
Di Marina Poci per il numero 388 de Il7 Magazine
Li chiamarono “gli schiavi di Hitler”: erano giovanissimi, inesperti della vita, per la maggior parte poco informati, ma – quando fu il momento di scegliere – vollero trovarsi dalla parte giusta della storia. La loro viene definita una “resistenza senza armi”, perché combattuta con la forza esclusiva della volontà di non tradire una patria nella quale, nonostante le degenerazioni del regime fascista, continuavano a riporre speranza. Sono gli “imi”, internati militari italiani, uomini che sino all’8 settembre avevano combattuto accanto ai tedeschi e di cui dopo l’Armistizio, l’Oberkommando der Wehrmacht (cioè l’Alto Comando delle forze armate della Germania) dispose la cattura e l’internamento nei vari campi di lavoro dislocati nell’Europa centrale, per utilizzarli come manodopera in spregio alle tutele garantite dalla Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra.
Tra loro vi furono molti giovani della provincia di Brindisi, ai cui eredi, lo scorso 27 gennaio, nel corso della Giornata della Memoria in ricordo delle vittime dell’Olocausto, il Prefetto di Brindisi Luigi Carnevale ha consegnato le medaglie d’onore conferite dal Presidente della Repubblica.
Si chiamavano Attilio Teodato Ariano (sergente, Oria); Antonio Bianchetto (soldato, Oria); Cosimo Chiedi (soldato, Oria); Gaetano D’Alessio (soldato, Oria); Francesco Dell’Aquila (soldato, Oria); Giuseppe Di Bella (soldato, Oria); Antonio Durante (soldato, Oria); Giuseppe Durante (caporal maggiore, Oria); Antonio Galluzzo (soldato, Oria); Antonio Gaudiosi (caporale, Oria); Cosimo Grotta (soldato, Oria); Tommaso Longo (soldato, Oria); Guglielmo Mazza (soldato, Oria); Vincenzo Mazza (soldato, Oria); Barsanofio Moretto (soldato, Oria); Euprepio Patisso (soldato, Oria); Francesco Putignano (soldato, Oria ); Antonio Schirinzi (soldato, Oria); Pasquale Simeone (soldato, San Michele Salentino); Raffaele Gioia (marinaio, San Pietro Vernotico); Umberto Piccolo (soldato, San Pietro Vernotico); Angelo Bonatesta (soldato, Torchiarolo); Amleto Longo (soldato, Torchiarolo) e Vincenzo Rapanà (soldato, Torchiarolo).
Fu un internato militare italiano anche Mario Cito, avellinese di origine, ma vissuto a Brindisi per tutta la vita, il cui figlio Pier Paolo, giornalista e reporter di guerra, ha ricevuto la stessa medaglia a Roma in Campidoglio il 28 gennaio. Dell’esperienza paterna nel campo di internamento tedesco Pier Paolo Cito non ha saputo nulla sino a quando, insieme al fratello, non ha deciso di mettere ordine nella casa di famiglia, dopo la morte dei genitori. Il desiderio di Mario di proteggere i figli dall’orrore vissuto gli ha impedito per tutta la vita di parlarne. Lo stesso istinto di protezione, peraltro, che Pier Paolo, reporter in Afghanistan, Iraq, Palestina, Etiopia, Libano, ha coltivato nei confronti dei genitori quando si trovava nei luoghi pericolosi che raccontava e fotografava.
“Ma questa è una pagina di storia che deve essere conosciuta e io sento la responsabilità di doverla divulgare. Per questo, quando in un posto molto riservato della libreria abbiamo trovato il suo libretto di lavoro in Germania, io e mio fratello ci siamo interrogati su quale fosse stata concretamente la sua condizione. Così ci siamo mossi perché nostro padre avesse il giusto riconoscimento”.
La storia degli internati militari italiani cominciò, in verità, mesi prima dell’Armistizio, quando i tedeschi, nel timore di una perdita del potere da parte di Mussolini, con conseguente cambio di schieramento del Regno d’Italia, elaborarono l’Operazione Alarico (dal nome del re visigoto responsabile del sacco di Roma nel 410): il piano avrebbe dovuto consentire alla Wehrmacht della Germania nazista di occupare il territorio dell’alleato fascista catturando e riducendo in schiavitù le forze armate italiane. E in effetti fu quello che accadde, anche approfittando del disorientamento delle truppe causato dalla impreparazione degli ufficiali davanti alla notizia della firma dell’Armistizio con gli angloamericani.
Circa 650mila militari italiani delle tre forze armate, non soltanto sul territorio nazionale, ma anche all’estero (specialmente in Grecia e nei Balcani) vennero fatti prigionieri e avviati (con l’ingannevole promessa di essere accompagnati in patria) verso i campi di internamento approntati dal Reich in una vasta area centroeuropea che andava dal confine con l’Olanda alla Bielorussia nel silenzio impotente di mezza Europa. Gli ufficiali vennero separati dai soldati semplici per il timore che potessero fomentare forme di resistenza o di insurrezione.
Le testimonianze dei sopravvissuti descrivono, per effetto della sospensione arbitraria della Convenzione di Ginevra, condizioni di vita durissime: i militari, utilizzati come forza-lavoro (pochi fortunati nelle campagne, la maggior parte nelle industrie tedesche, impiegati per i bisogni dell’economia bellica) erano sottoposti a ogni sorta di vessazioni. Lavoravano (senza retribuzione, è appena il caso di dirlo) sino a quattordici ore al giorno; se si ammalavano, non venivano curati; dormivano in terra, al freddo, su pagliericci popolati da cimici; il loro pasto quotidiano consisteva in patate lesse condite con un mestolo di zuppa di rape, senza sale né olio. Persero lo status di militari per assumere – di fatto – quello di schiavi che, sino alla fine della guerra, mantennero in vita l’industria bellica tedesca, fortemente penalizzata dalle perdite al fronte. Nei quasi due anni di internamento, circa 50mila di loro morirono di fame, di freddo, di malattie.
Quando nacque la Repubblica di Salò, vennero posti davanti a una scelta: tornare a combattere al fianco dei nazisti e dei fascisti o restare nei lager. La Voce della Patria, un periodico che si stampava a Berlino nell’ambasciata italiana della Repubblica di Salò, iniziò una vasta operazione di propaganda invitando gli imi ad arruolarsi al costituendo esercito fascista repubblicano. Ma, nonostante gli abusi, i soprusi, le privazioni, soltanto l’1% dei giovani internati militari italiani aderì alla proposta. Dissero di no alla seduzione di tornare a casa, riabbracciare per qualche giorno le famiglie, mangiare sano, essere curati, dormire su materassi di piume. Un atto di eroismo che li espose a conseguenze punitive atroci da parte dei tedeschi e li consegnò all’indifferenza di Mussolini, deluso per la mancata adesione al suo progetto.
“Fu una scelta coraggiosissima, che condizionò la loro vita non soltanto nell’immediatezza, ma anche al ritorno in patria dopo la guerra, perché tutti loro si sono portati dentro le umiliazioni vissute in quegli anni senza riuscire a parlarne. Non gli fu riconosciuto nessuno tributo, nessuno gli fu riconoscente, caddero in una specie di oblio per sessant’anni. Addirittura, c’è stato chi li ha considerati dei traditori per il fatto che hanno lavorato per le industrie tedesche. Soltanto negli ultimi venti anni si è cominciato a esplorare quella pagina di storia ed è emerso il coraggio di questi ragazzini che preferirono restare prigionieri dei tedeschi, con tutto ciò che comportava, piuttosto che tradire l’Italia e tornare a combattere per il nazifascismo. Persero la dignità di soldati e sino al 2008 nessuno si è interessato al fatto che sarebbero morti di stenti invece che tornare in Italia, dove avrebbero dovuto scontrarsi con gli altri italiani visto che, dopo l’8 settembre, il Regno era ormai dalla parte degli alleati”, commenta Pier Paolo Cito.
Quello degli imi in Italia fu in effetti un rientro lungo e complicato, a bordo di quegli stessi treni (somiglianti a carri bestiame) che li avevano condotti nei campi. Non furono compresi e non gli si perdonò di essere stati uomini delle forze armate, fedeli, almeno sino ad un certo momento, al regime fascista. Nel timore che si esprimessero a favore della monarchia, molti furono fatti rientrare dopo il referendum, perché non votassero.
“Sapevo che mio padre era un militare dell’esercito, che era stato fatto prigioniero, che tornò in Italia soltanto a guerra finita. Ma conosco la Convenzione di Ginevra: so che i soldati catturati dai nemici devono essere trattati con dignità e rispetto. Mangiano, stanno al caldo, sono curati. Mio padre e tutti gli altri che hanno fatto la scelta di non tradire l’Italia non hanno beneficiato di questo trattamento. Quando io e mio fratello, da piccoli, facevamo i capricci perché non ci andava di mangiare qualcosa, papà ci diceva che nel suo periodo di prigionia spesso era stato costretto ad alimentarsi soltanto con bucce di patate. Sono cresciuto pensando che fosse un’esagerazione. Quando ho trovato il suo fascicolo e mi sono documentato, ho capito cosa sia stato costretto a subire. Non ha mai raccontato altro. Il resto, pochissimo a dire il vero, lo abbiamo dovuto intuire. Ad esempio, il fastidio che provava quando, a tavola, mi vedeva congiungere i palmi delle mani e mettere le mani sulla testa. Quando ero piccolo non riuscivo a capire quale ricordo specifico gli risvegliasse, sapevo solo che di colpo perdeva il suo aplomb. Mio padre era un dirigente della Camera di Commercio, una persona calma, educata, posata. Ma, alla vista di quel gesto, si spazientiva. “Togli quelle mani”, diceva, con un’intensità per me ingiustificata. Quando sono stato in Palestina la prima volta, e ho visto i prigionieri sfilare davanti agli ufficiali con le mani esattamente in quella posizione, ho compreso come si sentisse vedendo suo figlio, ancora piccolo, fare quel gesto”.
Il contenzioso con la Germania, che negli anni 2000 diede vita ad una fondazione per risarcire i lavoratori coatti, è durato per anni. Ma gli imi, in quanto ritenuti formalmente militari, non sono mai stati risarciti, nonostante la cessazione nei loro confronti delle garanzie internazionali. Nel 2008 la Cassazione italiana ha riconosciuto il diritto per gli ultimi reduci internati al risarcimento, ma i tribunali tedeschi non hanno mai autorizzato la procedura di delibazione. La soluzione della questione è poi avvenuta in via diplomatica, con la creazione di una commissione bilaterale di storici che ha lavorato sino al 2012 concludendo con un rapporto scritto che ha sollecitato a finanziare luoghi della memoria a Berlino e a Roma e un database di tutti gli imi. Davvero molto poco per giovani che, a poco più di vent’anni, scelsero di non tradirsi e non tradire l’Italia.