Una scelta difficile – Racconti al balcone

Ronaldo aprì il portone mentre all’angolo della strada si spegneva l’eco di “o fenomeno” col quale gli altri rider lo salutavano tornando a casa. Maledisse per l’ennesima volta quel nome affibbiatogli dal padre quando il secondo Ronaldo sgambettava ancora con i ragazzini e era lontano dall’intaccare la fama del suo omonimo. Perché era nato proprio il giorno dell’assegnazione del pallone d’oro? Aveva tradito le aspettative paterne. Era cresciuto mingherlino e il primo giorno di scuola calcio si era fratturato una caviglia. Una carriera finita ancora prima di cominciare. Sollevò la bicicletta per appenderla ai ganci sul muro dell’ingresso, poi entrò nella lavanderia sotto le scale. Tolse la mascherina, disinfettò mani e si sciacquò la faccia. L’immagine nello specchio era stanca. Il segno rosso sul naso accentuava le rughe agli angoli degli occhi. La pandemia aveva invecchiato tutti, specialmente quelli che lavoravano di notte come lui. L’unico svago era sfrecciare per le vie deserte, avvolti nel profumo di pizza che si infiltrava fra le cerniere della borsa termica.
E, naturalmente, avere un motivo per uscire e prendere aria dopo un giorno passato a saltare fra canali televisivi con la musica sparata nelle orecchie. Presto tutto questo avrebbe avuto fine. Un’isola delle Canarie, non troppo grande. Lui e Andrea venivano fuori dall’Alberghiero e l’idea era di mettere su un chiosco sulla spiaggia. Orecchiette e polpette, alla maniera delle nonne pugliesi, vino rosso o birra per annaffiarle. Avevano studiato a lungo la fattibilità e avevano messo da parte qualche soldo, tanto per cominciare. Però avrebbe avuto bisogno dell’aiuto economico di sua madre e quello sarebbe stato un problema. Era andata via quando aveva sedici anni.
Al ritorno da scuola, aveva trovato le valigie pronte in cucina. “Non ce la faccio più” gli aveva detto. “Perché” aveva chiesto incredulo, “papà ti maltratta? Ti tradisce? O sei tu che hai un altro?”. Aveva scosso la testa: “No, niente. È questo il punto, tutta la mia vita con lui è niente. Mai una carezza, un abbraccio, una parola. Si alza e va al lavoro e poi torna, cena, beve una birra piazzato davanti al pc. Sono meno di una cameriera. E quando gli chiedo cosa c’è che non va o provo a scuoterlo, mi guarda come fossi pazza. Ma io sono viva, Ronaldo, viva. Vieni con me. Ho trovato lavoro come insegnante a Trento. Ho una laurea, dopotutto”. Non aveva voluto, anzi aveva rinnegato quella donna egoista che, senza motivi validi, li aveva abbandonati. Perché il niente non poteva essere la causa di una separazione, soprattutto quando c’era un figlio. Lei era partita e aveva continuato a mandargli lettere e messaggi. Anche soldi, quando poteva. Poi aveva incontrato un altro uomo e si era risposata. Nelle foto sembrava felice.
Ronaldo non le aveva mai risposto. Sapeva che la nonna la teneva aggiornata e provvedeva a comprargli dei regali per suo conto. Si asciugò il viso e salì in casa. Il russare del padre si sentiva già dalle scale. Si era addormentato sul divano, come sempre. Il tablet in bilico sulle ginocchia e la bottiglia sfuggita dalla mano sul pavimento. Spesso, miracolosamente, si teneva dritta senza rovesciarsi e Ronaldo non era costretto a ripulire la birra versata. Sul tavolo in cucina c’era il piatto di pasta scotta che si ostinava a lasciargli per cena. Mai nulla di diverso, come un panino, un minestrone precotto o anche solo un’insalata e mozzarella. Per fortuna, quando la serata era particolarmente fruttuosa, il pizzaiolo gli preparava una margherita come mancia. La mangiava a morsi fuori dal locale, piegata in quattro, attento a non scolarsi la salsa addosso.
Ci aveva messo anni, ma aveva capito perché sua madre era andata via. La noia finisce con l’uccidere qualunque rapporto. Ci aveva provato, l’aveva trascinato allo stadio per poi vederlo seguire il pallone con gli occhi senza alcun entusiasmo. Al cinema, in giro con la bici, a mangiare cinese. Restava apatico e lo guardava ogni volta con lo sguardo spento e vagamente interrogativo, come si chiedesse il motivo di tanto sbattersi in quella pace perfetta nella quale viveva. Gettò la pasta fra i rifiuti, si versò un bicchiere di vino, lavò le stoviglie. Poi abbracciò il padre per sollevarlo e accompagnarlo a letto. Lui sospirò. “Mariolina” lo sentì sussurrare. Stava sognando. Ronaldo aveva quasi dimenticato il suono della sua voce. Riuscì a trascinarlo nella sua camera. Gli poggiò la testa sul cuscino e gli slacciò le scarpe. L’uomo socchiuse gli occhi: “grazie figlio mio”, provò a sollevare la mano come per fargli una carezza ma riprese a dormire. Ronaldo lo coprì perché non avesse freddo. Poi tornò in salone.
Vide la foto per terra dietro al tavolino. Erano tutti e tre insieme. Lui aveva il gesso al piede e il padre lo teneva in braccio, indicando l’obiettivo. La madre li avvolgeva con le braccia, sulle punte dei piedi. Ridevano.
Dietro c’era una data, 15 settembre 2004, e la scritta “Campione mancato, figlio snaturato, amore smisurato”. Un flash. Un tempo lontano in cui i suoi genitori parlavano in rima, completando le frasi a vicenda. Quando si era persa quella felicità? Quando avevano smesso di essere complici? Quanto dolore c’era dietro quei silenzi, quel lasciar scorrere la vita senza reagire? Tornò indietro e poggiò la foto sul comodino. Avrebbe telefonato a sua madre. Le avrebbe detto che aveva compreso, che aveva perdonato. Doveva costringere suo padre a farsi aiutare, magari convincerlo a partire con lui. Ad Andrea non sarebbe dispiaciuto aspettare ancora un anno.
Potevano cambiare tante cose, in un anno.