Un bagno di luna per Andrea Merlo – Racconti al balcone

La donna sbirciò fuori dalla finestra aperta. L’estate non le dava tregua neanche di notte e non riusciva a prendere sonno. Il mare, a pochi passi dalla villetta, rifletteva la luce chiara della luna. Vide il lampo di una torcia. Un uomo la poggiò sulla riva prima di entrare in acqua. La donna non capiva la strana abitudine di fare il bagno con tutto quel buio. Lei non ci sarebbe mai riuscita. Forse la ritrosia del francese, che abitava nella casa in fondo alla strada, gli impediva di scendere in spiaggia di giorno, fra le grida dei bambini e gli ombrelloni fintamente distanziati. O forse, aveva qualcosa da nascondere. L’accento straniero non aveva ingannato nessuno. Lei aveva capito subito che era solo un poppito di ritorno. Anni trascorsi a lavorare fuori per poi trascorrere la vecchiaia in patria. Tornò a letto. Era quasi l’alba, quando la luce della torcia si affievolì fino a scomparire.

Fusco entrò in ufficio fischiettando. Trascorrere un paio di settimane con la figlia lo metteva di buonumore. Andrea Merlo lo salutò con un cenno, notò la nuova polo di un verde brillante e la cintura allacciata più stretta. La ragazza lo aveva sicuramente convinto a buttare via le magliette più vecchie e lo aveva costretto a rinunciare alla pizza a favore di una dieta più salutare. Usò un lembo della polo per spolverare la cornice sulla scrivania. La foto ritraeva una bambina, ma Merlo aveva il sospetto che per Fusco la figlia avesse sempre quell’età, anche adesso che viveva e lavorava lontano da Brindisi. Micheli si affacciò sulla porta: “Un caso per voi, sembra. Un annegato. Dovreste andare a controllare”. Nessuna delle battute ironiche con le quali era solito bersagliarli. Merlo pensava che la fine degli stupidi insulti, che il collega riservava a buona parte della questura, fosse in relazione con l’occhio nero che sfoggiava da qualche giorno. “Ho preso in pieno uno spigolo” aveva spiegato. Ma nessuno gli aveva creduto, propendendo per la meritata lezione che una vittima poco paziente gli aveva propinato, lontano da sguardi indiscreti. “Miracolo! L’aria condizionata funziona” esclamò Fusco, prima di avviare la marcia. Non lo lasciava mai guidare, con la scusa che, essendo di fuori, non conosceva le scorciatoie per evitare il traffico del centro. A Merlo andava bene, era abituato a pattugliare il territorio in moto e il sedile di un’auto lo metteva a disagio. “Dove dobbiamo andare?” chiese Fusco, aumentando al massimo la potenza delle ventole. “Lido San Biagio, sesta traversa”. “Ma stiamo quasi sotto Lecce” brontolò Fusco, “Che diavolo ci andiamo a fare noi? Quando si tratta di rogne siamo la pattumiera della regione”. Merlo non commentò. Il loro rapporto si basava proprio sul bilanciare esternazioni e silenzi, ma anche su una totale fiducia reciproca conquistata sul campo. Costeggiarono la centrale. L’aveva vista dal mare, dal traghetto che l’aveva portato a Corfù per una consegna di documenti. Era sera e le luci la facevano sembrare una immensa astronave sospesa sulla terra, una Enterprise in attesa di volare verso universi lontani. Al ritorno, alla luce del sole, aveva perso molto del suo fascino notturno. Le imprecazioni di Fusco, che aveva sbagliato a svoltare, lo riportarono nel presente. Dopo un paio di frenate brusche seguite da una retromarcia repentina, individuarono le luci lampeggianti dell’ambulanza. La spiaggia era una stretta lingua di sassi, a ridosso di una serie di case dall’improbabile architettura. Sembrava che ogni proprietario le avesse tirate su seguendo il proprio gusto, munendole di assurde torrette o di tetti spioventi tipici delle baite di montagna. Un piano regolatore impazzito. L’unico vantaggio era la vicinanza al mare. Pochi passi e si poteva godere della frescura dell’Adriatico.
Il corpo di un uomo era disteso sul dorso, il volto piegato di lato. I talloni avevano tracciato due strisce di sabbia e pietre, quando era stato trascinato fuori dall’acqua. Indossava un costume giallo aderente e occhialetti da nuoto. Un pezzo di rete era arrotolato alla caviglia destra. “Maledetti pescatori” brontolò Fusco, “non gli basta ammazzare le tartarughe. Hanno sulla coscienza bersagli più grossi, adesso”. La passione per i problemi della fauna marina non gli si addiceva, all’apparenza, ma Merlo era convinto che, anche in questo, l’influenza della figlia si era fatta sentire. Se la ragazza avesse deciso di difendere i marziani dallo sbarco umano sul loro pianeta, Fusco sarebbe stato in prima linea a sostenere la causa degli omini verdi. O rossi, visto il colore di Marte. Il medico legale dissentì: “L’ho pensato anch’io, ma questi segni lividi intorno alle caviglie mi fanno sospettare che qualcuno lo abbia afferrato costringendolo a restare sotto. Perché è annegato, questo è sicuro. Vi saprò dire”. Si allontanò, prima di abbassare la mascherina e prendere una lunga boccata d’aria intrisa di salsedine: “E anche quest’anno abbiamo finito, con i bagni. Mi riprometto sempre di fare un’ultima calata settembrina, ma non ci riesco mai. Ciao belli, ci sentiamo”. Arrivò all’auto, prima di togliersi la tuta bianca e accendere una sigaretta. Merlo si chinò sul cadavere. L’uomo era alto e magro, con capelli grigi lunghi legati a coda con un elastico. Un anellino d’argento all’orecchio sinistro e un tatuaggio lungo la coscia dallo stesso lato: Liberté- Illégalité- Fraternité. Più anarchico che patriottico. “L’hanno trovato alle otto di stamattina” spiegò un agente indicando una famiglia poco lontano. A una decina di metri, un ombrellone azzurro proteggeva dal sole una coppia, che sorvegliava due bambini intenti a costruire un castello di sassi. Avevano avuto il buongusto di dare le spalle alla scena, anche se la donna si voltava continuamente per tenere d’occhio la situazione. Diede uno strattone all’uomo seduto accanto a lei, appena li vide avvicinarsi.

“Abitiamo là” disse la donna, indicando una casa bianca proprio a ridosso della spiaggetta. “Io stanotte l’avevo visto. Come nu lupu sunaru, parlava poco e si faceva il bagno col buio. Bongiur e bonsuar, se lo incontravi per caso. Non sappiamo manco come si chiama di nome. Stamattina mio marito è sceso presto per mettere l’ombrellone e l’ha visto sopra a quegli scogli. Così è entrato nell’acqua e l’ha trascinato fino a riva. Si è fatto pure male alla spalla, si è fatto”. L’uomo accanto a lei annuiva senza parlare. Appena arrivato a Brindisi, Merlo si era stupito di quelle logiche familiari, con i mariti capi ufficiali di una famiglia dove erano le mogli a dettare le regole. La suddivisione dei ruoli sembrava diversa al suo paese. O forse, semplicemente, la sua gente era scarsa di parole. “Lo conoscevate bene?” chiese Fusco. Si occupava sempre delle prime domande. La sua capacità empatica lo faceva sembrare innocuo. Un poliziotto che non metteva paura, con la polo nuova e la pancetta debordante sui pantaloni. Merlo guardava verso il mare, con apparente indifferenza. Conosceva il copione. Avrebbero negato, per poi fornire spontaneamente una enorme quantità di informazioni, fra le quali scegliere quelle più utili a risolvere il caso. Sempre che ci fosse, un caso. “No, non si faceva conoscere da nessuno quello. Sempre per i fatti suoi. Viveva in Francia. Una storia strana, mi raccontava mia madre. La mamma, Chiatorina, l’aveva fatto con uno che poi non se l’era voluta sposare e così l’avevano cacciata di casa. Tanti anni fa, quando ancora succedevano queste cose. Quella poveretta era andata a stare da certi parenti che, per pietà, se la tenevano come serva. Però il giorno che nacque il bambino, il padre se ne venne dalla Francia e se lo prese. Allora la famiglia si mise una mano sulla coscienza e fece venire Chiatorina nella casa di qua, che c’era tutta campagna. Il padre disse che questa casa gliela intestava a lei, ma che non doveva più stare con la famiglia. E quella è stata qua tutta la vita. Sola si coltivava la terra dietro casa! Poi prese il posto di bidella, a Torchiarolo. Forse qualche parente di quello che l’aveva messa incinta l’aveva aiutata. Quando è morta, peccata, l’hanno vista quelli accanto stesa in mezzo ai pomodori. I parenti sono arrivati che si volevano spolpare la casa, che quella non spendeva niente e doveva tenere soldi positivi. Però, venne un avvocato che disse che c’era un testamento e andava tutto al figlio. Così poi è arrivato. A giugno è stato, che noi ce ne veniamo presto qua. All’inizio della stagione ci prendiamo i nipoti e ce ne veniamo. Specialmente quest’anno che sono stati chiusi a casa tanto tempo”. Il marito continuava ad annuire. Intanto, alle loro spalle, un sacco nero si chiudeva sul cadavere. Un agente stava infilando la torcia in una busta di plastica. “Madre e figlio non si erano mai incontrati?” chiese Fusco. I due si guardarono, poi la donna riprese: “Non sappiamo. L’estate, o anche se venivamo d’inverno a controllare la casa, io mi allungavo a salutare Chiatorina. Lei parlava sempre del figlio, però, come devo dire, sembrava che non ne sapeva niente. Diceva: sapi c’è scola è fattu, sapi ci s’è spusatu, magari sontu nonna e no lu sacciu. Non diceva mai che aveva saputo qualcosa. Però una volta avevo visto una fotografia, sulla mensola in cucina, di uno che mi sembrava proprio il francese, quando era più giovane. Se sta ancora la potete vedere pure voi. Se quelli non l’hanno buttata prima”. Merlo intervenne: “Vi risulta che i parenti della signora siano mai venuti a incontrare il nipote?”. Il tono era professionale e la donna sembrò allarmarsi. Ci mise qualche secondo a rispondere. “Una volta, sicuro. Non ti ricordi?” chiese conferma al marito, “stavamo seduti fuori e cominciarono certe grida… che non potevamo non sentire. Il francese non si capiva bene, perché parlava italiano però strano, con la erre che tengono loro. Quelli dicevano che la casa non se la poteva tenere, che era loro e non gli toccava. Ma quello li sapeva bene i fatti suoi, che gli disse che avrebbe fatto causa anche per tutte le altre proprietà, che alla mamma non era toccato niente quando era morto il nonno e che, a come l’avevano trattata, gli avrebbe tolto pure le mutande”. Ridacchiò: “Non si ricordava come si dice mutande in italiano, e diceva slip, slip. Poi si vede che gli è venuto in mente”. Merlo la ringraziò, avvisandola di tenersi a disposizione. “A scavare, non trovi mai acqua ma solo spazzatura” commentò Fusco, “tu che ne pensi?”. Merlo sospirò. Ci voleva molta forza per tenere sott’acqua un uomo fino a farlo affogare. Un sub? Più di uno? Gli sembrava complicato. E la rete? Una aggiunta per fuorviare gli investigatori? Certo, il movente c’era, ma la fattibilità? Rientrarono in questura. “Scusate, sono arrivati i dati del morto dalla Francia” li interruppe Micheli. Fusco allungò la mano per prendere il foglio, senza degnarlo di uno sguardo: “Si chiamava Alain Bastille Perrone. Risulta nato a San Pietro Vernotico il 14 luglio del 1955, di Pietro Perrone e Teodora Russo. Che nome è Bastille?”. “È nato il giorno della presa della Bastiglia, la festa nazionale in Francia” rispose Merlo, “aveva un padre immigrato e patriottico”. “Secondo te, era una testa calda?” chiese Fusco. Lasciava le riflessioni ad Andrea Merlo; era bravo a far parlare la gente, ma preferiva evitare di trarre conclusioni senza il parere del collega: “Era impiegato alle ferrovie. In pensione da pochi mesi. Non risultano mogli o figli. C’è solo una segnalazione nel 1969. Qualche manifestazione studentesca. Poi niente”. Micheli riapparve: “C’è un certo Perrone Angelo. Dice di essere il cugino del morto. Posso farlo entrare?”. L’occhio sembrava più scuro, come il suo umore. “A chi sputa all’aria, in faccia gli va” commentò Fusco, sottovoce.

Angelo Perrone si presentò come l’avvocato del morto. “Curavo i suoi interessi, come aveva fatto anche mio padre. Ci occupavamo della povera Teodora, di nascosto dalla sua famiglia. Brutta gente, bigotta e gretta, sarebbero stati capaci di scatenare un putiferio, se avessero saputo che la aiutavamo”. “Come mai questo astio nei confronti della donna?” chiese Merlo, che restava sempre perplesso di fronte a certe dinamiche familiari. “Un padre padrone, sostanzialmente. Teodora era l’unica figlia femmina e l’avevano promessa a un proprietario terriero confinante, per unire le vigne. La nostra famiglia era povera e mio nonno era andato a lavorare in Francia con mio zio, che era il più grande dei figli, per aiutare la famiglia rimasta qui. Pietro venne in vacanza un’estate. Aveva diciotto anni e conobbe la Teodora, che non ne teneva neanche quattordici. Così accadde quello che accadde. Se la voleva sposare, ovviamente, ma non ci fu verso. Anche quando nacque Alain, venne subito per portarsela via ma la povera ragazza era minorenne e senza il permesso del padre non poteva partire. L’onore violato della famiglia e stupidaggini del genere. Poi lo zio conobbe una ragazza e si sposò. Il bambino aveva bisogno di una mamma. Però ha sempre pensato alla Teodora, mandava soldi e lettere dove parlava del figlio. Noi gliele facevamo avere di nascosto. Lei le leggeva e poi ce le lasciava da custodire, nel caso il padre le avesse scoperte. Una vita terribile. I fratelli non sono stati da meno e quel che è peggio hanno inculcato anche ai figli questo astio immotivato, dopo tanti anni. Per fortuna riuscimmo a trovarle posto in una scuola elementare, così non ha avuto più bisogno della carità di nessuno”. Un vociare improvviso interruppe la conversazione. Micheli entrò trafelato: “C’è un certo Antonio Russo, sta facendo il diavolo in quattro perché vuole entrare nella casa del morto. Dice che adesso è loro”.
Un uomo rosso in viso lo scostò per entrare. Appena vide Angelo Perrone, il rosso virò al purpureo: “Che stai facendo qui? Avete finito di approfittare delle cose nostre. Come quello, che è arrivato da lontano per toglierci il pane di bocca. Falla ora causa, o te le vuoi prendere tu, le cose nostre?”. L’avvocato non fece una piega, si rivolse a Merlo scusandosi, poi rispose: “Continuo a curare gli interessi di Teodora Russo e di suo figlio. Alain ha due fratellastri. Come espressamente dichiarato nel testamento, redatto in presenza di testimoni e depositato presso un notaio, le sue proprietà in Italia vanno a loro. Inoltre, ho già mandato di agire per impugnare il testamento di tuo nonno e far riconoscere la legittima quota di Teodora ai suoi eredi”. “E chi pensi che ti paga, adesso, per fare tutte queste cose?”, continuò Russo con tracotanza. “Considerando che le possibilità di vincere la causa sono il cento per cento, tutte le spese legali le pagherete voi. Avete finito di tormentare quella poveretta anche ora che non c’è più”. Merlo intervenne: “Signor Russo, abbiamo motivo di credere che la morte di Alain Bastille Perrone sia sospetta. Dove si trovava lei la notte scorsa?”. L’uomo lo fissò stranito. Ci mise qualche secondo a capire il senso della domanda. “Sospetta? Come sospetta? L’hanno ammazzato? Io ero a casa” ci pensò ancora, “sì, io ero a casa. Avevamo cenato da mio fratello Luigi e poi siamo tornati. Era il suo compleanno. Stavamo tutti lì. Non siamo stati noi!”. Era sbiancato di colpo, l’ira aveva lasciato il posto alla paura. Poi sembrò reagire: “Perché non indagate in Francia? Era uno strano, con i capelli lunghi e quel tatuaggio… Qui vengono tanti francesi in vacanza. Anche quest’anno con tutto il virus. E se era un delinquente e l’hanno seguito fino a qua? Noi non siamo stati, stavamo tutti da Luigi”. Cominciò ad arretrare verso la porta. Merlo continuava a fissarlo: “Interrogheremo tutti i partecipanti alla festa, per ora siete gli unici ad avere motivi di rancore verso la vittima. Le consiglio di tenere per sé questa conversazione, siamo abili a scoprire versioni concordate. Per ora, può andare. Si tenga a disposizione”. Fusco nascose l’ilarità dietro un colpo di tosse: quando ci si metteva, Merlo era abilissimo ad intimidire gli interlocutori. “Grazie avvocato, ci è stato molto utile per chiarire la situazione. Dobbiamo chiederle il riconoscimento formale del cadavere, se può”, disse Merlo, alzandosi. Si strinsero la mano. Non appena fu uscito, Fusco commentò: “Non lo invidio proprio. Brutta gente. Spero gli cavi il più possibile”. Raddrizzò la foto della ragazzina sorridente, per la quale, Merlo lo sapeva, avrebbe dato la vita. Il telefono squillò. Era il medico legale: “Ho studiato meglio i segni sulla caviglia. Potrebbe esserseli procurato da solo. Ha un’unghia spezzata e ho trovato il pezzetto mancante nella rete. Si sarà impigliato mentre nuotava, ha cercato di liberarsi, è stato preso dal panico e alla fine avrà cominciato a bere. Capita. Non mi sembrava molto in forma, fisicamente. Ci sono cicatrici di un intervento al cuore, forse si stava riprendendo da un infarto. Vi confermerò tutto dopo l’autopsia, ma sarei propenso a credere che sia una morte accidentale, salvo sorprese dell’ultim’ora. Ciao belli”. Li salutava sempre così, come avesse bisogno di mitigare il peso delle tragedie condivise per lavoro. Merlo era deluso, come sempre. Con Montalbano, condivideva lo squallore e la bassezza di certe vicende umane, ma non gli capitava mai di mettere alla prova il proprio ingegno nel risolvere un caso, a differenza del commissario di Camilleri. “Che dici, interroghiamo lo stesso quei bastardi?” chiese Fusco. “Perché no? Hai sentito cosa ha detto il medico legale: dobbiamo considerare le sorprese dell’ultim’ora” rispose Merlo.
“Bene. Così gli andrà di traverso la torta del compleanno. Qualche sera ci andiamo a mangiare cozze e pesce buono. Ti porto io. Magari quando torna mia figlia, così te la presento”. Fusco aveva sempre tenuto rigorosamente separate la vita privata e quella lavorativa. Andrea Merlo sorrise, quella proposta era una specie di promozione. Con le cozze, il pesce buono e l’onore di fargli conoscere sua figlia, Fusco gli conferiva ufficialmente la qualifica di brindisino onorario e collega perfetto.