Di Marina Poci per Il7 Magazine
Quel pomeriggio di nove anni fa, che nella sua vita ha rappresentato una cesura irrimediabile, Doriana Presta lo ricorda perfettamente: con voce ferma, priva di cedimenti, racconta che furono i Carabinieri ad avvertirla che la sua sorella gemella Raffaella, l’altra parte del suo sé più profondo, era morta, uccisa con due colpi di fucile al basso ventre sparati dal marito Francesco Rosi, dal quale, dopo anni di abusi fisici e psicologici, sembra che avesse deciso di separarsi. Raffaella, quarant’anni, originaria di San Donaci, viveva a Perugia, dove esercitava la sua professione di avvocata. Amava il diritto di famiglia e il diritto minorile, aveva seguito diverse separazioni conflittuali ed era perfettamente in grado di riconoscere le dinamiche di una relazione disfunzionale. Consapevolezza che non fu sufficiente a salvarla dalla furia omicida di quell’uomo ossessivamente geloso, che la faceva pedinare per accertare che non lo tradisse, le aveva intimato di abbandonare il lavoro, la picchiava dove era meno probabile lasciare segni visibili e le aveva persino rotto un timpano durante un litigio.
Per una tragica e ignobile coincidenza, quel pomeriggio di nove anni fa era il 25 novembre, giorno in cui ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e Raffaella e il suo assassino non erano soli in casa: a pochi passi da quegli spari, in procinto di sprofondare nel baratro della perdita più totalizzante che un bimbo così piccolo possa subire, c’era il frutto di quel rapporto malato e tossico, che all’epoca aveva sei anni e adesso è un meraviglioso quindicenne adottato dalla famiglia della zia. Un ragazzo che frequenta con profitto il liceo scientifico e segue, sebbene restando nell’ombra, le attività dell’associazione recentemente fondata da un gruppo di volontari per non dimenticare il sacrificio di sua madre e sensibilizzare sulle discriminazioni e la violenza di genere. Quella associazione, che da qualche mese porta in giro per la Puglia lo spettacolo “Due in una per tutte”, si chiama “Raffaella c’è”, nome breve e denso, quasi perentorio, che è insieme presenza e memoria, desiderio e speranza, ed esprime all’indicativo il sentimento d’amore mai sopito di Doriana e di tutta la famiglia.
Nelle parole di Presta, misurate ma comunque risolute, si avverte tutta l’eco di quel lutto devastante ma anche la coscienza di dare senso alla morte di Raffaella lavorando perché non vi siano più vittime come lei.
“L’associazione è di recente costituzione, è nata a dicembre del 2023, anche se le sue radici risalgono ai giorni immediatamente successivi a quel 25 novembre, quando mia sorella è diventata una delle tante vittime di femminicidio. Con un gruppo di giovani abbiamo iniziato a organizzare eventi, soprattutto a ridosso del 25 novembre e dell’8 marzo. Poi però ci siamo resi conto che non era sufficiente, perché di violenza contro le donne non si può parlare soltanto nelle date calendarizzate. La battaglia deve essere quotidiana. Così, per essere più attivi, abbiamo ritenuto di costituirci formalmente in associazione e siamo partiti con lo spettacolo. Dopo le prime due date pensavamo di fermarci, ma l’attenzione è stata altissima, sono arrivate diverse richieste di repliche, già svolte in tutta la provincia, e per altre, anche fuori dal territorio provinciale, ci stiamo accordando”.
Il prossimo appuntamento, a cura del progetto Policoro, sarà sabato 4 maggio al teatro Don Bosco di Brindisi. A parte il regista e coreografo Antonio Pompameo e la ballerina professionista Lucia Marullo, tutti coloro che lavorano allo spettacolo sono volontari, soci dell’associazione che hanno sposato la causa di Doriana e della sua famiglia: “Portiamo in scena storie vere, anche se per alcune donne abbiamo deciso di usare nomi di fantasia. Io interpreto un monologo in cui racconto la mia esperienza. Il messaggio che puntiamo a diffondere è che il femminicidio ci riguarda tutti, anche quando pensiamo che alcune dinamiche siano lontane da noi e si verifichino soltanto in determinati contesti sociali ed economici. Mia sorella era una donna benestante, aveva un lavoro appagante e possedeva gli strumenti per comprendere cosa le sarebbe potuto accadere. Eppure non ha fatto in tempo a chiedere aiuto, o forse ha pensato di poter essere abbastanza forte da gestire da sola la situazione di violenza che viveva. Indipendentemente dalle ragioni, è stata una vittima. Ecco, tutte le volte che andiamo in scena, o quando vengo invitata a parlare nelle scuole o in altri contesti, sottolineo proprio questo aspetto, soprattutto a favore delle ragazze che possono avere difficoltà a individuare alcuni meccanismi: la gelosia morbosa, la necessità di controllo, la violenza fisica non sono amore. I telegiornali ci parlano di “gesto estremo”, ma prima c’è tutta una serie di segnali di violenza sommersa che non vanno sottovalutati. Alle ragazze dico: rivolgetevi a chi vi può aiutare e liberatevi. Nessuno immagina che possa capitare a sé o a qualcuno che ama, invece succede”, dichiara Doriana che, quando ha perso sua sorella, era madre di una bimba quasi coetanea del figlio di sua sorella.
“Nella tragedia, posso dire che mio nipote sia un ragazzo fortunato, perché ha avuto la grazia di trovare un’altra mamma, oltretutto una mamma che, fisicamente, ha la stessa immagine di quella che lo ha messo al mondo. E ha trovato una sorella della sua stessa età, con la quale vive un rapporto quasi gemellare. Possiamo dire che nella nostra famiglia la storia si sia ripetuta. Non tutti gli orfani per femminicidio possono dire altrettanto. Lui era in casa quando Raffaella è stata uccisa. Non ha assistito all’omicidio, ma ha sentito tutto, per cui non è stato necessario spiegargli nulla. Contrariamente a quanto spesso accade, pur avendo vissuto da vicino un trauma del genere, il suo andamento scolastico non ne ha risentito ed è un ragazzo brillante e pieno di interessi”.
Anche quello delle vittime collaterali, protagoniste involontarie di scelte altrui, è un argomento che sta a cuore a Doriana: “Le donne sono le vittime principali, ma non dobbiamo dimenticare che una donna morta per femminicidio, nella maggior parte dei casi, lascia dei figli. Bambini e ragazzi che quasi sempre perdono contemporaneamente la madre e il padre, rinchiuso in carcere, e sono costretti a maturare troppo presto”.
Quando Raffaella è stata uccisa, la normativa prevedeva anche per i reati punibili con l’ergastolo l’accesso al rito premiale del giudizio abbreviato (che consente una diminuzione di un terzo della pena in concreto applicabile). Rosi ha usufruito di quel beneficio: Doriana Presta lo riferisce con rammarico, ma senza rancore, aggiungendo soltanto che “è stato condannato a trent’anni di reclusione, ne sono già passati quasi nove, sono scettica sul fatto che li sconterà tutti”.
Racconta che i luoghi in cui maggiormente ama portare la sua testimonianza sono le scuole: spesso viene affiancata da esperti, psicologi, avvocati e rappresentanti delle forze dell’ordine, che vengono invitati per dare agli studenti indicazioni tecniche su come riconoscere e affrontare la violenza di genere, ma niente desta l’attenzione dei ragazzi come il racconto di chi ha vissuto sulla propria pelle la perdita causata da un femminicidio.
Quindici anni fa Doriana Presta ha messo al mondo sua figlia, sei anni dopo quel parto ha dovuto impegnarsi per (ri)mettere al mondo il figlio dell’altra parte di sé, che le è stata amputata da chi ha creduto di poterne disporre. Oggi avverte con urgenza la responsabilità di educare un ragazzo che ha vissuto uno stress emotivo inimmaginabile, fornendogli gli strumenti più giusti per lo sviluppo di una personalità armonica e rispettosa della figura femminile: “Vivo una responsabilità doppia: mi domando continuamente cosa mia sorella avrebbe fatto e cerco di insegnargli tutti i giorni che, prima di arrivare al femminicidio, le offese nei confronti delle donne hanno tante forme”, conclude.
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