di Giancarlo Sacrestano per il7 Magazine
La città, negli anni 50 era un centro principalmente agricolo e molto lento nell’accogliere il futuro che cominciava a costruirsi in altre parti di quell’Italia che distrutta ed impoverita era uscita dalla seconda guerra mondiale.
L’8 marzo 1959, come fosse fulmine a cielo sereno, la grande azienda nazionale, Montecatini, fa compiere alla città un enorme salto in avanti.
Nei pressi dell’attuale impianto petrolchimico, l’allora presidente del Consiglio Antonio Segni promise posizionando, insieme alle autorità locali, la prima pietra che cambiò la storia della città e del suo territorio. Pareva strano ma a Brindisi, la lenta e piccola città adriatica del basso Salento rinasceva lo sviluppo economico e sociale dell’intero Mezzogiorno.
Il presidente del Consiglio disse: “un sasso nello stagno che provocherà l’estendersi di cerchi di benessere, che raggiungeranno tutta l’Italia Meridionale”. Un impegno dichiarato l’8 marzo del 1959 a Brindisi dal Primo Ministro Antonio Segni nel discorso pronunciato dopo aver presenziato la posa della prima pietra del grande stabilimento petrolchimico della Montecatini, uno dei più significativi della politica statale dei “poli di sviluppo” avviata in quegli anni e finalizzata al rilancio industriale del Mezzogiorno.
Durante la cerimonia il futuro quarto presidente della Repubblica (sarà eletto nel maggio di tre anni dopo) aveva cementato nel blocco monolitico la pergamena-ricordo dettata dal Sottosegretario del Ministero della Poste e Telecomunicazioni on. Italo Giulio Caiati, uomo di punta dalla DC locale e nazionale e per molti anni protagonista della vita politica brindisina, il vero artefice della realizzazione del grande progetto.
La “prima pietra” era stata appena benedetta dall’Arcivescovo di Brindisi mons. Nicola Margiotta, presente alla cerimonia insieme al sindaco dimissionario Manlio Poto, al Presidente della Provincia Antonio Perrino e al presidente del Consorzio del Porto il comm. Teodoro Titi. Presero parte all’iniziativa anche il ministro per il Mezzogiorno Giulio Pastore, il ministro dell’Industria Emilio Colombo e i vertici della Montecatini, il presidente Carlo Farina e l’amministratore delegato Piero Giustiniani, oltre alle altre principali rappresentanze politiche, istituzionali e sindacali del territorio.
La realizzazione dello stabilimento a Brindisi per la produzione di derivati polipropilenici, avvalendosi dei finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno. La realizzazione dello stabilimento si rivelò un fallimento. Errori in fase di progettazione e di realizzazione dell’impianto comportarono maggiori costi e l’impegno finanziario che ne derivò influì pesantemente sul bilancio aziendale.
Nel 1963 il chimico italiano Alessandro Natta, vinse il premio Nobel con l’Italia fu sedotta dal Moplen. Il polipropilene isotattico fu inventato negli anni cinquanta. materiale è da considerarsi profondamente innovativo perché sia per le sue caratteristiche di resistenza meccanica, sia per l’economicità di lavorazione che rivoluzionò l’industria dei materiali termoplastici. L’impianto petrolchimico brindisino, attraverso la consociata di Montecatini, Polymer, arrivò a produrne sino al 60% della produzione nazionale.
A chi è più anziano non sfugge alla memoria lo spot pubblicitario con Gino Bramieri e la frase topica che recitava: “Ma signora badi ben che sia fatto di moplen!”.
Avviandosi al boom degli anni ’60, il Paese scoprì un materiale infrangibile, colorato, leggero, che poteva avere persino forme tonde e sinuose. Addio alla bacinella di metallo, cambia la vita di chi lavora in casa. E la nuova plastica diventa un fenomeno di costume. A Brindisi se ne produceva tantissimo, ma nessuna azienda e nessun imprenditore locale credette alla rivoluzione e l’enorme impianto petrolchimico restò indefesso testimone, come fosse cattedrale in un deserto di una rivoluzione che non produsse lavoro ma solo assistenza salariale diffusa e certificata per una classe operaia ed impiegatizia che non ha mai toccato il coraggio di investire sul processo industriale.
La notte tra il 7 e l’8 dicembre 1977 un tremendo scoppio presso il P2T un impianto cracking del petrolchimico che costò la vita a tre lavoratori, diventò la data di lenta ed inesorabile fine del miracolo industriale brindisino.
Oggi di tutto questo resta solo l’enorme stabilimento accozzaglia di ferro vecchio e scarne e sparute attività che non lasciano presagire un futuro migliore. Le residenze stratosferiche, inventate con un piano residenziale di tipo californiano, sono state tutte distrutte e rese terreno come all’origine di 65 anni fa. Tanti sono i lavoratori locali e quelli venuti da altre parti d’Italia, oramai in pensione, a cui è terminata pure la forza di parlare delle scelte non compiute, delle opportunità perdute, delle occasioni lasciate andare.
Quel che resta è il numero esorbitante di giovani e giovanissimi disoccupati che non hanno nella loro memoria, neppure il pensiero che a Brindisi sia passata la manna e nessuno l’ha capita e l’ha promossa. Gino Bramieri terminava il suo spot pubblicitario per promuovere la polivalenza del Moplen con la frase: “E Mò, e Mò, e Mò… Moplen!”.
A noi brindisini, la frase che resta di questa lunga storia non compresa è nella frase: “E Mò e mò e mò Niente!”.
Ancora oggi il moplen è largamente usato nell’industria, nell’ambito idrosanitario (tubi di scarico e sifoni) e casalingo (vasche, secchi ecc. ecc.).
Dopo qualche anno dalla crisi profonda ed inarrestabile della Montecatini, agli inizi degli anni ’80, a Brindisi, giunse l’interesse di un grosso investitore nazionale, L’ENEL, la società produttrice ed allora distributrice di energia elettrica.
Nessuno se lo sarebbe immaginato, ma dalla morte economica del territorio, giungeva l’esigenza importante ed indifferibile di un grosso investimento, quello della costruzione e messa in azione di una mega centrale ubicata nel territorio del comune di Brindisi, sulla costa meridionale a circa 12 km dalla città in località Masseria Cerano, e che avrebbe occupato un’area di circa 270 ettari. Fu costituita da quattro sezioni a vapore da 660 MW ciascuna, entrate in servizio nel periodo compreso tra ottobre ’91 e novembre ’93, per un totale quindi di 2640 MW installati.
Dal sito di Enel si apprende che per il contenimento delle emissioni le unità sono state dotate dell’intera gamma di impianti di ambientalizzazione: sistema di bruciatori per la diminuzione degli NOx già in fase di combustione, denitrificatori, desolforatori nonché precipitatori elettrostatici per l’abbattimento delle polveri.
La centrale gestisce la Rete di Rilevamento Qualità dell’Aria ed è stata sede del Centro di Raccolta ed Elaborazione dei dati che venivano trasmessi in continuo dalle 7 stazioni dislocate nel territorio circostante: le elaborazioni, correlate ai dati meteorologici e ai parametri di funzionamento delle unità, venivano resi disponibili in tempo reale all’Autorità di controllo.
Lunga ed estenuante è stata la storia di tensione tra l’azienda e gli ecologisti, contrapposti da due visoni conflittuali dello sviluppo energetico. Oggi l’impianto, la cui chiusura era stata programmata per il 2025 vede un momento di rielaborazione del suo combustibile storico, il carbone, per la durissima stagione negativa derivante dalla crisi determinata dalla guerra russo-ucraina.
Non sono più giovani gli attivisti, non sono più nemici gli imprenditori. A guardare il futuro che si appresta, persino a partire dai costi che vedremo nei prossimi mesi sulle nostre bollette, capiremo che lo sviluppo, fosse pure industriale ed il suo mancato attecchimento in città, ci lascia indeboliti, incapaci ed impotenti, mentre aumenta il costo di emigrazione delle nostre energie migliori, i nostri figli che a frotte di migliaia lasciano la città per altre e consone destinazioni.