In coda – Racconti al balcone

Ho preso il biglietto numerato. Ho il 58 C. Guarda un po’ il caso: proprio la mia età. Il display indica che ho dieci persone davanti a me. Non voglio stare in piedi. La sedia dondola, ci vorrebbe qualcuno che dia una avvitata ai bulloni per fermarla. Vacilla, come la mia vita in questo momento.
Quando il postino ha suonato, ieri, ho fatto finta di non essere in casa. Come se spostare di un giorno il ritiro della raccomandata rendesse meno reale l’ineluttabilità dell’evento. Sono stata licenziata. Faccio parte di quel gruppo di individui sacrificati nella trattativa sindacale, nel lungo tira e molla con l’azienda. Non si possono salvare tutti, quando la crisi rosicchia le entrate e i bilanci scricchiolano. Quelle stesse persone pronte a manifestare insieme per una più equa suddivisione degli utili o per migliori condizioni di lavoro, si trasformano in iene sospettose, di fronte alla inevitabile riduzione dell’organico. Prevale l’istinto di sopravvivenza, quando c’è da salvare il proprio futuro. Non è cattiveria. Io ero una predestinata. Single, anzi una zitella, di quelle smorte, che non lasciano traccia di sé. Facevo da tappezzeria. Oh, nel mio lavoro ero brava, precisa come una calcolatrice nel mettere cifre in fila, una dopo l’altra. Mai un ammanco, mai un errore. Non basta. Non è bastato a me. “Devi capire”, mi ha detto il delegato, “c’è chi ha famiglia, tu sei sola”. Come se fosse una colpa, essere soli. Ho bisogno di lavorare proprio perché non ho nessuno che possa pensare a me: niente genitori, niente fratelli. Il suono del display richiama l’attenzione dei presenti. Una sala piena di occhi che guardano le cifre luminose. Una donna si alza di corsa e corre verso lo sportello. Ha una calza smagliata, con una lunga linea chiara che sale dalla caviglia e si ferma al ginocchio, bloccata da una goccia di smalto rosso. Mia madre lo aveva insegnato anche a me, quel metodo per dare ancora un po’ di vita alle calze. L’ho dimenticato presto: bastava una piccola imperfezione per farmi scalciare via stelle filanti di nylon. Continuo a fissare quel punto porpora, sotto una gonna sfiancata che conserva tracce di curve più tornite. Guardo i polsini della mia camicetta: sporgono di un centimetro esatto dalle maniche del tailleur fatto su misura. Il mio armadio è pieno di capi così. Mi basteranno per qualche anno, sempre che non mi lasci andare all’incuria.

Mi viene in mente il barattolo gigante di Nutella di Nanni Moretti: varrà anche per il lavoro perso, tuffare il cucchiaio nella cioccolata, come consolazione? Ora c’è una ragazza, davanti allo sportello. L’impiegata è una di quelle storiche, me la ricordo da anni: ha un’espressione vuota. Avrà imparato a pensare ai fatti suoi, mentre riceve bollettini da pagare. Spero di non capitare con lei. Meglio la biondina accanto, sorride sempre. C’è una fila di vecchietti: evidentemente è l’addetta alle pensioni. Saluta chiamandoli per nome, conta i soldi a voce alta, stando attenta a farsi seguire dall’anziano di turno. Dà sicurezza. E speranza. Quella di cui ho bisogno io, adesso. Quando ho saputo del licenziamento, ho chiesto chi avrebbe ricoperto il mio ruolo. “Lo affideranno ad una struttura esterna”, ha risposto il delegato. Lo conosco da sempre. Siamo stati assunti insieme, quasi quarant’anni fa. Eravamo entrambi appena diplomati: io ragioniera e lui perito industriale. Avrebbe conservato il suo posto e così si era trasformato da difensore dei diritti a traditore raccomandato: “Ne volevano lasciare a casa cento, siamo arrivati a cinquanta. Perché nessuno capisce?”. Mi aveva abbracciato stretto: “Ad alcuni, è più difficile dirlo”. Aveva gli occhi lucidi.

La ragazza in fila allo sportello ha ricevuto una busta. La apre subito, con tale veemenza da rischiare di strapparla. Devono essere buone notizie, anzi ottime, perché saltella ridendo, prima di correre fuori. L’avranno assunta da qualche parte o è stata accettata in un college esclusivo. Il futuro è suo. Io sono obsoleta. Probabilmente avrò la sua stessa reazione, nel ricevere il primo assegno da pensionata. Se ci arrivo. Quando ho saputo del licenziamento, mi sono messa in ferie. Ho cercato il nome della società che mi avrebbe sostituito. “Avranno bisogno di personale, con un nuovo cliente, e io ho esperienza”, mi sono detta. Lo chiamano open space, questo camerone senza muri, con automi davanti ai monitor. Mi sembrava di essere nel laboratorio di Babbo Natale, con gli elfi intenti a costruire giocattoli. Mi ha fatto il colloquio un ragazzo in jeans e t-shirt, con stampato un teschio stilizzato. Ha snocciolato un lungo elenco di programmi che avrei dovuto assolutamente conoscere. Sono andata via, chiedendogli scusa per avergli fatto perdere tempo. Al Caf, mi accoglie una donna della mia età: capelli corti sale e pepe portati con disinvoltura e un viso senza trucco. L’orgoglio delle rughe. “Laura”, si è presentata con il nome proprio, stringendomi la mano con energia. Mi ha dato del tu, come si fa con una amica. “Conosco la tua situazione”, ha detto, “non preoccuparti per la burocrazia, me la vedo io. Ti dico cosa fare e provvedo ad avviare le pratiche per la Naspi. Torna appena riceverai la comunicazione ufficiale del licenziamento. Ci facciamo due conti per il TFR. Senti, è inutile indorare la pillola. È dura. Ma hai quasi quarant’anni di contributi e non ti manca molto alla pensione. Vorrei darti un consiglio: non chiuderti in casa a deprimerti. Persino a Brindisi ci sono tante cose da fare, persone da conoscere”. Mi ha dato il suo numero, quello privato. Lo so che ha ragione, che sono più fortunata di altri. Ma ho bisogno di tempo per superare questo senso di vuoto. Mi piacerebbe avere qualcuno da incolpare, ma come si fa a prendersela con la congiuntura negativa? Non ne capisco niente di politica, figuriamoci di economia: per me lo spread è un cocktail alcolico. Casa e lavoro, lavoro e casa: così è la mia vita. Sospiro. Il display della biondina sorridente si illumina. 58C. Sarà un buon segno? Mi alzo. La sedia dondola, dietro di me.