La memoria e la cultura dell’indifferenza: scegliere di non scegliere

Il 13 ottobre del 1943, da Brindisi, il presidente del Consiglio del Regno del Italia dichiarava guerra alla Germania. E’ il primo atto politico significativo del governo presieduto dal vecchio maresciallo Badoglio, in nome e per conto di quello che restava del Regno. Già. L’Italia!

Nella dichiarazione di guerra si legge intera la sconfitta di un modello politico e la ricerca di aggrapparsi ad una zattera di passaggio, ma giusto quella gli viene offerta dalla possente corazzata angloamericana che vieterà agli italiani di salire a bordo della sua possente macchina da guerra che vuole sconfiggere – e lo farà – i totalitarismi nazifascisti.
Il governo Badoglio dichiara guerra alla Germania ma il Regno del Sud con capitale Brindisi, non assume la dignità di alleato e diventa “cobelligerante” (!). Le forze armate italiane potranno fregiarsi del tricolore che mai è stato ammainato a Brindisi, e con la propria bandiera combattere contro i tedeschi, al fianco  degli angloamericani, ma non potranno mai coronarsi dell’alloro della vittoria, né potranno sedere alla fine della guerra al tavolo della pace quali vincitori. (ma questo al 13 ottobre sono pochi a saperlo). L’Italia pagherà a ben 32 nazioni i danni di guerra.
Gli italiani lo chiamavano Regno del sud, gli angloamericani lo chiamavano con un pizzico d’ironia “King’s Italy” però era è una delle tre parti in cui risultava divisa l’Italia, la più piccola; comprendeva le province pugliesi di Brindisi, Lecce, Taranto e Bari. Sulla carta, ma solo su quella, comprendeva pure la Sardegna.
L’Italia meridionale e la Sicilia erano occupate dagli eserciti angloamericani e sottoposte a un governo militare alleato.
L’Italia centrale e settentrionale invece era sotto occupazione militare tedesca. Sotto il comandante militare (il feldmaresciallo Albert Kesserling), diciannove comandi territoriali, che hanno ai loro ordini la Wehrmacht, le “SS”, la polizia e reparti italiani di sicurezza, formati da elementi provenienti dall’Arma dei carabinieri e dalla Milizia fascista.
C’è anche un’altra parte dell’Italia, che però non è più Italia, perché annessa al Reich tedesco: le province di Bolzano, Trento e Belluno (“Voralpenland”) e di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume e Pola (“Künstenland”). La Germania le considera “zone di operazioni” e il governo è affidato a autorità civili insediate e controllate da alti commissari tedeschi.
E poi ci sono loro, i tanti, i troppi italiani, soldati dimenticati dalla patria e dispersi sui vari fronti.
Sono 300 mila i soldati italiani prigionieri degli inglesi in India e nel Kenya e degli americani negli Stati Uniti; e ci sono 700 mila deportati che i tedeschi “ospitano”, ironia, nei campi di concentramento che hanno realizzato soprattutto in Polonia, nazione succube del terzo Reich e contemporaneamente dell’Unione Sovietica.
Gli IMI, questo l’acronimo degli Internati Militari Italiani saranno vessati dai tedeschi, in quell’autunno del ’43 con la minaccia che se non avessero aderito alla repubblica Sociale di Mussolini, come fu loro proposto (ricevendo una stragrane maggioranza di rifiuti), avrebbero subito “i trattamenti” previsti per gli altri ospiti dei lager.
La dichiarazione di guerra del piccolo regno del sud aveva un solo dovere, quello di preservare la vita di uno Stato in agonia e forse, la condizione dei troppi militari italiani prigionieri e deportati che solo un atto formale poteva trasformare agli occhi dei tedeschi da traditori a prigionieri. (ma la storia degli IMI non è stata così semplice.
Quanto dolore abbia comportato la tragicità degli eventi che datano esatti 70 anni da oggi, è racchiudibile nelle parole che l’allora semplice cappellano militare padre Giulio Bevilacqua pronunciò in una messa nell’hangar dell’aeroporto di Brindisi alla presenza del re: “Lei ha in testa una corona di spine”. Il re non andò più a messa, ma il giovane cappellano che aveva già definito la seconda guerra mondiale “un apostasia da Gesù” diverrà qualche decennio più avanti cardinale, ottenendo dal santo padre, Paolo VI di lasciarlo parroco della sua piccola comunità di Isola della Scala, in provincia di Verona dov’era nato.
Nelle ore in cui scrivo questo post (15 ottobre 2013 h. 14,50 – I funerali di Erich Priebke si terranno oggi ad Albano Laziale, in provincia di Roma. Le esequie saranno celebrate nella località dei Castelli Romani, non lontano dalla Capitale. Saranno in forma privata e si svolgeranno nell’Istituto Pio X.) fa scandalo la condizione del cadavere di un ex capitano delle SS tedesche, condannato all’ergastolo per l’eccidio di 335 civili a Roma il 24 marzo 1944. Erich Priebke era il principale collaboratore di Herbert Kappler, l’ufficiale tedesco che organizzò quella strage di innocenti e che già in precedenza, il 16 ottobre 1943 (data in cui posto questo mio pensiero riverente alle vittime di allora) aveva dato prova di violento odio nei confronti di 1023 civili romani di religione ebraica, a cui riservò il macabro viaggio verso i campi di sterminio.
Priebke è morto all’età di 100 anni, nella sua residenza romana, senza aver mai dato segnali di alcun ravvedimento pubblico o perplessità sul suo operato. Si è sempre trincerato dietro il “dovere del soldato”. Tanto è ampiamente sufficiente perché il vicariato di Roma si sia conformato al dettato del canone 1184 del codice di diritto canonico e non abbia accordato una cerimonia funebre all’ex SS e le autorità civili della capitale e d’ogni parte del mondo interessata, dai tedeschi agli argentini, non intendono offrire spazio alle esequie. Riemerge in tutta la sua violenta emozione la tragedia di milioni di vittime della violenza nazista e lo fa con il NO corale ed unanime di chi ha preso le distanze dalle responsabilità di quegli eccidi. Di chi da decenni testimonia col ricordo la memoria che quello che è stato non si ripeta più.
Non fa paura il cadavere di quel vecchio, ma il significato che quel cadavere impone alle nostre menti. Scheletro putrido di un pensiero omicida che attraversa la storia, che la offende e vilipende la dignità dell’intero genere umano.
Il 6 dicembre del 1943 Kaliro era una ragazzina di appena 17 anni ed i tedeschi le uccidevano quel giorno il fratello di 21. Qualche tempo dopo le fu messo tra le mani un mitra e dinanzi un tedesco, era il modo con cui i suoi connazionali volevano offrirle l’opportunità di vendicarsi della morte subita. Non fece parlare all’arma le parole della morte, ma pregò per la mamma di quel tedesco che aveva la stessa età del fratello ucciso. Non so se quello fu un gesto d’eroismo, non so come qualificarlo, so solo che anche con questi esempi quella donna mi ha cresciuto.
Il tema, per quel che mi riguarda, non è la sepoltura o la cremazione e la dispersione delle ceneri, come ha affermato Riccardo Pacifici, capo della comunità ebraica di Roma, ma il senso di eterna provvisorietà che l’indifferenza – vero demone di questo tempo eternamente presente – ha prodotto in troppi di noi. Oggi, a 70 anni dagli eventi che squassarono le anime, i cuori ed i corpi di milioni di nostri “mai divenuti avi” ricorre il dovere civile di non restare indifferenti, perché l’indifferenza non è staticità, inerzia, ma scientifica affermazione di menefreghismo. Indifferenza è fare una scelta, quella di non scegliere e non occorre essere scienziati per comprendere quanto sia maligna la pianta che nasce dalla indifferenza.
Forse è di 70mila il numero dei soldati italiani morti per l’indifferenza e nell’indifferenza. I loro nomi, talvolta neppure quelli, restano solo alla memoria di noi che viviamo. Le loro vite, massacrate ancor prima di maturare, lasciate marcire senza alcuna degna sepoltura, diventano grido e monito per chi ancora oggi si rifiuta di assumersi le responsabilità di vivere da individuo attivo il proprio ruolo di cittadino. E’ nella azione di ricordare e in quella azione di amministrare le decisioni di questo nostro tempo quotidiano, che siamo chiamati a scegliere e non restare indifferenti. MAI.
Giancarlo Sacrestano

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