Alla conquista di Rodi: nel 1912 il battesimo per la base di Brindisi

Maturata, dopo qualche anno di gestazione, la decisione di creare una base navale a Brindisi, nel febbraio del 1909 il castello di terra – ribattezzato nell’occasione “Castello Vittoria” – venne ceduto formalmente alla Marina Militare dopo la chiusura del bagno penale che lì aveva operato durante l’ultimo secolo.
Agli inizi del Novecento infatti, il mare Adriatico aveva assunto un’importanza primaria nella geo strategia del Regno d’Italia e la creazione di una nuova base navale nel Basso Adriatico era divenuta prioritaria per fare da contraltare alle minacciose installazioni della Marina dell’impero austro ungarico presenti nella base di Cattaro. Nel 1905 il viceammiraglio Camillo Candiani aveva presentato uno studio che prevedeva la fortificazione del porto di Brindisi, secondo un articolato progetto che il 26 maggio 1905 venne approvato anche dal consiglio comunale, perché “la trasformazione di Brindisi in porto militare, sede di una stazione di cacciatorpediniere e base di rifornimento navale, avrebbe avuto senz’altro delle ricadute positive sull’economia della città”.
Tre anni dopo, quando l’Austria intervenne nei Balcani incorporando al suo impero la Bosnia e l’Erzegovina, il progetto tornò alla ribalta e l’ammiraglio Giovanni Bettolo, nuovo capo di Stato Maggiore della Regia Marina, nel mese di febbraio1908 si recò personalmente a Brindisi a bordo della corazzata Dandolo al fine di ultimare gli studi e quindi dare un forte impulso ai lavori già in corso, stabilendo proprio in quell’occasione di destinare il castello svevo a sede del Comando Marina. Quando poi, il 28 dicembre di quel 1908, la città di Messina fu sconvolta dal terremoto, nel 1909 la Marina decise di trasferire a Brindisi il Comando Torpediniere.

«Ieri mattina alle 11, la moderna corazzata veloce Vittorio Emanuele, al comando di Paolo Thaon di Revel, manovrando con le macchine, senza aiuto di cima e di rimorchiatore, è entrata con brillante manovra nel porto interno di Brindisi, prendendo due boe di prua ed una di poppa. È questa la prima volta che una nave da battaglia del tonnellaggio della Vittorio Emanuele, di circa 13 mila tonnellate, della pescagione di metri 8,40 e della lunghezza, di metri 133, entra nel porto interno.» [Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia del 14 maggio 1909]
Con il regio decreto del 28 aprile 1910 fu emanato l’Ordinamento e regolamento delle Difese Marittime Italiane al cui primo articolo erano elencate le piazzeforti che dovevano avere comandi marittimi permanenti; e fra quelle, Brindisi. Subito dopo, il ministro della marina Carlo Mirabello annunciò l’elevazione a capitaneria dell’ufficio circondariale di porto di Brindisi. E il 22 giugno 1911, alla vigilia del conflitto italo-turco, il porto di Brindisi fu elevato a elemento di prima categoria nei riguardi della difesa militare dello Stato, ferma restando l’iscrizione del porto stesso nella prima classe nei riguardi del commercio. Così, scoppiato il conflitto alla fine di settembre, la base navale di Brindisi – in cui i servizi logistici erano stati ormai approntati – fu messa in stato di guerra costituendosi da subito in rilevante riferimento strategico e operativo per le forze militari italiane.

Nel contesto di quella guerra, provocata dall’Italia con l’obiettivo – finalmente concretizzato – di strappare la Libia alla Turchia, stante l’impasse militare determinatosi in Cirenaica e Tripolitania, il governo italiano decise di portare attacchi quanto più possibile prossimi al centro nevralgico del nemico, per costringerlo a cedere le regioni nordafricane rinunciando a ulteriori resistenze. L’obiettivo iniziale individuato a tal fine furono le isole Sporadi meridionali – meglio conosciute come Dodecaneso – la più grande delle quali è Rodi. L’eventuale occupazione di quelle isole, almeno secondo le intenzioni iniziali ufficiali, sarebbe stata provvisoria, ma poi in realtà, una volta compiuta, si sarebbe invece protratta fino al termine del secondo conflitto mondiale.

Furono quindi stabilite le direttive di massima per una prima azione solo navale: quattro le divisioni previste, ripartite in due gruppi: il primo, composto da tre divisioni, avrebbe operato nell’alto Egeo, mentre il secondo raggruppamento, con una sola divisione, si sarebbe concentrato nella zona meridionale. Originariamente infatti, la strategia non prevedeva alcuna azione territoriale e l’attività della flotta si sarebbe dovuta limitare al bombardamento delle coste, al sabotaggio delle linee ferroviarie e dei cavi subacquei e all’intercettazione di sottomarini e imbarcazioni turche: azioni tutte che si sperava inducessero la Turchia alla resa in Africa.
E così, a metà aprile di quel 1912 il Duca degli Abruzzi Luigi di Savoia, che era il titolare dell’ispettorato siluranti, partì dalla base navale di Brindisi con l’incrociatore corazzato Vettor Pisani, sua nave ammiraglia, al comando della 4ª squadriglia cacciatorpediniere, formata dalle unità Aquilone, Borea, Nembo e Turbine e della 2ª squadriglia torpediniere d’alto mare, composta dalle unità Calipso, Climene, Pegaso, Perseo e Procione, portandosi nell’Egeo meridionale e puntando inizialmente sull’isola di Stampalia, dove il duca prevedeva incontrare un informatore della compagnia di navigazione Khediviale, che avrebbe dovuto guidare la sua flottiglia nel tortuoso percorso minato dei Dardanelli.

Contemporaneamente, appena un po’ più a nord, in quella stessa notte tra il 17 e il 18 aprile iniziavano le azioni offensive italiane con i bombardamenti navali e gli attacchi alle unità turche: presso l’isola Samos fu affondata la cannoniera turca Ircanich e venne bombardata una caserma, mentre altre unità italiane si portavano a ridosso dell’isola di Imbros, nei pressi dell’imboccatura dei Dardanelli, con l’obiettivo di sostenere l’azione delle siluranti che sarebbero giunte il giorno seguente, nonché per eventualmente impegnare la flotta turca qualora fosse uscita dallo stretto.
Per il giorno successivo erano attese un’ulteriore squadriglia di cacciatorpediniere ed un’altra di torpediniere d’alto mare, che però arrivarono troppo tardi. Quindi Luigi di Savoia ed il suo capo di Stato Maggiore, capitano di vascello Enrico Millo – futuro eroico protagonista della Prima guerra mondiale – si trovarono a dover avviare l’operazione con metà delle forze previste inizialmente. Si decise di disporre la flotta su due file parallele, ma il mare agitato non favorì il mantenimento della formazione e dopo un iniziale rinvio, la prevista azione delle siluranti fu annullata e si optò per l’alternativa di provocare le corazzate turche per così attirarle in mare aperto: la divisione al comando del contrammiraglio Ernesto Presbitero, si presentò dinanzi all’imboccatura dei Dardanelli, mentre le due divisioni guidate dai contrammiragli Camillo Corsi e Paolo Thaon di Revel – futuro capo di Stato Maggiore della Marina e comandante in capo delle forze navali del Basso Adriatico nella Prima guerra mondiale – rimasero fuori vista, pronte ad intervenire, coperte dall’isola di Imbros.
Dalla riva asiatica il forte turco Orhanié aprì il fuoco e l’intera squadra italiana d’immediato rispose al fuoco. Il duello di artiglieria si prolungò per circa due ore, provocando il grave danneggiamento dei due forti turchi Kum Kalé e Sed Ul Bahr finché, poco dopo le 13, fu ordinata l’interruzione dell’attacco e tutte le unità italiane si allontanarono dai Dardanelli. Nel bombardamento, che coincise con l’inaugurazione della nuova Camera nella capitale ottomana, furono sparati 545 colpi dalle navi italiane e il Daily Chronicle telegrafò da Costantinopoli che il cannoneggiamento aveva seminato ben 300 vittime tra gli artiglieri turchi. Una notizia che destò grande emozione tra la popolazione e indignò il governo turco appena riconfermato al potere: si era infatti diffusa la consapevolezza che ormai il centro nevralgico dell’impero ottomano non fosse più al sicuro. L’obiettivo iniziale dell’azione italiana era stato quindi, in buona parte raggiunto… però, non sarebbe risultato sufficiente!

Si decise pertanto di procedere all’occupazione dei territori, e si progettò la denominata “Operazione Bomba”. Il 28 aprile, la 2ª divisione della 1ª squadra prendeva possesso in modo pacifico di Stampalia per crearvi una prima base. Il 4 maggio le prime squadriglie italiane si avvicinarono alla costa di Rodi e, effettuato lo sbarco, i primi contatti con le truppe ottomane avvennero all’altezza del colle di Koskino, quando un distaccamento di 400 soldati turchi attaccò rallentando l’avanzata, e al crepuscolo le truppe sbarcate arrivate a mezz’ora di marcia da Rodi città, si attestarono per la notte. Quando la mattina del 5 maggio gli attaccanti si mossero alla volta di Rodi accerchiandola e intimando la resa, scoprirono che la guarnigione militare turca si era ritirata e appostata sul promontorio di Psithos più difficilmente espugnabile e così, all’ingresso nella città le truppe italiane non incontrarono alcuna resistenza e furono ben accolte dalla popolazione greca, ostile al dominio turco e fiduciosa in una prossima riannessione alla madrepatria. Alle ore 14, la bandiera italiana venne issata sul castello dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, la famosa fortezza rodense simbolo secolare dell’isola.
All’alba del 16 maggio, le truppe italiane inerpicandosi per sentieri scoscesi colsero di sorpresa i soldati turchi, che comunque opposero una dura resistenza che si protrasse fino alla sera, quando finalmente optarono per la ritirata imbattendosi nel fuoco di sbarramento dei bersaglieri e, quindi, arrendendosi. Sulle altre isole del Dodecaneso la resistenza turca fu pressoché assente e ciò permise ai marinai italiani di prendere immediatamente il controllo dei vari posti di guardia, in attesa dell’avvicendamento con militari e carabinieri.
L’Italia, di fronte allo sconcerto internazionale, ribadì che l’occupazione del Dodecaneso sarebbe stata temporanea, finalizzata alla resa turca e al controllo definitivo delle regioni libiche, e che le truppe sarebbero state ritirate dopo la fine della resistenza turca in Africa. Poi però, l’Italia riuscì a conservare il possesso dell’arcipelago grazie all’ambiguità e alla notevole abilità dei suoi diplomatici, che seppero ben approfittare delle precarie e caotiche condizioni generali della situazione politica e militare allora imperante in Europa.
Con l’occupazione di Rodi e del Dodecaneso, l’Italia assumeva il controllo dell’Egeo, bloccando le attività marittime turche e restringendo il flusso di rinforzi e rifornimenti in Libia e così, finalmente, nel luglio del 1912 la Turchia accettò di avviare, ufficiosamente e nella massima segretezza, i preliminari per le trattative di pace che si prolungarono poi per mesi in Svizzera, a Losanna, e si conclusero solo alla fine dell’anno.

Nel mentre, non cessarono le pressioni militari italiane sulla Turchia, portate avanti in prima linea dalla marina militare e alle quali la recentemente creata base navale di Brindisi con la sua stazione torpediniere, continuò a partecipare attivamente, al tempo stesso in cui continuava ad ampliarsi e a rafforzarsi, in vista, aimè, del ben più difficile e duro impegno bellico che, da lì a pochissimi anni, sarebbe stata chiamata ad adempiere, quando alle torpediniere si sarebbero affiancati anche i sommergibili e i famosi MAS, che con le loro gesta avrebbero scritto tante pagine brindisine di gloria e di dolore. Ma questa è tutta ben altra storia!