Voglio voler sapere/L’angolo dei pedagogisti

Il processo di apprendimento non può e non deve considerarsi un meccanismo esterno all’individuo, gli studiosi in modo unanime e concorde hanno da tempo puntato l’attenzione verso gli aspetti emotivo-motivazionali che accompagnano l’apprendimento. La motivazione intrinseca è causa ed insieme effetto di apprendimenti significativi per l’individuo.
Con motivazione intrinseca si intende la spinta che induce l’individuo ad approfondire le proprie competenze, cioè a conoscere e ad apprendere; secondo gli studi più attuali gli esseri umani provano un vero e proprio piacere, un’esperienza emotiva positiva quando accrescono le proprie abilità e padroneggiano compiti via via sempre più difficili (White 1959), in questi momenti il rinforzo positivo, ad esempio di un’insegnante o educatore e in età di sviluppo, accresce la motivazione ad apprendere e genera una sorta di autogratificazione. Cioè una nuova motivazione intrinseca.
Come è vero questo è vero anche il suo contrario: una difficoltà di apprendimento ha molte probabilità di abbassare la motivazione del ragazzo ad apprendere e a frequentare la scuola.. E’ facile che egli arrivi intimamente a stimarsi poco rispetto ai compiti cognitivi e scolastici.
A questo punto bisogna distinguere: le difficoltà di apprendimento con il disturbo di apprendimento.
Dovremmo parlare di difficoltà di apprendimento per qualsiasi difficoltà incontrata da uno studente durante la sua carriera scolastica(es: basso rendimento scolastico, problemi di socializzazione, svantaggio socio-culturale…..ecc.)
Dovremmo parlare di disturbo di apprendimento per quelle problematiche più gravi e meglio definite, legate al processo di apprendimento.
In queste situazioni così complesse il ragazzo si forma il
concetto di sé scolastico (idea che il ragazzo ha di sé come alunno) e concetto di sé non scolastico (l’idea che il ragazzo ha di sé in relazione a tutte le attività che svolge al di fuori del contesto scolastico); spesso il Sé è compromesso solo nel primo caso, questo può avere conseguenze dannose e persistenti nel tempo. Un basso concetto di sé scolastico può indurre nello studente una percezione di scarsa autoefficacia e una cattiva auto-attribuzione, l’impressione cioè di non poter modificare il corso degli eventi ed una bassa autostima.
Questi due concetti, autoefficacia e auto-attribuzione, possono essere compresi esaminando alcune tipiche risposte. Per esempio si può chiedere al bambino di spiegare le ragioni dei suoi insuccessi: “Immagina di aver dovuto fare un compito per casa e di aver sbagliato le cose più importanti . Perché è successo? Immagina di aver riportato una cattiva votazione in un “tema” che tu pensavi di aver svolto bene. A che cosa può essere dovuto?”
Le risposte dei bambini varieranno a secondo della loro maggiore o minore percezione di autoefficacia. La maggiore differenza la si può riscontrare rispetto all’attribuzione di controllo. Infatti la risposta “ è accaduto perché non mi sono impegnato a sufficienza”, è più frequente nei bambini senza difficoltà di apprendimento, che danno una positiva valutazione alle proprie possibilità e quindi ritengono che, qualora ci si impegni in misura adeguata, si possa raggiungere il risultato desiderato. Al contrario, i bambini con difficoltà di apprendimento utilizzano più frequentemente altre risposte, del tipo “Non mi hanno aiutato a sufficienza”, “ Sono stato sfortunato”, “Non sono capace”, “Era troppo difficile” e così via; che fanno riferimento a fattori che sfuggono al loro controllo. Per quanto detto come premessa una disposizione d’animo positiva rispetto a compiti cognitivi complessi comporta una propensione a insistere o riprovare, dopo che si è sperimentato un insuccesso: questa propensione è rara nei bambini che non credono nel ruolo del proprio impegno personale.
Un sorprendente risultato che spesso si ottiene proponendo questionari di attribuzione a bambini con difficoltà di apprendimento è dato dall’essenza di una completa simmetria fra le spiegazioni di successo e insuccesso.
Questo aspetto emerge quando si invita il bambino a individuare le ragioni di successi ottenuti in situazioni analoghe a quelle precedentemente citate: “Immagina di avere dovuto esporre oralmente il contenuto di una lezione e riaverlo fatto bene. A quali fattori può essere attribuito questo tuo successo?” oppure, “Immagina di aver riportato una buona votazione nel compito di matematica. Perché si è verificato questo?”.
Nei casi di successo, le spiegazioni del bambino con difficoltà citano spesso fattori che non sono in rapporto con una buona autostima (fortuna, aiuto); le sue attribuzioni , però, possono non discordarsi molto da quelle del bambino senza difficoltà, ma si presentano più confuse e incoerenti. Per esempio, è stato riscontrato che egli può far riferimento al tempo stesso sia a fattori interni “Sono stato bravo”, “Mi sono impegnato” , sia a fattori esterni “Sono stato aiutato”, “L’insegnante mi ha in simpatia”, senza quella forte preferenza per fattori interni che si osserva spesso in quei bambini che hanno la percezione che i propri successi dipendono da se stessi ,di essi si dice che hanno un locus di controllo interno).
Da un punto di vista educativo è importante intervenire per dare una corretta relazione tra tentativi di padronanza/riuscita ed un’ulteriore messa in gioco; solo così si possono garantire apprendimenti significativi.
Il docente/educatore ha il delicato compito di stimolare e mantenere alta la motivazione attraverso strategie educative che in un clima di benessere prediligano il rinforzo positivo, non punitivo, non frustrante affinché la percezione delle proprie competenze induca ragazzi ad adoperarsi per raggiungerne delle altre consolidando autostima ed autodeterminazione.
In due parole “motivarli ad avere una motivazione”(De Beni-Lucangeli)

Dott.ssa Federica Protopapa
Dott. Luigi Persano