di GIANCARLO SACRESTANO
Conosco Brindisi, la frequento poco, clandestino urbano quale sono, ma la promuovo sempre, forse oltre ogni più naturale partigianeria.
La conosco tanto da ricordare che, proprio in questi giorni di giugno, esatti 340 anni fa, accadeva un fatto culturale rilevante.
Al tempo operava in città l’Accademia culturale de’ “Li Erranti”, un sodalizio che rappresentava un’avanguardia intellettuale talmente efficace che sostenne e finanziò la pubblicazione della “Memoria Historica dell’Antichissima e Fedelissima Città di Brindisi”. Puntualissimo resoconto storico a far data dalla fondazione della città sino al diciassettesimo secolo. A scrivere quel trattato, il padre carmelitano Andrea della Monaca, La stampa avvenne a Lecce “appresso” Pietro Micheli, nel 1674. Appunto.
L’obiettivo di quella elegante operazione intellettuale era la promozione di un percorso di sviluppo del territorio a cominciare dalla sua sensibilità culturale, origine e faro per ogni evoluzione socio-economica. Nei limiti e nella contestualizzazione delle condizioni date – vigeva un regime straniero monarchico assolutista – gli intellettuali brindisini si assunsero una grossa responsabilità e notevoli rischi anche di sicurezza personale.
Il luogo delle riunioni dell’Accademia degli Erranti, è l’ancora esistente complesso ecclesiastico detto delle “Scuole Pie” dove opera oggi il MAP Museo Mediterraneo delle Arti Presenti, che insieme al CRACC, Spin-Off dell’UniSalento, Italia Nostra, e “Lecce-Brindisi Capitale europea della cultura 2019, hanno organizzato il 5 giugno, presso il MAPRI, il Museo Archeologico Provinciale Ribezzo, la presentazione del libro “PRATICARE LA CITTA’” di Massimo Bignardi, docente di Storia dell’Arte dell’Università di Siena e che di ricerca se ne intende.
Arriva a Brindisi dopo una mattinata trascorsa a Lecce, dove un pubblico di addetti ai lavori lo ha ascoltato ed apprezzato. Il suo libro ha mietuto un vasto e corposo consenso critico perché il suo approccio alle prospettive della ricerca e delle metodologie d’intervento dell’Arte Ambientale nel corpo urbano delle città, vanta una esperienza ultra ventennale.
L’iniziativa ancorchè intelligibile ad un oratorio attrezzato, rientra nel novero di quelle attività necessarie, che hanno lo scopo di verifica e di rilancio di un programma d’intervento culturale sul territorio. Bene. Bravi. Bis.
Ho premesso di voler essere ascritto tra i promoters culturali del territorio natìo compreso tra le città di Brindisi, Lecce e Taranto e proprio per evitare una sovrabbondanza di partigianeria, mi permetto per il tramite di questo articolo di fare una riflessione-trattino-domanda ai sensibili organizzatori e per loro tramite anche al prof. Massimo Bignardi.
Hal Foster, critico d’arte statunitense contemporaneo, docente di storia dell’arte a Princetown, definisce le opere di arte ambientale come ”progetti di sculture “site-specific” che utilizzano materiale tratto dall’ambiente al fine di creare nuove forme o per re-indirizzare le nostre percezioni del contesto.
A Brindisi, mi pare di capire che vi siano variegati i progetti di “site- specific sculpture”, installazioni la cui forza espressiva corroborano, nella loro, non sempre lineare comprensibilità, la collettiva costruzione del “romanzo di formazione” così come definisce la città l’architetto Franco Purini.
Accade allora che, nella centralissima piazza della Vittoria, cittadino salotto “piccolo borghese”, irrompa nel pomeriggio soleggiato di un sabato maggiolino, un anonimo artista balcanico che installa in pochi minuti il simulacro di un turistic info-point. Un monolite in materiale misto, acciaio, vetroresina e gomma, di colore nero scintillante dalle dimensioni faraoniche con i suoi circa 130 metri cubi e del peso di circa 30 tonnellate. Presto diventa oggetto di attenzione meravigliata dei passanti (come in “2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubryk) divenuti inconsapevole pubblico che non capisce e stenta a comprendere la significazione di quello che all’apparenza sembra un bisonte della strada, un tir che, forte dei suoi quindici metri di lunghezza schiaccia, deforma sino al collasso l’incredulo basolato. Chiude come saracinesca la visuale e l’uso del consueto e lento corso. No! Non è un bisonte della strada, bensì l’elegante, affascinante rappresentazione della cultura dell’ospitalità di cui la città si fregia, – così ci dicono – sacrificando finanche se stessa pur di restare fedele alla sua missione.
A poche centinaia di metri, alla stessa ora, nel parco che è la culla della cultura ambientale titolata all’uomo che in città ha rappresentato il rispetto per il creato, Antonio Di Giulio, va in scena una ulteriore rappresentazione di come da noi si pratica la città ed un sito diventa esso stesso site-specific per installazioni (?) . Tra le delicate essenze floreali, frammisto ai teneri profumi di una natura in festa di primavera, i 100 decibel di enormi casse acustiche, i fumi delle rosticcerie autotrasportate lo straordinario numero delle migliaia di cittadini convenuti in un luogo che per il resto dell’anno offre il silenzio e la pace quali colonne sonore ai visitatori.
Nelle ore dell’incontro con Bignardi presso il MAPRI, nella piazza Duomo, nelle vie e per le piazze vicine, si prepara la enorme installazione artistica che il pubblico potrà visionare nei giorni tra il 6 e il 10 giugno. Non so come Purini potrebbe leggere questa rivisitazione post-post moderna della sua “strada novissima” che nel 1980 fece bella mostra di sé alla biennale di Venezia. Allora lui con altri eminenti architetti di caratura mondiale mostrarono come poteva essere riletta la facciata di una via, sorta di quinta scenica col contributo dell’architettura. I prospetti delle abitazioni furono rivissuti e rielaborati alla luce delle ricerche e degli stili elaborati dai professionisti. L’obiettivo che si pose l’allora direttore della biennale l’architetto Paolo Portoghesi fu quello di fare un esposizione “con” l’architettura e non “sull’”architettura.
L’enorme installazione che il professore Massimo Bignardi può solo aver concepito, si snoda per le vie e le piazze come protesi aggiunte alla struttura urbana della città. Il risultato apparente sembra ridurre la fruizione degli spazi urbani, ostacolare la comprensione dei capitoli precedenti, non promuovere il vissuto ma per poche ore imporre altro, forse migliore, ma altro. La ragione? Un’esposizione “sul” vino e non “col” vino.
La domanda, dopo la riflessione: gli esempi che ho sin qui riportato sono un espressione di arte ambientale sulla scia di Marcel Duchamp che intrecciò 17 chilometri di filo intricando la sala espositiva? Sono forse una rielaborazione del “merzbau” di Kurt Schwitters, e dei suoi anni di accumulazione? O siamo invece – per volare alto – di fronte alla rielaborazione dell’ “orinatoio” di Marcel Duchamp? Grazie.