
di Giancarlo Sacrestano
Avete visto bene.
Lo stemma della Provincia di Brindisi è sostanzialmente identico a quello della Contea di Kozienice in Polonia.
Sembrano partoriti dalla medesima mente, invece le ragioni storiche che li hanno determinati, hanno percorsi assai diversi.
La testa di cervo brindisina nasce dalla conformazione dell’antichissima area portuale che, vista dall’alto, somiglia, appunto, ad una testa di cervo.
Per Kozienice, il cervo rappresenta l’eleganza e la leggiadria del bell’animale che, in numero assai alto, vive da sempre, nelle folte foreste della contea.
Quanto la carne di cervo abbia contribuito al sostentamento e allo sviluppo di quegli abitanti, lo lascio solo intendere. A loro, lo stemma lo trovano gustoso.
Per comprendere quali prospettive sono rappresentate in questa somiglianza di stemmi, occorre superare l’ostacolo di 5 righi di storia. Un bel respiro e via in apnea.
Ciò che apparenta la nostra terra, con quella polacca e ben oltre la bella contea che conta poco più di 60mila abitanti, si colloca, al principio del XVI secolo, quando la duchessa di Bari, Bona Sforza, nipote di Ludovico il moro, divenne regina di Polonia, sposando a Napoli, il re polacco Sigismondo I detto il vecchio. Quanto la terza moglie (!) del re polacco, sia stata essenziale, allo sviluppo dei rapporti esteri di Polonia e in particolare con l’Italia, che allora scintillava di eccellenze del suo Rinascimento, sta scritto tutto nel fatto che lei morì avvelenata e sepolta a Bari, dove per anni restò in un’illacrimata quanto anonima sepoltura. Di nemici la regina italo-polacca se ne era fatti in gran numero! La causa anche nel suo patrocinio ai prodotti italiani.
A lei, grande mecenate del made in Italy in Polonia, si deve l’introduzione di verdure, ortaggi e vino. A differenza dei primi, il vino sin da allora però, incontra ostico ingresso nei mercati polacchi, perché più avvezzi a bevande più corpose come l’idromele ed ai suoi più moderni derivati di succhi da frutto. Col termine vino, viene ancora inteso ogni sorta di preparato anche in polvere sciolto in acqua. Far conoscere l’eccellenza per cui Brindisi assurge a simbolo di augurio ben augurante, non è cosa che può essere lasciata alla mercè di approfittatori e mercenari.
Il forte entusiasmo che la popolazione polacca, nutre per l’emulazione di modelli di riferimento, spinge, come ogni buon mercante sa, l’acquirente verso il miglior rapporto qualità prezzo, ma con i chiari di luna di questa crisi economica, che si fa sentire per ogni dove, l’unico discrimine che resta a baluardo della competitività di un prodotto è solo il prezzo basso. Si compra a minor prezzo, tutto quello che può anche lontanamente apparire per ciò che dice di essere. Basta un tricolore sulla confezione o il colore rosso di una bevanda! Evviva il made in Italy.
Dopo 500 anni da Bona Sforza, i nostri prodotti di eccellenza, vino e olio in primis, ortofrutta e gastronomici a seguire, non riescono ad oltrepassare il confine della nostra provincia, tanta è la concorrenza delle province limitrofe e tanto è pervicace l’uso del falso made in Italy più volte denunciato, ma che sul mercato polacco rappresenta i 2/3 del totale.
Avere dalla propria una buona disponibilità all’ascolto di un mercato nuovo, come quello polacco di cui parlo da diverso tempo, significa prima di tutto presentarsi con le vere eccellenze e battere le concorrenze, prima fra tutte, la mafia del falso eno-gastronomico, che è rappresentato a livello planetario da un 120 seguito da nove zeri di euro.
Non è presentando cassette di vino, né assaggini estemporanei, occorre produrre dialogo e fiducia. Condivisione e partenariato. Il falso made in Italy si combatte solo così. Lo sanno benissimo quelli di coldiretti che qualche anno fa produssero una barriera al Brennero dove fermavano i camion provenienti dalla Polonia carichi di latte, per la produzione estemporanea in Italia di falsi formaggi DOCG.
Accade così che le grosse catene di distribuzione francesi o tedesche occupino un ruolo di privilegio e capillare in tutto il territorio polacco vendendo falsi prodotti italiani.
Per capire meglio guardate questo filmato che raccoglie spots di aziende della grande distribuzione francese e tedesca in onda sulle tv polacche: https://youtu.be/mv0lFgYGqOc.
Non è il caso di approfondire il tema del boicottaggio francese al nostro salento e al nostro comparto d’eccellenza, l’olivo; né occorre spendersi in parole per stabilire la forza economica della Germania che monopolizza l’intera distribuzione nei paesi dell’Europa centrale.
Brindisi, la sua cultura, la sua imprenditoria. che vanta accrediti inesigiti in Polonia, deve cominciare, anche se con un ritardo colpevole, una stagione di apertura alla comprensione di come si va sui mercati esteri e di quanti schiaffi e porte chiuse si devono sopportare. Il nostro peggiore biglietto, la nostra estrema facilità di definire i compromessi.
A ore si aprirà il festival del Negroamaro, una kermesse che da settimane ha fagocitato il centro storico, sovrapponendo la discutibile architettura del posticcio, relegando il percorso naturale della città, già bella di suo e capace di ospitare altro che festival, persino concorsi internazionali di cultura del vino, tanti sono i contenitori fruibili e invidiati.
I suoi spazi e le sue strutture invece, semplici spettatori incomodi.
So che ha suscitato scandalo nei miei amici polacchi, la visione notturna del nostro palazzo di città, rimasto orfano di una rappresentanza, “offeso” dalla presenza degli stands (dire baracche pare pure a me una caduta di stile, ma rende efficace il senso della precarietà di quelle “spatacchie” che da anni, sono sempre le stesse).
Così non va. Così alimentiamo la lettura distorta di un processo di acquisizione di informazioni e dati che rapido circuita in internet.
Vendere Brindisi, portare in alto il prodotto del lavoro di chi si sacrifica per la qualità della produzione, lo si può fare solo unendo al comune bisogno di guadagnare, anche quell’ingrediente che rende unica la proposta: l’eccellenza, l’impeccabilità, della filiera di produzione e promozione.
Se siamo falsi noi, perché altri devono credere in ciò che facciamo?
Un detto polacco recita: per fare fesso un polacco, occorrono due napoletani”.