Wikipedia, quando a perdere è la cultura, anche sulla storia di Brindisi e del Salento

Bisogna riconoscerlo: anche noi attempati siamo ormai presi letteralmente dalla rete, quella per intenderci dei protocolli che permettono la navigazione in internet. Abituati alle ricerche vecchio stampo, dove ogni dato era una sudata conquista dovuta alla nostra capacità d’analisi, restiamo esterrefatti da questo nuovo metodo che offre le informazioni su un piatto d’argento, in maniera sempre più rapida e semplice.
Di fronte a questa efficienza informativa, hai voglia che i bibliotecari s’inventino brillanti spot per stimolare i giovani a riscoprire le biblioteche, se queste sono poi gestite come quando Berta filava ed i telefoni avevano ancora i fili. La pubblicità servirà a far loro guadagnare qualche like oppure a dar sfoggio d’intraprendenza, ma non cambierà di certo il corso degli eventi. Per competere, le strutture bibliotecarie dovrebbero adeguarsi invece ai tempi cercando di sfruttare le risorse informatiche in maniera dinamica, magari ponendo finalmente a disposizione online la preziosa documentazione che adesso langue in poco usati archivi. Avere, in altri termini, riguardo per i nuovi approcci conoscitivi che non possono prescindere dalla fruizione di fondi librari digitalizzati, consultabili quindi pure da casa.
Ormai l’ottica dovrebbe essere rovesciata: è la biblioteca che deve avvicinarsi alla gente, e non pretendere che la gente vi si debba necessariamente recare.
Mentre i servizi bibliotecari continuano ad essere erogati con l’abituale tran-tran, facendo così perdere memoria delle ricchezze possedute, i motori di ricerca conquistano sempre più larghe quote di mercato, assumendo una posizione di privilegio nella diffusione delle conoscenze. E questo, parrà strano, avviene proprio con la perdita dei dati più accurati e circostanziati, e con la propagazione di notizie in genere scadenti ed imprecise, se non addirittura false. Accade infatti che nel nostro Paese l’opera di digitalizzazione pare sia stata imbastita, non tanto per innovare, quanto piuttosto per giustificare la ripartizione delle quote collegate ai progetti incentivanti. E, in seguito, per dare un qualche credito a quei progetti, altisonanti nelle intenzioni, e poveri di contenuti nei fatti, di cui a intervalli periodici si sente lo strombazzo all’avvio, ed il silenzio più assordante nel prosieguo. Quelle proposte, etichettate con suggestione “digital library”, che lasciano intravedere mirabilie e che, in seguito, fanno già fatica a superare la serata inaugurale, comunque zeppa d’illustri ospiti.
Salvo apprezzabili eccezioni, la poca sostanza che emerge da tali iniziative digitali si ferma in genere alla riproduzione di materiale di scarso valore scientifico, contenente riflessioni datate che offrono ben pochi spunti utili. In pratica la rete viene inondata di teorie non più valide che, riciclate nei vari blog, finiscono per creare un’informazione di fatto distorta.
Per rendersene conto, basterebbe pensare a Wikipedia, ormai divenuto il dispositivo principale da cui studenti e cronisti traggono le notizie essenziali per le proprie ricerche.
Ora, se tale strumento fosse affidabile, non ci sarebbe motivo per lamentarsi. Il problema è che, per come è strutturato, è quanto di più aleatorio possa trovarsi, condizionato in pratica dall’anonimo compilatore di turno. E questo avviene in modo particolare nei riguardi degli argomenti meno codificabili, come ad esempio le antichità.
In questo campo l’enciclopedia online rappresenta un perfetto collage dei dati recuperabili in rete, elencati per lo più alla bell’e meglio, con poche valutazioni critiche, in quanto queste presupporrebbero competenze forse non possedute da chi cura i testi: un minimo di dimestichezza con gli autori antichi e con le lingue che essi utilizzavano. Non c’è pertanto da stupirsi se, per particolari questioni, Wikipedia finisca per costituire un contenitore di stranezze e, allo stesso tempo, un possibile volano per la creazione di ulteriori bufale.
È infatti sufficiente soffermarsi con un po’ d’attenzione sulle schede relative alle antichità brindisine e salentine per rilevare grossolani errori, importanti omissioni e bizzarrie d’ogni tipo, pure su questioni pacifiche, sulle quali non c’è storico degno di tal nome che si trovi in disaccordo. Anche in questi casi banali Wikipedia mostra i suoi limiti. Capita così che Brindisi non risulti neppure essere mai stata colonia latina; oppure che divenga municipium, o acquisisca la cittadinanza romana, in tempi e per motivi che variano da scheda a scheda, ad estemporaneo parere dello specifico estensore e sulla base di apprezzamenti bislacchi, lontani da ogni possibile realtà storica.
La fabbrica delle fantasie che si attiva tra i compilatori di Wikipedia arriva pure a conseguire in certe occasioni effetti a dir poco stupefacenti e, a volte, addirittura spassosi.
Ne sa qualcosa Strabone, geografo pontico, a cui la rete attribuisce affermazioni da lui in realtà mai fatte. In una, Wikipedia fa risalire il toponimo Salento, assegnato alla nostra terra, proprio ad un suo passo. Gli si fa infatti impunemente affermare che il termine Salento ebbe origine «dal nome dei coloni cretesi che qui si stabilirono, chiamati Salenti in quanto originari dalla città di Salenzia». In effetti il geografo, nella sua opera, non ha mai neppure fatto cenno a questi fantomatici Salenti, originari della ancor più immaginaria città cretese di Salenzia, essendosi limitato a riportare sulla questione solo un’antica tradizione: «Dicono che i Salentini siano coloni dei Cretesi».
L’aspetto curioso è che la citazione del tutto estemporanea — indicativa in aggiunta di come la conoscenza degli autori antichi si basi più che altro sul sentito dire — è stata ripresa praticamente da tutti i blog ed i siti che trattano la storia delle nostre contrade, come chiunque potrebbe verificare lanciando una ricerca su Google impostata sulla frase incriminata. Sicché sorge il fondato sospetto che la pratica del copiare ed incollare sia ormai molto diffusa e che il nomignolo di «alienorum laborum fucus» (parassita di lavoro altrui), coniato a suo tempo da Giuseppe Giusto Scaligero, sarebbe azzeccato per tanti scrittori del web.
In verità, in questo caso, più che di bufala confezionata di recente, sarebbe corretto parlare di fake di ritorno, essendo una ciarla già in circolazione secoli fa, finché un letterato, Girolamo Marciano, vissuto tra il XVI e XVII secolo, non l’aveva bollata come tale. Dopo un silenzio durato trecento e più anni, essa è stata riportata in auge appunto da chi, contando esclusivamente sulla rete per acquisire informazioni, l’ha ritrovata su un vecchio testo, probabilmente digitalizzato in occasione di chissà quale progetto.
Ciò non toglie tuttavia l’esistenza di recenti rielaborazioni creative della stessa frase erroneamente attribuita a Strabone, che hanno addirittura generato un nuovo popolo, i Sallenzini, fantasioso già da un punto di vista linguistico e dislocato, in aggiunta, in una località (Taranto) in cui tutti gli studiosi collocano invece i coloni di origine lacedemone, fieri antagonisti dei nostri progenitori brindisini.
Sperando che prima o dopo qualcuno non s’accorga che la terra è ridiventata piatta, sarebbe augurabile che nel frattempo i consulenti di Wikipedia scoprano l’esistenza delle biblioteche. E, soprattutto, che le biblioteche vogliano uscire dagli schemi tradizionali in cui si sono confinate, proponendosi finalmente in senso moderno. Magari cercando d’invogliare i possibili utilizzatori, non solo con incontri e manifestazioni — che, quando fini a sé stessi, servono solo a fare passerella — ma in particolare potenziando i servizi online, in modo da rendere l’accesso ai documenti agevole e possibile anche a distanza.
In definitiva varrebbe la pena di trasferire le collezioni dallo spazio fisico a quello digitale; in caso contrario le biblioteche rischiano con l’andare del tempo di diventare «un obitorio di libri» e di lasciare sempre più spazio alle forme culturali imposte dalla rete.
Con buona pace di chi, pur intonando periodicamente alti lai, continua a non fare nulla di rilevante per invertire simile deprecabile trend.