Virus/Racconti al balcone

C’è poco da scherzare” disse nonna Paola, mentre spargeva cacio ricotta a piene mani sulle orecchiette, “io me la ricordo la spagnola, un sacco di morti. Cercavamo di aiutare i malati, ma non c’erano altre cure che pezze fredde per la febbre e latte caldo, quando c’era”. Nessuno fiatò. Sapevamo che era sua abitudine raccontare avvenimenti del passato in prima persona come se fosse stata presente, anche se era nata all’inizio degli anni Cinquanta. Era una specie di vezzo, trasformare in vita vissuta la sua conoscenza della storia: poteva essere ancella di Cleopatra o camicia rossa al seguito di Garibaldi, persino mozzo sulla nave di Colombo. Con questa epidemia del Coronavirus era diventata collega di Florence Nightingale e Louis Pasteur. Nessuno di noi commentò ironicamente, come facevamo di solito, il problema era serio e non ci sentivamo di fare battute di spirito. Papà intervenne. “Mamma, hai ragione, ma sono passati cento anni, siamo molto più attrezzati adesso, fidiamoci delle informazioni ufficiali e cerchiamo di stare tranquilli”. Nonna Paola cominciò a preparare i piatti, abbondanti come al solito: “Si, si, stiamoci tranquilli e intanto il virus cammina e se ne va in giro. Che ne sappiamo se quello che ci dicono è vero? Ce l’hanno infettato i pipistrelli. Anche da noi ci sono. Pensa che li abbiamo allevati per combattere la malaria. Perché mangiavano le zanzare. E che ne sappiamo da dove li facevano arrivare quei pipistrelli? E se venivano dalla Cina?”.
Io ho infilato la testa nel piatto e ho cominciato a soffiare sul boccone bollente, così nascondevo la risatina che mi era venuta su. Ma papà ha continuato a darle corda, per farla ragionare. “Mamma, ammesso e non concesso che venissero dalla Cina, ormai saranno stramorti. Le bat-tower sono un reperto storico. Cosa vuoi che ti possano fare? E quando mai tu hai visto un pipistrello?”. La nonna continuava a scuotere la testa: “Sempre superficiale, come quando sei andato in Grecia e sei tornato con il naso spellato perché non avevi messo la Nivea protettiva. E se si trasmette con le cose e non solo con le persone? Devo controllare se i vestiti che ho sono Made in China, così li butto via. E devo ricordarmi di cambiare marciapiede, quando passo davanti al ristorante in fondo alla strada, non si sa mai”. Continuai a soffiare sulle orecchiette, imitato da mio fratello, che aveva le lacrime agli occhi per lo sforzo di trattenersi. Mia madre, invece, faceva come sempre finta di non sentire, intenta a seguire Beautiful in televisione, anche se non c’era audio. “Quel ristorante serve sushi, i gestori sono giapponesi. Quindi… Non serve a niente evitare di avvicinarsi ai nostri concittadini cinesi. Il virus non è razzista, non bada all’etnia, se deve infettarti. Che ne sai se il tuo salumiere ha una fidanzata che vive a Wuhan? O se il postino ha mangiato involtini primavera?”, commentò mio padre, “e in Grecia ci sono andato a diciotto anni, figurati se stavo a pensare alla crema”. Nonna gongolò: “Appunto, superficiale! Mai a pensare alle cose serie. Ci dobbiamo difendere. Non vedi che vanno in giro con le tute bianche e le mascherine? Ma, secondo te, ci dobbiamo procurare le maschere antigas? Esistono ancora? Dovevamo farci un rifugio antiatomico, c’è tanto spazio in campagna”. Mi sembrò che il respiro di mia madre si fosse bloccato di colpo. La prospettiva di essere rinchiusa in uno spazio angusto insieme alla suocera doveva averla terrorizzata.
Papà mandò giù una forchettata prima di continuare: “Non è necessario. Se proprio vuoi, basta seguire le regole elementari di igiene. Lavarsi le mani, cercare di evitare gente ammalata, non stare troppo addosso alle persone. Come fai tu, quando sei in coda da qualche parte e cerchi di dare fretta a chi è prima di te alitandogli sul collo. Così eviti di prenderti un banale raffreddore o l’influenza. Cosa attualmente molto più probabile del coronavirus”. Nonna si alzò per portare via il suo piatto. Un’altra delle sue capacità era quella di riuscire a mangiare e parlare contemporaneamente. Non le andava mai nulla di traverso. Continuò la sua filippica: “Io preferisco essere prudente. E dovete farlo anche voi. D’ora in poi non dovete partire più, non dovete andare al cinema e neanche al ristorante, tanto potete venire qui dove ci sono io a cucinare”.
Mi sono animato all’improvviso: “Allora neanche a scuola! In classe mia ci sono quelli dell’Onu. Vengono da tutto il mondo. Ha ragione nonna, dobbiamo essere prudenti”. Mio fratello si è messo a saltare sulla sedia per esprimere la sua approvazione alla proposta. Ma papà ha stroncato l’idea sul nascere: “Non dite fesserie. Nessuno cambierà le proprie abitudini. Altro che niente scuola”. Mia madre è intervenuta per la prima volta: “La mia collega è stata in viaggio di nozze in Cina l’anno scorso. Forse tua madre ha ragione, dobbiamo essere prudenti. Sarà meglio non venire più a pranzo da lei finché non è passata l’emergenza. Non sappiamo ancora quali sono i tempi di incubazione”. Ha fatto un largo sorriso, pieno di speranza. Nonna è rimasta impietrita, le pupille saettavano da tutte le parti e le guance sono diventate rosso fuoco. “Mamma, stai bene?” ha chiesto papà, preoccupato. Si è accasciata sulla sedia, una lunga inspirazione: “Tranquilli. Dobbiamo stare tranquilli. Continuare con la nostra vita. Hai ragione, figlio mio”. Si è alzata e ha preso l’arrosto dal forno. “Magari”, ha continuato, “Compro un gel di amuchina così ci disinfettiamo per bene le mani prima di mangiare”.
Poi ha cominciato a servire le patate.