Il mese di dicembre arroventa al calor bianco questo finale di autunno italiano. Sono extraparlamentari i tre big della politica nazionale – Matteo Renzi per il PD, Silvio Berlusconi per la rinata Forza Italia e Beppe Grillo per il Movimento 5 stelle. Col dubbio che la loro elezione sia costituzionale, ci sono qualche centinaio di rappresentanti del popolo in seno alle assemblee nazionali. Gli avvisati di indagini a loro carico, sono diverse migliaia di amministratori pubblici e la gente, oramai preda dello sconforto e della infelicità si incazza.
All’alba del 9 dicembre le autostrade, le arterie nazionali, a Brindisi le arterie veloci da e per gli altri capoluoghi,vengono bloccate, le vie cittadine di ogni capoluogo attraversate da cortei di gente indignata, arrabbiata ma composta e le piazze diventano terminali e luoghi di sit-in per denunciare, pardon, incazzatamente gridare, il proprio disagio, il proprio BASTA! Emblematico lo striscione posto a barriera del palazzo di città a Brindisi, con un grande “LICENZIAMOLI”. Prendono la parola testimoni. La gente non si riconosce in nessun leader, solo persone con le proprie storie ed i rispettivi drammi. I volti tesi in un ghigno di sofferta rabbia è l’immagine dinamica della fotografia fatta dal Censis nel proprio rapporto sullo stato del Paese per il 2013.
Ritengo doveroso fermare l’attenzione su quel documento, perché una, la sola soluzione intravista dagli studiosi dell’importante istituto sta proprio nella esigenza di collegamento tra le tante domande che si pone la gente che stufa di aspettare risposte, deve realizzare rete orizzontale, passare da una cultura delle conoscenze ad una cultura della conoscenza, quella del merito e non della raccomandazione. Nel suo 47° rapporto sulla situazione sociale del Paese, come un fotografo implacabile nella sua fedele, quanto crudele riproduzione della realtà, l’Istituto presieduto dal sociologo Giuseppe De Rita e diretto dal brindisino Giuseppe Roma, consegna una “istantanea” del BelPaese che risulta come un cazzotto nello stomaco. Non ce lo si deve nascondere, noi italiani siamo quelli che dalla realtà cerchiamo sempre una via di fuga. Noi siamo quelli che dinanzi al baratro evidente di un fossato, cerchiamo la leggiadria del volo fantastico, oltre l’orizzonte, ma questa volta, già a partire dalla cornice, si comprende fin troppo bene, come la foto appartenga ad una intera pinacoteca di quella tragedia sociale in cui siamo immersi.
Siamo una società “sciapa e infelice in cerca di connettività”, questa la didascalia scelta per sintetizzare l’orrenda foto di gruppo e viviamo “il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C‘è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie”. Da una società “liquida” così come fu descritta qualche anno fa, in cui ogni suo componente è gruppo a sé, tanto a sé che la stessa sociologia ha dovuto coniare il neologismo “egolatria” per rappresentare la religione dell’io che ne è derivata, non potevamo che aspettarci questo, l’assenza di un collante, di una ragione che la tenga assieme, alla ricerca inutilmente affannosa, se si vuole, di un valore che la tenga unita, una connettività smarrita e persino difficile da immaginare. Da tempo siamo immersi nell’incubo del baratro ma “il crollo atteso da molti non c‘è stato” nella forma che potevamo immaginare, ovvero di un “big crash” della società italiana.
C’è stato, piuttosto,un fenomeno di riduzione per compressione, in particolare, “le famiglie italiane hanno attuato una profonda ridefinizione dei consumi: il 76% dà la caccia alle promozioni, il 63% sceglie gli alimenti in base al prezzo più conveniente, il 62% ha aumentato gli acquisti di prodotti di marca commerciale, il 68% ha diminuito le spese per cinema e svago, il 53% ha ridotto gli spostamenti con auto e scooter per risparmiare benzina, il 45% ha rinunciato al ristorante”. Se non è miseria questa, ditemi voi cos’è! Ho evitato di scrivere il ben più dignitoso vocabolo “povertà” dove alla ristrettezza dei mezzi corrisponde la saldezza dei valori. Nella società italiana, la scarsezza dei mezzi è figlia della volatilità dei valori, quindi semplicemente miserabile. Snocciolare i dati sterili dei numeri non serve a neutralizzare la devastazione che comportano: “Per il 72,8% delle famiglie un‘improvvisa malattia grave o la necessità di significative riparazioni per la casa o per l‘auto sono un serio problema. Il pagamento di tasse e tributi, di bollette e rate del mutuo mette in difficoltà una quota significativa di italiani. Sono poco meno di 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto dai familiari una forma di aiuto nell‘ultimo anno”.
Gli italiani, lo scopriamo con i numeri, sono stati per anni un popolo di cicale. “si fessa ci ti privi di robbi e di mangiari” recita un verso di una canzone dialettale brindisina, nota certamente al direttore del Censis, che calza precisamente all’atteggiamento pseudo epicureo in cui siamo caduti. Dalla volatilità dei valori che è meglio definita da quel concetto che va sotto il nome di “relativismo etico”, si giunge facilmente alla precarietà che trasportata sul mondo del lavoro si trasforma nel dramma di “quasi 6 milioni gli occupati che nell‘ultimo anno si sono trovati a fare i conti con una o più situazioni di instabilità e precarietà lavorativa. 1,6 milioni sono gli italiani che, pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego, perché convinti di non trovarlo”.
Tutto trema sotto i piedi ed anziché culminare nel dramma liberatorio di un “big one”, la scossa sismica gigantesca che tutto distrugge, ma ha il merito pure di far finire tutto, si prosegue invece in una condizione di “over promissing” ovvero di promessa ad oltranza a cui nessuno crede, ma che nessuno riesce a denunciare. Così, ridotti a sopravvivere in una condizione di cui neghiamo la paternità, siamo finiti col diventare una società “senza fermento, in cui circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa”. Con la nostra supina accondiscendenza ci siamo ridotti allo stato di tubi digerenti, la cui unica utilità sociale stà nella capacità di consumare bulimiche dosi di tutto. Siamo anche “infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali”.
Si è rotto il “grande lago della cetomedizzazione. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti”. Tanto altro ancora nelle quasi 600 pagine del ponderoso volume che il Censis ha presentato lo scorso 6 dicembre. Viviamo in un Paese che vive la sua decadenza un po’ come la descrisse Fabrizio De Andrè nel lontano 1968 in “La ballata degli impiccati” il cui primo verso recita: “Tutti morimmo a stento / ingoiando l’ultima voce / tirando calci al vento / vedemmo sfumare la luce”. Sempre più fioca, si spegne la luce dello stellone d’Italia se si deve dar conto che il numero di quelli che negli ultimi dieci anni hanno trasferito all’estero la propria residenza è passata dai 50.000 del 2002 ai 106mila del 2012, portanto il numero totale degli italiani che vive stabilmente lontano dal Paese assomma alla ragguardevole cifra di oltre 4,5 milioni. L’8% della popolazione residente. Pochi e veramente esili le opportunità che il Censis riconosce all’Italia. Fatte nulle quelle rivenienti dalla politica, le restanti occasioni devono essere ricercate rovesciando e rinnegando i vizi che ci contraddistinguono.
“Individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni”, sono i titoli delle evidenti malformazioni di cui soffriamo. Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere “la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi”. Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni “perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo”. Se le grida di chi protesta (tutti) non riconosce più alla politica questa capacità, la connettività sarà dunque escusivamente in orizzontale, ovvero tra i vari sottosistemi della vita collettiva. Le immagini, le dichiarazioni, le grida che dinanzi alla statua di San Lorenzo da Brindisi sono culminate nel canto degli italiani, l’inno che ci vuole tutti fratelli d’Italia, testimoniano da Brindisi, una città che è tutta una contraddizione, il desiderio rabbioso, di normalità, … che qui, nessuno vuole mica la luna.
Giancarlo Sacrestano