I sogni e gli incubi di Cosimo Argentina, il beat della letteratura italiana

Alcuni giorni fa, nella bella cornice del giardino della pasticceria “Bernardi” , in viale Regina Margherita, Cosimo Argentina, scrittore tarantino che da anni vive in Brianza, ha incontrato i suoi lettori brindisini (ormai una nutrita e affezionata colonia) e, come già nelle due precedenti occasioni in cui è stato nella nostra città per presentare suoi libri, ha conquistato il pubblico con la solita, naturale capacità di catturare l’attenzione e la simpatia del pubblico. L’evento, dall’intrigante titolo “La poltrona scomoda”, è stato organizzato da un gruppo di appassionati nel quale si sono mossi, in singolare quanto feconda sinergia, giovanissimi (tra questi Sveva Solimene, creatrice dell’originale locandina che ha promosso l’appuntamento) e meno giovani estimatori dello scrittore tarantino.

Sollecitato dalle stimolanti domande di Luana Canepa e Sabrina Amorella, Cosimo Argentina si è raccontato con la consueta schiettezza e spontaneità, preannunciando anche la prossima uscita di due nuovi romanzi.

Particolarmente apprezzate dai presenti sono state le performance di Adriano Dagnello e Federico Feltrinelli, i due giovani e promettenti attori che hanno letto o, meglio, interpretato, muovendosi tra il pubblico con felici esiti anche scenografici, alcuni significativi brani tratti dai libri dello scrittore.

 La bella serata trascorsa in compagnia di Cosimo Argentina mi offre lo spunto per scrivere qualcosa di questo narratore che è tra i miei preferiti, se non il preferito in assoluto, almeno tra gli italiani.

 Come già accennato, Cosimo Argentina è nato a Taranto, dove ha vissuto fino al 1990 allorché si è trasferito in Brianza per insegnare diritto nella scuola media superiore. E proprio Taranto e la Brianza sono i luoghi nei quali sono ambientati tutti i suoi romanzi perché, come ammette con umiltà, con linguaggio mutuato dall’amato calcio, Argentina preferisce “giocare in casa”, muoversi, cioè, su un terreno conosciuto (“scrivo di quello che so”).

Ma se Taranto, con tutte le sue problematiche (l’industria siderurgica e i suoi nefasti effetti su tutto), è presenza costante nella scrittura di Argentina, tanti sono i temi, “forti” e di valore universale, toccati dai suoi romanzi, temi spesso legati alle sue multiformi esperienze umane e lavorative: il calcio, con la sua poesia, i suoi sogni e la sua valenza metaforica; l’insopprimibile bisogno di scrivere per tirare fuori e presumibilmente provare a depotenziare i suoi fantasmi; la figura paterna, intensamente  e con varie sfaccettature presente in tutte le sue storie; le “assenze” che segnano indelebilmente i suoi personaggi, come certamente anche, in modi diversi, ciascuno di noi, e la conseguente solitudine; lo squallore dell’ambiente giudiziario (per alcuni anni Argentina ha esercitato come avvocato) e di quello militare (il nostro è stato anche allievo ufficiale dell’esercito); le contraddizioni e le lacune della scuola italiana; la predilezione per i “perdenti”, per gli “ultimi”; l’inquietudine e l’equilibro sempre incerto di quasi tutti i protagonisti dei suoi romanzi, spesso, benché tutt’altro che sprovveduti, dei veri e propri disadattati privi di punti di riferimento e incapaci perciò di aggrapparsi alle ancore di salvezza che pure vengono loro offerte; la paura di amare (Leone Polonia, io narrante di “Per sempre carnivori”, spregiudicato e crudele conquistatore di professoresse e alunne della scuola in cui insegna, assai emblematicamente dice: “… ma lo scotto da pagare era non doversi innamorare mai, perché amare voleva dire vivere nel terrore di perdere un affetto”).

 

E se i primi libri sono i libri soprattutto dei sogni, dell’anelito di libertà e di autenticità, del desiderio di amore e di certezze e degli spiragli di salvezza, i successivi (in particolare “Maschio adulto solitario”, una vera e propria discesa negli inferi, probabilmente il suo capolavoro, “Vicolo dell’acciaio” e “Per sempre carnivori”) sono i libri dei fantasmi, degli incubi, del precario equilibrio, della disperazione, della cruda, lucida e spesso cruenta rappresentazione di una fosca e inquietante realtà nella quale non di rado i carnefici sono a loro volte anche vittime, della impossibilità della redenzione e della salvezza.

 

Ho scoperto Cosimo Argentina leggendo, nel 2005, il meraviglioso “Cuore di cuoio”, restandone folgorato (strepitosa, tra l’altro, la riproduzione del gergo dei ragazzi dei quartieri popolari di Taranto), e ricordo il mio stupore nell’apprendere che prima di pubblicare il suo primo  romanzo, “Il cadetto”, questo estroso narratore aveva dovuto attendere la bellezza di quindici anni… Uno stupore, per la verità, che oggi probabilmente non proverei, in virtù della consapevolezza, acquisita nella mia lunga “carriera” di lettore, che fama e… vendite non sempre sono direttamente proporzionali al talento, come dimostrano innumerevoli casi… Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe molto lontano.

 

Bene, letto dunque “Cuore di cuoio”, mi procurai e lessi i precedenti libri di Argentina, “Il cadetto” (del 1999, vincitore del premio Edoardo Kihlgren Opera Prima) e il poco conosciuto ma bellissimo “Bar Blue Seves” (2002), che rafforzarono la mia convinzione di trovarmi di fronte a un narratore davvero speciale. Da allora ho seguito passo passo il percorso di Argentina, leggendo, anche più volte, tutti i suoi ormai numerosi romanzi.

Un’analisi critica esaustiva di questo percorso sarebbe complessa e lunga e certamente non sarei nemmeno all’altezza di un tale compito, e tuttavia, sempre da semplice appassionato lettore, mi piace qui segnalare quelli che secondo me sono i meriti maggiori di questo scrittore che giustamente da tutti gli esperti viene considerato tra i più talentuosi della nostra narrativa contemporanea.

 

Anzitutto, la lingua. Una lingua originale, potente, espressionistica, che rifugge dai manierismi, che si avvale magistralmente di impasti dialettali, di neologismi, di felici metafore e iperboli, persino di ricercati e funzionali solecismi. “Un linguaggio arroventato”, “duro nella concretezza delle cose”, “dall’ultraviolento sapore kubrickiano”, è stato anche detto. E, grazie anche a questa lingua impetuosa,  il ritmo di una scrittura sempre incalzante che cattura immediatamente e che non dà respiro, e un’ambientazione sempre plausibile e convincente.

 

Poi, la libertà, l’assoluta libertà, e l’onestà. Cosimo Argentina non bluffa mai. Dei lettori e degli editori Cosimo Argentina vuole essere amico, non “schiavo”. Nessuno può, nessuno deve condizionarlo. Prendere o lasciare.

Cosimo Argentina è felice se lega con il lettore, se ne diventa amico, se avverte che con lui si è creata vera empatia, ma non si sforza mai di compiacerlo; non cerca facili consensi, non scrive per vendere migliaia e migliaia di copie ( e sì che se volesse ci potrebbe ben riuscire, vista la sua straordinaria abilità narrativa), ma per una insopprimibile necessità interiore.

Naturalmente non gli dispiacerebbe vendere… anche milioni di copie, ma giammai a costo di rinunciare ad essere se stesso. In “Viaggiatori a sangue caldo” dice: “A volte penso che se non scrivessi non ce la farei. Quando passo un giorno intero senza aver scritto nulla mi sento come un elfo che, strappato ai boschi, è finito in un appartamento arredato di Milano 3. insomma, sono fuori posto… a disagio… mi viene l’ansia, somatizzo l’imbarazzo con delle chiazze rosse sulle mani e bevo molta più birra del solito.” E ancora: “Devi scrivere senza curarti dei tuoi trionfi e delle tue sconfitte né di quelle degli altri. Se ti ritrovi a quarant’anni a lottare per piazzare un romanzo decente presso una casa editrice credibile e nello stesso tempo un giovane autore ottiene le prime pagine di tutti i giornali fa nulla. Tieni la testa sul foglio. Scrivi. E fallo bene e fallo sempre a prescindere dalla tiratura. Duemila o duemilioni di copie non sono la stessa cosa, ma una pagina venuta bene, un capitolo che ti strappa un breve, brevissimo sorriso vale per Wilbur Smith, Stephen King e mister Nessuno allo stesso modo.”

A chi gli chiede se non sente come un limite l’essere considerato uno scrittore “di nicchia” risponde che a lui importa relativamente il numero delle persone che leggono i suoi libri: gli sta a cuore assai di più che chi li legge capisca cosa lui vuol dire, cosa ha dentro.

 

Cosimo Argentina è un puro, come benissimo spiega nel quotidiano “Conquiste del lavoro” Marco Maugeri recensendo “Per sempre carnivori”: “Cosimo Argentina è uno degli scrittori più puri che girano da quindici anni a questa parte. Talento? Hai voglia! Errori? Quanti ne vuoi. Argentina è un poligrafo, un compulsivo, si può stimare che in ogni suo romanzo ci siano almeno sedici storie buone per altrettanti libri. Non ha rivali. E nemmeno paragoni. I puri sono così. Ha scritto libri commoventi, ne ha buttati via molti di più, se conti le storie potenziali che ogni suo romanzo contiene avrebbe potuto scrivere la metà dei libri che ha scritto Simenon. Scrive probabilmente alla velocità della luce, ma davvero sfogliando questo “Per sempre carnivori” commuove quasi questo beat della letteratura italiana, questo autostoppista del romanzo che da quindici anni gira a rotta di collo nelle strade scoscese della nostra editoria, dissipando trovate e talento come un Hunter Thompson consumato dal male di scrivere. Gli manca la benda all’occhio, ma è pur sempre uno dei più originali attrezzi in circolazione. Totalmente privo di calcolo, schiavo di un demone che lo strizza da quasi un lustro.”

 

 

“Do-o, re-e; mi-i, fa-aaa…”

“Ripeti e mettici un po’ di impegno, Camillo”.

Siamo al secondo piano di un palazzo del mio quartiere: rione Italia Montegranaro, Città Nuova, Taranto.

Sotto di noi, in piazzetta, quattordici ragazzi, tra cui i miei compari, giocano sull’asfalto una partita al sangue e io me ne devo stare qui a fa’  ’a pecora.

Quando mia zia Melodia si è offerta di insegnarmi pianoforte ci sono state tre reazioni diverse.

“Magar’a Madonna!” la zillosa di mia mamma.

“… grunft…” il grugnito di mio padre mentre addentava ’na frisella olio, sale e pomodori anserte.

“NO” Camillo Marlo, cioè il sottoscritto.

Così eccomi a solfeggiare quando avrei preferito di brutto scendere sulla fascia destra e crossare per la testa di Succodifrutta, o difendere a oltranza l’area di rigore tirata con un pezzo di tufo dagli scapocchioni di via Icco.

(Incipit di “Cuore di cuoio”)

 

… E in giro non si vedeva nulla, non si vedeva. Tutto filtrato dallo sporco del cielo che cadeva in terra, la pioggia di Taranto era la pioggia del siderurgico, le acciaierie erano con l’Arsenale e la Marina Militare la trimurti, il cerbero che si era accovacciato all’ingresso della città e se ne stava lì a mostrare le gole latranti e le bocche affamate. La pioggia così era un cocktail di ferro, polveri sottili, acqua delle nuvole, aria fottuta, scarico di gas ed esalazioni del terreno morente.

(da “Maschio adulto solitario”)

 

Una testa.

Per quanto ne so io, la faccenda della testa era il finale che c’eravamo scelti fin dall’inizio.

Accaddero molti fatti, prima. Eravamo tre animali braccati, ma eravamo anche predatori di quelli buoni e adesso, guardateci. Guardateci adesso! Mezzi nudi, al freddo, in questa maledetta spiaggia. Mako con la testa mozzata, il Dentuso con la sua ancora attaccata al collo, nascosta tra le gambe, le mani nei capelli, io immobile con qualcosa che mi formicola lungo la spina dorsale.

Ma devo per forza tornare indietro, altrimenti questa testa resta lì, senza senso, e invece c’è da dire, eccome se c’è da dire…

Un lampeggiante scuote l’alba e un altro gli va dietro. Arrivano due auto della polizia e dietro un’ambulanza, ma Mako mica ce la fa. La testa non gliela riattaccheranno di sicuro e allora sarebbe meglio chiamare il becchino e prepararsi in battuta a un’orazione funebre di grande effetto piuttosto che invocare i camici bianchi coi loro inutili marchingegni. Un beverone nero gli esce dalla base del collo e la sabbia ne è impastata. Io non riesco ad alzarmi, nondimeno questo sarebbe il momento di tirare fuori la rivoltella che fu di Paola, spararmi un colpo alla tempia e chiuderla qua. Però non ci riesco. Non  ce la faccio.

Torno indietro, dicevo, e vi racconto questa storia di vittime e carnefici, ma forse anche di amore e passione e io credo che è probabile che un giorno, chissà, fra trent’anni, qualcuno nel valutare il caso dirà che si trattò solo d’amore, niente di più e niente di meno.

(incipit di “Per sempre carnivori”)

 

I libri di Cosimo Argentina:

Il cadetto (Marsilio, 1999)

Bar Blu Seves (Marsilio, 2002)

Cuore di cuoio (Sironi, 2004 e Fandango, 2010)

Viaggiatori a sangue caldo (Avagliano, 2005)

Brianza vigila Bolivia spera (Noreply, 2006)

Nud’e cruda. Taranto mon amour (Effigie, 2006)

Maschio adulto solitario (Manni, 2008)

Beata ignoranza(Fandango, 2008)

Messi a 90 (Manni, 2010)

Vicolo dell’acciaio (Fandango, 2010)

Per sempre carnivori (Minimum Fax, 2012)

Michele Bombacigno