Alla scoperta della masseria di Casignano, risalendo il Cillarese

Capita spesso, nel corso delle nostre passeggiate a sfondo naturalistico, di incappare in vecchie masserie fortificate anche perché il territorio rurale di Brindisi è particolarmente ricco di queste suggestive costruzioni le cui origini, in alcuni casi, risalgono alla notte dei tempi.
È, allora, il caso di accennare brevemente a quella che, nell’antichità, fu la villa rustica romana, che non era semplicemente una costruzione di campagna dove, magari per un breve periodo dell’anno, andava a dimorare il ricco proprietario, ma molto di più: era il nucleo ed il cuore pulsante di una vera e propria azienda agricola di proprietà di famiglie molto in vista, dove, non solo veniva prodotto tutto quanto necessario perchè la famiglia stessa e, con essa, centinaia di lavoranti, spesso schiavi, avessero di che vivere agiatamente – ed il superfluo veniva commercializzato – ma era concepita come una vera e propria struttura militare, in cui ognuno aveva un compito ben preciso e chi vi lavorava riceveva non solo vitto, alloggio e salario, ma anche protezione.

Si trattava, pertanto, di una organizzazione molto complessa, che aveva una conformazione pressocchè simile ovunque: una zona denominata pars dominica, che era quella riservata al padrone (dominus) ed alla sua famiglia, una zona decisamente meno nobile, definita, non a caso – e qui vi è la prima assonanza anche fonetica con le nostre masserie – pars massaricia, divisa in pars rustica, cioè la zona destinata agli schiavi ed ai lavoratori dell’azienda, e pars fructuaria, destinata alla lavorazione dei prodotti, come i nostri vecchi palmenti. I preposti dal dominus alla direzione e vigilanza delle villae rusticae erano denominati, allora come ora, massari. Ovviamente vi era poi la zona destinata ai ricoveri ed ai recinti per gli animali, che erano sempre ricompresi nella parte circondata da mura, così come, in genere anche l’orto ed il frutteto per le esigenze più strettamente famigliari mentre all’esterno si sviluppavano i grandi latifondi dove si coltivavano, almeno dalle nostre parti, come ancora si coltivano, soprattutto olivi e viti.
Con la caduta dell’impero romano le ville rustiche andarono in disuso e furono depredate ed i loro materiali utilizzati per costruire altro, fino a quando, nel basso medio evo, a causa dell’intensificarsi delle incursioni dei predoni turchi in tutto il Salento, i proprietari terrieri, almeno quelli più ricchi, ripresero a fortificare le masserie, riprendendo l’antica idea romana, per cui ripresero la loro funzione di centro nevralgico non solo della vita e della produzione agricola, ma anche sociale, dal momento che erano strutturate, ancor più di quelle romane, per essere autosufficienti e poter resistere, come è in effetti successo, anche a lunghi periodi di assedio o di carestia. Vi era sempre una parte abitativa principale destinata alla famiglia del proprietario, gli alloggi dei dipendenti, i luoghi di lavoro per la trasformazione dei prodotti agricoli, il cortile, l’aia, le stalle e, per quelle più grandi, anche una zona destinata alla coltivazione di ortaggi ed alberi da frutto.

Con questa funzione le “nostre” masserie sono rimaste in piedi e produttive fino almeno alla metà del secolo scorso mentre attualmente, esclusi i rari casi in cui la lungimiranza di qualche facoltoso proprietario terriero o la loro riconversione a strutture di ricezione ne ha consentito la rinascita, la maggior parte di esse sono abbandonate a se stesse ed alcune ridotte, addirittura a ruderi con pochi ricordi dell’antico e, a volte, glorioso passato.
La masseria incontrata per caso nel corso di una nostra recentissima passeggiata che ha avuto inizio alle spalle dall’invaso del Cillarese, a due passi dalla città, è stata la Masseria Casignano, lambita da un corso d’acqua che nasce in agro di Mesagne con il nome Capece (lungo 10 chilometri), continua con il nome Galina (lungo 17.9 chilometri) e prosegue con il nome Cillarese (lungo 5.6 chilometri) fino a espandersi in un grande invaso artificiale – Oasi di protezione della fauna selvatica dal 1992 – la cui omonima diga regola il deflusso delle acque verso il seno di ponente, per poi sfociare nel porto interno di Brindisi, attraversando il Parco Urbano del Cillarese.
Va detto che, in origine, si trattava di una area paludosa che nel 1980 è stata bonificata, grazie alla costruzione di un invaso artificiale, realizzato con fondi della Cassa per il Mezzogiorno, e trasformata in un bacino idrico per fornire acqua alle industrie locali, ma tale lago, nonostante la sua origine “artificiale” quale prodotto di tipo ingegneristico, riveste oggi un ruolo ecologico importante nel sistema delle zone umide della provincia di Brindisi per la sosta, lo svernamento e la riproduzione degli uccelli acquatici.
Le sponde del corso d’acqua, nonostante la cementificazione degli argini, ospitano tuttora, tra le piante erbacee e cespugliose che resistono all’azione dell’uomo, larve e adulti di insetti e anfibi, rettili (testuggini e serpenti), piccoli mammiferi (topolini), attirando uccelli acquatici di diverse specie: dai piccoli limicoli che si nutrono beccando e setacciando il fondo fangoso, ai passeriformi che prediligono anche ciuffi di canneto, agli aironi (Garzetta, Airone cenerino), fino ai grandi uccelli che è possibile osservare durante il passo migratorio, soprattutto primaverile, come la Cicogna bianca.

Il corso d’acqua Cillarese, assieme al bosco di un tempo, ha sicuramente contribuito alla ricchezza della vita nella Masseria Casignano che è stata edificata, probabilmente nel XIV secolo, esattamente dove millecinquecento anni prima vi era una grande villa rustica romana.
D’altronde la presenza, storicamente accertata, di un bosco di querce da sughero di circa venti ettari (sessanta tomoli) è quasi il sigillo della presenza romana in terra messapica, in quanto furono proprio loro a scoprire e, quindi, sfruttare, la incredibile adattabilità di questo albero – utilissimo in quanto la corteccia di sughero era, all’epoca, l’unico materiale naturalmente impermeabile e galleggiante esistente – alle condizioni climatiche ma, anche e soprattutto, di terreno della fascia posta a metà strada fra Brindisi e Mesagne, fino a Cerano, dove la gran quantità di corsi d’acqua, ora purtroppo quasi tutti per intero canalizzati, ha consentito per secoli questo piccolo miracolo, in un luogo molto diverso e lontano dal suo abituale areale di distribuzione.
A partire dagli anni cinquanta del secolo scorso queste sugherete hanno dovuto fare i conti, oltre che con la cementificazione degli argini dei fiumiciattoli, che di fatto hanno inaridito zone prima rese fertili dal limo, anche con l’esigenza nata con la riforma agraria del dopoguerra, di rendere coltivabili quante zone più ampie possibili dei vecchi latifondi espropriati ai ricchi signori di un tempo, sicchè i boschi vennero considerati qualcosa di inutile. Numerosi furono gli incendi dolosi e gli espianti selvaggi, da cui si sono salvati solo pochi ettari sparsi qua e là, ma non la sughereta di Casignano, andata definitivamente distrutta intorno a metà degli anni sessanta del secolo scorso.
Che non si tratta di una masseria come tante altre lo si capisce non appena si supera un ponticello sul Cillarese e si rimane letteralmente incantati dall’imponente schiera, ai due margini della strada, di maestosi esemplari secolari di Pinus pinea, il cosiddetto Pino da pinolo, con la caratteristica forma ad ombrello, che conduce fino al cancello della tenuta fortificata.

Giunti sul posto colpisce subito la forma atipica della costruzione principale, dal momento che la originaria torre rinascimentale è stata grandemente modificata per essere adattata ad una funzione residenziale e dotata di una asimmetrica scala esterna divisa in due bracci che, poi, si uniscono per condurre al primo piano, dove vi era l’abitazione signorile.
Imponente il portale, con tanto di stemma nobiliare al centro dell’arco in pietra leccese che porta, a sinistra, verso la corte, mentre sulla destra rispetto all’ingresso, le stalle oramai diroccate, segno evidente che è oramai da un bel po’ di tempo che non si pratica più in quel luogo l’allevamento di bestiame. Le mura in pietra, tutt’attorno, conferiscono ancora più importanza alla costruzione
Da informazione assunte sul posto, la masseria era abitata fino a pochi anni addietro mentre i campi, all’esterno della masseria, ben coltivati, lasciano intendere che l’attività agricola è ancora fiorente.
Seminascosto dalla vegetazione spontanea fa capolino Cucciolo, una grezza statuetta in gesso e cemento, l’ultimo rimasto degli originali sette nani che chi ha frequentato in un recente passato la masseria ancora ricorda e che oramai fa da sentinella solitaria e non sembra mai perderti di vista!
La storia di questa masseria, che dal XVI secolo era entrata a far parte del patrimonio ecclesiastico e gestita dal relativo capitolo, si intreccia, ad un certo punto, come anche altre del nostro territorio, con storie e leggende che hanno come protagonisti i briganti. Il periodo è quello immediatamente successivo all’irrompere delle truppe sabaude in quello che era stato il Regno di Napoli, viste da gran parte della popolazione, dell’aristocrazia ed anche del clero, come vere e proprie truppe di occupazione, mentre i briganti, in origine quasi tutti ex soldati borbonici che non si erano rassegnati alla sconfitta, erano visti da molti come degli eroi, almeno fino a che non cominciarono a macchiarsi di atroci delitti.
Mentre in molti casi le masserie, almeno quelle appartenenti a personaggi che avevano giurato fedeltà al nuovo re, venivano razziate, nel caso della masseria di Casignano, invece, con il tacito assenso del capitolo ecclesiastico, che ne era proprietario, nell’autunno del 1862 una banda di una cinquantina di briganti trovò un sicuro rifugio dove sfamarsi e riposare al riparo di solide mura: la presenza del confinante bosco, ove eventualmente potevano agevolmente eclissarsi, rendeva questo luogo un covo perfetto.
Che in quel determinato periodo storico un ente ecclesiastico, anche se non ufficialmente, offrisse rifugio ad un gruppo di briganti non deve meravigliare più di tanto se sol si pensi che lo stesso Francesco II di Borbone, re delle due Sicilie, a cui i briganti avevano giurato eterna fedeltà, nel febbraio del 1861 si era rifugiato in esilio a Roma, protetto da papa Pio IX, ultimo sovrano dello Stato Pontificio.
Pochi anni dopo, l’Arcivescovo di Brindisi Raffaele Ferrigno fu addirittura messo sotto processo, con l’accusa di aver favorito i briganti ed aver preso parte attiva ad una cospirazione per restaurare il regno borbonico con la complicità di figure di primo piano del mondo cattolico locale, come l’arcidiacono ed archeologo Giovanni Tarantini; assurda fu la stessa accusa rivolta anche all’illustre matematico, sempre di area cattolica, Raffaele Rubini, il quale, anzi, era stato sempre fieramente antiborbonico ed a favore dell’unità d’Italia.

Ma il destino della masseria di Casignano, come anche di tanti altri beni ecclesiastici, ormai era segnato ed il neonato Regno d’Italia nel luglio del 1866 la confiscò e, pochi anni dopo, la vendette all’asta per far cassa e fra i vari proprietari che si sono succeduti fino ai nostri giorni c’è da evidenziare che per quasi mezzo secolo, fino al 1940, è appartenuta a Serafino Giannelli, podestà e, poi, benefattore della città di Brindisi, nel dopoguerra passò al barone Pispico di Lecce, il cui nome – villa Pispico – è ancora inciso sulle colonnine di accesso e, infine, alla famiglia Basile, le cui iniziali del capostipite sono ben visibili sul cancello di ingresso in ferro
E’ un vero peccato che questa masseria, così bella e pregna di storia, sia oggi oltre che abbandonata, anche praticamente sconosciuta agli stessi brindisini e rischia, come tante altre bellezze artistiche ed architettoniche del nostro territorio, di andare definitivamente in rovina.