La banda dei vigliacchi: ecco come truffavano i pensionati soli

La malavita napoletana ha mutuato le tecniche da quella che i tedeschi chiamano “enkeltrick mafia”, la mafia del nipote, una organizzazione internazionale che si muove tra Germania e Polonia e i cui capi sono rom di origine ungherese. Sono specializzati nelle truffe agli anziani. Nello scorso mese di luglio la prima operazione in Italia per sgominarne una gang è stata compiuta dal Pool antitruffe appositamente costituito a Milano da procura, polizia e carabinieri con otto arresti.
La seconda inchiesta italiana è stata portata a termine da una piccola compagnia di carabinieri della provincia di Brindisi, quella di San Vito dei Normanni, comandata dal capitano Antonio Corvino, che è è stata capace di insinuarsi nelle pieghe di un’organizzazione napoletana laddove lo stesso pool specializzato creato all’interno della Direzione investigativa antimafia del capoluogo campano non era riuscito ancora a entrare, grazie alla capacità acquisita dai malviventi di muoversi senza lasciare tracce, a iniziare dai contatti telefonici tenuti esclusivamente attraverso sim card utilizzate al massimo per un solo giorno e intestate tutte a cittadini pakistani.
Mentre i telefonisti della “enkeltrick mafia” chiamano le vittime dall’estero, quelli arrestati dai carabinieri di San Vito avevano la centrale operativa nei vicoli dei quartieri popolari di Napoli: da qui chiamavano le potenziali vittime residenti nelle vie dei comuni della provincia di Brindisi presidiate in quel momento dai loro complici, pronti a suonare al campanello degli anziani caduti nel tranello. Nove le truffe andate a segno, altre 14 quelle fallite in un arco temporale ristretto (tra giugno e dicembre 2019), tutte ai danni di pensionati di età compresa tra i 66 e i 90 anni, spesso in condizione di solitudine e di particolare vulnerabilità. Numerosi i comuni scelti dalla banda: Brindisi, Ostuni, Latiano, San Pancrazio Salentino, San Vito dei Normanni, Ceglie Messapica, Fasano, Mesagne, Francavilla Fontana con un bottino di circa 13.500 euro. Entravano in azione preferibilmente d’estate, quando i piccoli centri si svuotano e gli anziani restano più spesso soli in casa.
La tecnica era collaudata e consentiva di non lasciare tracce telefoniche. L’organizzazione utilizzava per ogni operazione tre diverse sim card intestate a cittadini pakistani: due erano a disposizione del telefonista e una dei suoi complici che si recavano fisicamente a compiere le truffe. Con una sim il centralinista chiamava esclusivamente le vittime, con la seconda si metteva in contatto con i complici che rispondevano dal terzo numero. In questo modo non c’era alcun collegamento tra questi ultimi e gli anziani truffati. E sarebbe andato tutto perfettamente se i carabinieri di San Vito, incrociando centinaia di telefonate, non si fossero accorti che in un caso, uno soltanto, il centralinista aveva sbagliato sim card, telefonando ai due che erano nelle case degli anziani con il numero utilizzato per chiamare precedentemente una loro vittima.
Due i sistemi usati, entrambi basati sul tentativo di confondere, anche emotivamente, le vittime, Il primo, quello più becero e vigliacco, è proprio quello che richiama la “mafia del nipote”: il telefonista, fingendo di essere un avvocato, telefona pensionato e lo avverte che un suo prossimo congiunto, un figlio o un nipote, è rimasto coinvolto in un incidente stradale, provocando danni a persone o cose, riuscendo spesso nel corso della conversazione a carpire il nome del parente della vittima e altri elementi che possano rendere più credibile il racconto. Il telefonista è in grado in questo modo a mettere l’anziano in comprensibile agitazione e apprensione per la sorte del congiunto. A quel punto chiede il pagamento di una ingente somma di denaro da consegnare nelle mani di un proprio collaboratore che di lì a poco suonerà al suo campanello, per evitare che il figlio venga arrestato o subisca pesanti sanzioni amministrative.
Il secondo sistema è quello in cui il telefonista, fingendosi un congiunto della vittima o il postino, comunica che il nipote ha commissionato la consegna di un pacco presso il proprio domicilio e le chiede dunque il pagamento in contrassegno nelle mani del corriere che di lì a poco giungerà nella sua abitazione. Ovviamente il complice si trova già in zona, pronto a suonare il campanello. Se la vittima ci casca, le viene consegnato un pacco che ovviamente non ha il contenuto millantato, ma solo materiale per renderlo più pesante, in un caso alcune confezioni di succo di frutta.
Mentre il telefonista opera da solo, i trasfertisti lavorano in coppia. Una volta individuata la zona da colpire, prendono in fitto un b&b e da lì si spostano nei paesi vicini. Uno dei due provvede materialmente alla riscossione del denaro mentre l’altro svolge le funzioni di autista e di palo rimanendo nei pressi dell’abitazione della vittima in attesa del ritorno del complice.
La prima truffa documentata è del 29 giugno 2019 ai danni di una 80enne di San Vito dei Normanni che così la racconta ai carabinieri: “Abito con mio figlio ma quella mattina era al lavoro. Alle 11 mi chiama al telefono di casa un uomo che si presenta come un corriere che mi doveva lasciare un pacco da parte di mio nipote, che vive in provincia di Foggia, chiedendomi la somma di 1.700 euro per consegnarlo. Pensando che la cosa fosse vera ho preso il denaro e l’ho consegnato visto che avevo contanti in casa per fare lavori in campagna. Il corriere mi ha lasciato un pacco, ben confezionato, con nastro adesivo di colore marrone. Quando se n’è andato mi sono insospettita, ho chiamato mia figlia per avvisarla dell’arrivo del pacco e quando mi ha detto che non era prevista alcuna spedizione l’ho aperto e vi ho trovato due tetrapak di succo di frutta della Santal”.
La chiamata alla pensionata era stata fatta da un numero intestato a un pakistano e agganciata alla cella Napoli Vicoletti Zuroli, nel cuore del quartiere Forcella. Il telefonista, fino ad allora impeccabile, commette però un errore. Con la stessa scheda telefonica utilizzata per la truffa chiama il numero di Alessio Scialò, 28 anni, napoletano residente nella celebre via dei Tribunali. Quel giorno Scialò aggancia le celle telefoniche di Giovinazzo, Bari, Fasano e, appunto, San Vito dei Normanni. Non solo, attraverso la banca dati delle Forze di polizia, i carabinieri scoprono che il 2 luglio 2019 (giorno in cui viene registrata un’altra truffa) Scialò è stato controllato insieme a Fortunato Rivieccio, 20 anni, anch’egli napoletano, da una pattuglia del commissariato di polizia di Ostuni a bordo di una Fiat Punto. Nella loro auto gli agenti trovano pacchi regalo già confezionati e nastro di imballaggio identici a quelli utilizzati per la truffa alla pensionata di San Vito dei Normanni.
Scialò e Rivieccio, scelti dall’organizzazione perché giovanissimi, di bell’aspetto e credibili nelle vesti di corrieri, sono gli autori materiali di gran parte delle truffe e sono i due sui quali il pm di Brindisi Alfredo Manca ha chiesto e ottenuto dal gip Maurizio Saso i provvedimenti cautelari più duri: la detenzione in carcere. Ai domiciliari gli altri quattro componenti identificati della banda: Emmanuele Vitulli (30 anni), Emanuele Limatola (24), Vincenzo Siano (42) e Arnaldo Abete (22), tutti napoletani. Il reato ipotizzato è associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata. Resta da identificare il settimo uomo, il telefonista, quello che doveva essere il regista della banda e che paradossalmente ne ha decretato – per quell’errore con le sim – la sua fine.
In quella stessa giornata del 29 giugno 2019 Scialò e Rivieccio, con il supporto del telefonista, tentano altre due truffe a San Vito dei Normanni e una a Statte, in provincia di Taranto. Le vittime sono rispettivamente una donna di 89 anni, una di 91 e una terza di 88. Con la prima cambiamo tecnica, questo il suo racconto ai carabinieri: “Squilla il telefono, uno sconosciuto mi dice tua nipote ha subito un incidente stradale e ha danneggiato un’altra auto. Così ho chiesto mia nipote chi? Anna? E quello: sì, Anna. Per risolvere presto la questione sua sorella mi ha chiesto di contattarla per darle una mano. Bisogna pagare subito due avvocati intervenuti sul luogo dell’incidente e precisamente 2.500 euro a un legale e 2.000 all’altro. Gli ho chiesto di passarmi Anna o mia sorella ma questi insisteva a chiedere i soldi anche se gli dicevo che in quel momento non avevo disponibilità economica e alla fine ha chiuso la conversazione e non mi ha più richiamato”.
Non va meglio ai truffatori quella stessa mattina quando, sempre a San Vito cercano di abbindolare una 82enne. Il racconto della figlia: “Abito con mia madre disabile e quella mattina mi sono recata a fare la spesa lasciandola in compagna di sua nipote. E’ arrivata la telefonata con cui un uomo si presentava come l’avvocato Marulli che chiedeva la somma di seimila euro per farmi uscire dagli uffici della questura e per evitare che andassi in galera dopo aver provocato un incidente stradale grave. Alla telefonata aveva risposto in un primo tempo mia cugina ma poi era intervenuta mia madre che aveva risposto a tono dicendo che non c’erano soldi a disposizione”.
Nonostante l’età avanzata la pensionata, così come altri anziani contattati dai truffatori (14 casi in tutto) hanno intuito di avere a che fare con malviventi e non solo non sono caduti nel tranello, ma hanno denunciato tutto ai carabinieri.
“Il loro contributo è stato fondamentale”, conferma il capitano Antonio Corvino che, prima di arrivare a San Vito, per quattro anni ha lavorato come ufficiale addetto alla sezione Criminalità organizzata dei Ros di Roma dove ha ricevuto un encomio per le indagini su “Mafia Capitale”. “Quelle denunce, incrociate con il nostro lavoro investigativo, ci hanno consentito di identificare con sicurezza gli autori di gran parte delle truffe. Non sempre gli anziani hanno il coraggio di raccontare ciò che è accaduto loro, spesso neanche ai loro stessi familiari, per la vergogna di essersi fatti raggirare”. Per mesi Corvino, prima del Covid, ha tenuto incontri pubblici in tutta la provincia per spiegare agli anziani come difendersi dai tentativi di furti nelle abitazioni e di truffe: “Penso che molti tra quelli che non sono caduti nella trappola, erano informati dei rischi. In questo senso dovremmo tutti continuare a svolgere attività di divulgazione e figli e nipoti spiegare sino alla noia ai loro anziani genitori o ai nonni i rischi che si corrono”.
Truffatori così determinati che non esitano ad accompagnare al bancomat le loro vittime quando non hanno contanti disponibili. E’ il caso di una pensionata latianese di 78 anni alla quale il finto avvocato racconta che il figlio ha provocato un incidente ed è rimasto ferito e che servono 5.000 euro per chiudere bonariamente l’incidente: “Dopo la telefonata suona alla mia porta un giovane di 25/30 anni, scendo in strada, gli dico che non ho contanti e che non conosco neanche il saldo della mia banca. Lui mi invita a salire in auto dove c’era un altro giovane. Ci dirigiamo verso il bancomat e siccome non ci vedo bene consegno il tesserino magnetico e il fogliettino su cui avevo annotato il codice segreto Pin”. Le portano via mille euro, ma le telecamere della Banca Intesa San Paolo di Latiano riprendono Alessio Scialò e Fortunato Rivieccio.
La banda ha anche capacità tecnologiche non indifferenti, tanto che in un’occasione una pensionata viene invitata a comporre per avere conferma dell’autenticità della chiamata il numero telefonico 0831.112, che non è ovviamente quello dei carabinieri ma che può facilmente trarre in inganno: “Telefonai e mi rispose un uomo con accento napoletano che si presentò come maresciallo dell’Arma e mi ribadì che mio figlio aveva provocato un incidente stradale”, racconta una delle vittime. Probabilmente un abile trasferimento di chiamata.
Durissimo il gip nell’ordinanza di custodia cautelare: “La spiccata propensione al crimine e la forte carica antisociale degli indagati è testimoniata, oltre che dall’elevato numero di truffe realizzate, dalla particolare gravità di ogni episodio delittuoso, connotato dalla chiara volontà degli indagati di sfruttare la condizione di debolezza delle anziane vittime, aggredendone la sfera più intima ed emotiva, connessa al timore per le condizioni dei propri cari, pur di conseguire i propri obiettivi criminosi”.
L’indagine è tutt’altro che chiusa: i carabinieri della compagnia di San Vito dei Normanni hanno aperto una breccia in un business malavitoso che finora era rimasto blindato a ogni tentativo di inchiesta, anche da parte di strutture investigative costituite esclusivamente per combattere questi crimini odiosi. I rari casi di arresti di truffatori erano avvenuti finora solo quando erano stati colti con le mani nel sacco. Per la prima volta invece viene ipotizzata l’esistenza di un’associazione per delinquere e gli investigatori sono convinti che dietro la banda ci sia l’ombra della Camorra napoletana. Per questo l’indagine brindisina è il punto di partenza di un’inchiesta condotta a più ampio respiro da parte della Direzione distrettuale antimafia di Napoli.