udito: smette di ascoltare e sente soltanto: i numeri dei contagiati, le liti tra virologi, i contrasti tra i politici. È così che ci ammaliamo tutti”.
La sua intenzione è quella di traslare in ambito artistico il meccanismo di diffusione del Covid-19: rendere virale il teatro alimentandone la contagiosità. Come è possibile realizzare questo proposito?
“Credo che un bell’esempio di teatro virale sia proprio l’idea delle USCA lanciata da Ippolito Chiarello, che ha creato una rete di artisti che si influenzano a vicenda e uno sciame di spettatori, alcuni dei quali si comportano da “untori”, aiutandoci a veicolare i contenuti della nostra arte e a renderla, appunto, virale. Ma questo contagio è un compito che spetta a ognuno di noi, non soltanto a chi è artista per professione. Dobbiamo tenere sveglia la consapevolezza di appartenere ad un mondo che crea e fa circolare l’arte. È questo che ci rende esseri umani completi”.
In questi menu da asporto ci sono monologhi scritti da lei?
“Sì, oltre ai racconti della nostra tradizione popolare ho inserito tre monologhi scritti da me, recitati generalmente a teatro, e un adattamento tratto da “Mistero buffo” di Dario Fo. Li eseguo prevalentemente quando so che la richiesta proviene da appassionati e quando le condizioni lo consentono: se siamo per strada, preferisco privilegiare cunti, culacchi e filastrocche. Tra l’altro, proprio in occasione del teatro d’asporto, ho scoperto che quest’ultimo tipo di prodotto non affascina soltanto i più piccoli, ma soprattutto gli adulti, che hanno piacere a riascoltare i fatterelli della loro infanzia. La storia tragica di Cummari Furmiculecchia e Cumpari Surgicchiu, per esempio, riscuote sempre un certo successo!”.
Durante questi mesi durissimi, mentre molti suoi colleghi si sono affidati al web, offendo spettacoli anche a pagamento sulle piattaforme digitali, lei ha portato il teatro in strada, quasi fosse un ritorno alle origini di questa forma artistica: perché?
Nei primi giorni di marzo il mio primo pensiero è stato quello di realizzare un podcast, cosa che effettivamente ho fatto: con “Radio Terrazzo” per più di due mesi ho tenuto compagnia ad amici e fan attraverso registrazioni quotidiane, che spero di poter riprendere. Durante l’estate, quando sembrava che si potesse ristabilire un rapporto diretto con il pubblico, ovviamente l’idea del podcast non aveva molto senso. Poi in autunno sono ricominciate le chiusure e mi sono reso conto che non potevo limitarmi a restare attivo soltanto sul web. Così mi sono ispirato al colpo di genio del teatro d’asporto di Ippolito Chiarello e mi sono attivato per realizzarlo. Il web va bene, continuerò ad utilizzarlo, ma guardare il pubblico negli occhi è tutt’altra cosa. Non dobbiamo mai dimenticare che il termine teatro deriva dalla voce verbale greca “theàomai”, che significa “io osservo”: cosa mai sarebbe un attore senza incrociare lo sguardo degli spettatori?”.
Nel suo curriculum lei scrive, tra le altre cose, “formatore nel campo del problem solving e delle mappe del pensiero”: di cosa si tratta?
“Mi riferisco alle mappe concettuali come strumento di apprendimento rapido. Ho sempre avuto la sensazione che le tradizionali tecniche di studio, utilizzate a scuola e all’università, abbiano rallentato le mie capacità. Soprattutto, mano a mano che mi avvicinavo alla recitazione, si è fatta più chiara la convinzione che non funzionino in contesti come quello teatrale, né per la scrittura, né per la memorizzazione. Se hai un monologo di un’ora e mezza da scrivere e imparare, hai bisogno di ottimizzare i tempi: le mappe mentali servono a questo. Si fissano i concetti principali e poi si sviluppano le reti di relazione. Quando ho iniziato a diventare più esperto, ho messo queste competenze a disposizione degli altri e spesso sono stato chiamato per corsi di formazione in materia. Ho lavorato, ad esempio, con i ragazzi dislessici (che hanno difficoltà di lettura e scrittura) ed è stato molto motivante. Ma il mio campo di applicazione privilegiato resta il teatro”.
Se dovesse definire il teatro con una sola parola, quale utilizzerebbe?
“Io ho una visione molto mistica del mondo del teatro. Lo definisco quasi come una comunità religiosa: ci siamo noi artisti, che siamo un po’ dei sacerdoti, e poi ci sono i fedeli. Come in ogni parrocchia, ci sono fedeli più attivi degli altri, che fanno “catechismo” e si assumono la responsabilità di far conoscere i nostri riti a chi è più lontano. Anche questa visione rientra nel mio concetto di virulenza del teatro”.
Da artista, quali sono le sue aspettative, anche politiche, per il 2021?
“Da questo punto di vista, credo di essere in controtendenza con quanto hanno detto e ancora dicono i miei colleghi. Per me è tutta una questione di crescita nella consapevolezza del nostro ruolo: nel momento in cui iniziamo a darci da fare, evitando le lamentele, iniziamo a piantare il seme per una crescita fruttuosa del nostro operato di artisti. L’arte è perfettamente in salute, perché è divina, è miracolosa. Noi siamo semplicemente canali di trasmissione. Non abbiamo bisogno della politica, il teatro può tornare a stare benissimo sul mercato autonomamente, ci riprenderemo come qualsiasi altra impresa che in questo 2020 ha subito perdite. Piuttosto, dovrebbero essere i politici a comprendere il valore dell’arte e, attraverso essa, realizzare gli scopi sociali per i quali sono stati eletti. Se questo non sarà compreso, faremo da soli, senza abbatterci e senza implorare sostegni”.