Alla scoperta dei Faraglioni di Brindisi: tra Apani e il Canale Reale

L’idea di fare una passeggiata lungo la litoranea nord, partendo da Apani, anzi da “Posticieddu”, cioè quell’insieme di casette e villini posti nell’entroterra di Lido Azzurro, Lido San Benedetto, Arca di Noè e Mare 128, alcuni dei quali abitati tutto l’anno e non solo nella stagione estiva, mi è venuta nel corso di un giretto in auto per verificare, per mia curiosità, la situazione della strada nei punti a ridosso di quelle parti della falesia franata negli ultimi anni, in località Torre Testa e di fronte al Parco Sbitri.
In occasioni delle ultime frane si è provveduto a transennare la parte più esterna della strada quella posta sul ciglio verso il mare, restringendo la carreggiata in attesa di provvedere, in seguito, ad effettuare lavori di consolidamento e quant’altro.
Per farla breve, la situazione non è cambiata di molto se non in peggio: ulteriori frane hanno reso ancora più incipiente il pericolo e, per quanto riguarda le transenne poste sulla litoranea di Sbitri, una è stata addirittura tirata giù da un ulteriore crollo del ciglio della strada.
Ma non è di questo che voglio parlare questa volta, quanto della prosecuzione, questa volta a piedi, della passeggiata lungo la litoranea nord.
Oltrepassate le casupole di Posticieddu e lasciata l’auto alle spalle di Guna Beach, ricordando la presenza delle scalinate in legno fatte realizzare dal Comune di Brindisi nel corso dei lavori di messa in sicurezza della falesia fra il 2015 ed il 2016, che interessarono la costa brindisina da Punta Penne ad Apani, armato di macchina fotografica, robusti pantaloni in tela e scarponi da “battaglia”,
ho percorso la stradina Baccatani, dall’omonima contrada che attraversa, che è quella che porta a Boa Gialla, un’area attrezzata in estate molto frequentata non solo da chi vuol fare il bagno o passare una giornata al mare, ma anche raggiungere a piedi la vicina Riserva di Torre Guaceto, percorrendo la parte del parco ricadente in agro di Brindisi.

Dal momento che le disposizioni antipandemia proibiscono lo spostamento al di fuori del territorio comunale, mi sono proibito da solo di arrivare fino alla Torre che ricade, invece, come molta parte della riserva, in agro di Carovigno, immaginando scene come quelle a cui si è assistito sul web nella scorsa primavera, di elicotteri della Guardia di Finanza, vedette della Guardia Costiera e vigili urbani correre a perdifiato per inseguire, placcare e multare il povero sventurato che si era concesso una passeggiata a mare durante il lockdown e che mi sarebbe potuto accadere se solo avessi osato poggiare la punta del mio piedino nel territorio dell’antica Carbrun, quasi alla stregua della triste sorte di Remo che, sottovalutando la minaccia del gemello Romolo, aveva varcato il confine tracciato con l’aratro per segnare i confini della nascente Urbe!
Giunto al termine della strada non posso fare altro che constatare che le scale in legno sono assolutamente inutilizzabili sia perché sgarrupate per azione del vento e dei marosi, sia perché conducono verso il nulla, dal momento che negli ultimi cinque anni il mare si è divorato anche quell’ultima linea di spiaggia che era ai piedi della falesia, mentre le opere di consolidamento e messa in sicurezza della stessa, in questo, come negli altri tratti della litoranea nord sono sati un vero flop anche se, probabilmente, a sentire sia gente esperta che un paio di abitanti del luogo, non sono mai stati posti a compimento per come erano stati progettati e, anzi, essendosi all’epoca addirittura estirpati dei vecchi tamerici, che con le loro radici tenevano insieme il terreno argilloso, e non essendo state queste essenze arboree sostituite, la situazione è ulteriormente ed in tutti i sensi, precipitata.
Manifestata la mia intenzione di scendere verso il mare, mi viene suggerito di percorrere per qualche centinaia di metri una stradina più all’interno, parallela al mare, in direzione del Circolo velico di Torre Guaceto, fino a quando non si arriva ad un comodo varco tra la falesia dove è possibile giungere sulla spiaggia.

Raccolgo l’invito e mi dirigo di buona lena verso nord, godendomi un paio di affacci sul mare lì dove la vegetazione è meno fitta e lascia spazio all’orizzonte.
Capisco di essere arrivato ad uno dei punti sperati quando intravedo spiccare i primi due faraglioni, che proprio faraglioni non sono, anche se a me piace chiamarli così.
A differenza dei veri e propri faraglioni, come quelli famosi di Torre Sant’Andrea a Melendugno o quelli di Capri o i Ciclopi di Acitrezza -così chiamati perché, narra la leggenda, si tratterebbe degli enormi massi lanciati dall’accecato Polifemo contro la nave di Ulisse – quelli nostrani oltre ad essere decisamente più piccoli, alti quattro o cinque metri al massimo, non sono scogli rocciosi emergenti dal mare in corrispondenza di una costa scoscesa da cui per effetto dell’erosione si sono staccate nel corso di centinaia di migliaia di anni, bensì ammassi di argilla cretosa, tenuta insieme dall’intreccio di vecchie radici di tamerici ed altre essenze mediterranee, originariamente facenti parte della falesia e che, crollatagli questa tutta intorno, sono rimaste erte come sentinelle nel mare, esistenti da non moltissimi anni e destinate a disgregarsi e sciogliersi nell’acqua del mare, nel giro di alcuni anni o, al più, pochi decenni.

Anzi, a dire il vero, uno di essi già praticamente non esiste più, ma si intravede a malapena la sua base ergersi per pochi decimetri dal mare.
Lasciati alle spalle i primi faraglioni, a distanza di qualche centinaio di metri l’uno dall’altro ce ne sono altri, uno ricorda la scarpa di un gigante, un altro è stato curiosamente modellato dal vento e dal mare a forma di vaso rovesciato.
Non ho ancora smesso di deliziarmi alla vista di queste sculture modellate dal vento, con sullo sfondo la Torre che dà il nome all’intera località e, a perdita d’occhio, la distesa schiumosa del mare in tempesta, che sulla battigia riconosco una sagoma fin troppo famigliare: si tratta della carcassa spiaggiata di una grossa tartaruga marina Caretta caretta.

Superato il centro velico, cessa di botto la falesia ed il litorale è basso, ampio e sabbioso, di una sabbia fine e chiara che più chiara non si può.
Ancora pochi metri, infatti, e ripongo nello zaino scarpe e calze per guadare la foce del Canale Reale, un fiume la cui fonte sorgiva ai trova a Villa Castelli e che sfocia nel territorio di Brindisi dopo aver percorso quasi 45 chilometri attraversando campi e paesi
Proprio a metà del guado un coloratissimo Martin pescatore mi passa pochi centimetri dal volto e si rifugia nel fitto del canneto.
Mi diverto a cercare, come facevo da bambino, fra le tante conchiglie sbattute sulla spiaggia dalla furia delle onde, le cipraee, tanto simili a piccole splendide porcellane e le orecchie di Venere, specie di cozze patelle, ma assai più eleganti, con la parte interna di madreperla luccicante, la cui forma ricorda vagamente quella delle orecchie umane, di cui sono ghiotti non solo i granchi ma anche gli uccelli marini, il che potrebbe spiegare la presenza di tanti gusci vuoti proprio laddove stazionava fino a pochi minuti prima del mio arrivo un gruppo di gabbiani che, alzatisi in volo, si erano diretti verso uno degli isolotti posti al centro della baia.

Il volo elegante ed armonioso di un Fenicottero rosa, con il caratteristico collo teso in avanti, che, dopo aver evidentemente riposato nell’oasi si dirigeva con decisione verso sud, probabilmente verso le Saline di Punta della Contessa per raggiungere i suoi consimili ed il volo disordinato di alcune anatre, mi distolgono per un momento dal mare e mi ricordano che sto costeggiando il canneto meridionale di Torre Guaceto.
Ancora qualche decina di metri e mi trovo a dover attraversare un altro corso d’acqua, assai più impetuoso del canale reale, non canalizzato, che sbuca quasi all’improvviso dal canneto.
Fra me e la Torre ci sono solo poche centinaia di metri, che dovrei percorrere camminando con l’acqua fino alle ginocchia dal momento che le onde fanno sbattere il mare contro il canneto che lo separa dalla palude.
Memore della promessa fatta a me stesso di non mettere piede in agro di Carovigno, in ottemperanza all’ennesimo DCPM governativo, faccio lo stesso percorso dell’andata ma, superato il circolo velico, mi soffermo maggiormente ad osservare la falesia nei punti, già all’interno della Riserva di Torre Guaceto e di competenza del Comune di Brindisi, dove nessun lavoro di messa in sicurezza è stato effettuato e ricordo che esattamente dieci anni addietro, nell’autunno del 2010, uno sfortunato ricercatore universitario di neanche trent’anni di età, perse la vita nel mentre stava effettuando dei rilievi sull’erosione costiera, proprio dall’alto di un quella stessa falesia, precipitando nella zona sottoastante e rimanendo schiacciato e soffocato dal peso dell’argilla che gli era franata addosso.

Pensando allo stato di questo tratto di mare, frequentato in estate da centinaia di bagnanti e ripensando ai tratti di falesia crollata fra Giancola e Punta Penne, anche a ridosso della strada, mi chiedo se debba necessariamente scapparci un’altra vittima prima che qualcuno provveda ad avviare dei seri lavori di consolidamento che possano risolvere il problema delle frane che interessano sia la litoranea Sud che, in misura anche maggiore, quella a Sud, nei pressi di Cerano, assai meglio di quattro vecchie transenne e qualche sparuto cartello che avverte del pericolo.
Essendo l’ultimo tratto percorso più ciottoloso che sabbioso mi rendo conto che, assorto dai vari pensieri, non mi ero più rimesso le scarpe ai piedi ed è tempo di farlo, essendo giunto quasi al termine della passeggiata.

Anche per farmi passare il magone che mi ha preso nel vedere tanta bellezza ostaggio di tanta trascuratezza, prima di far ritorno a casa, preferisco sgomberarmi la mente portandomi sul posto più vicino possibile al mare per godermi le spettacolari acrobazie che, fra cielo e mare, sta compiendo nelle acque del Guna Beach, l’amico Tommy di Giorgio, il re del kitesurf – uno sport velico, nato una ventina di anni addietro come variante del surf (solo tavola) e del windfsurf (tavola a vela), in cui ci si fa trainare da un aquilone (in inglese kite) che usa il vento come propulsore e che viene manovrato dall’uomo attraverso una barra, collegata da sottili cavi lunghi una ventina di metri – e quando il vento da maestrale e le onde la fanno da padrone, sconsigliando anche ai più di avvicinarsi al mare, è allora che, estate o inverno che sia, scendono in campo Tommy ed i suoi amici con le loro sorprendenti evoluzioni in aperto contrasto con le leggi gravitazionali della fisica.