Amerigo Verardi e il suo mondo parallelo: musica senza compromessi

di Marina Poci per il7 Magazine

Con “Un sogno di Maila”, un disco che lui stesso definisce “un viaggio in un mondo parallelo”, qualche giorno fa al MEI (Meeting delle Etichette Indipendenti) di Faenza ha vinto il Premio Italiano per la Musica Indipendente” (PIMI), che incorona il miglior album indipendente dell’anno e le personalità di spicco della scena musicale indipendente italiana. Vanta collaborazioni con Carmen Consoli, Manuel Agnelli, Federico Fiumani, Francesco Bianconi, Baustelle, Afterhours e persino Franco Battiato, avendo partecipato con i Lula, gruppo da lui fondato nel 1995, all’album tributo a Franco Battiato con il brano “Caffè de la paix”, apprezzato anche dallo stesso compianto maestro. È stato il direttore artistico di Appia in Tabula, uno dei festival culturali estivi di maggiore successo nella, tenutosi nel Parco Archeologico di Muro Tenente. Ne ha fatta di strada quel bambino che alle elementari scomodò tutte le sue lacrime per costringere la famiglia ad acquistargli il primo disco rock, eppure l’esordio di Amerigo Verardi, cantautore, musicista e produttore discografico brindisino cinquantaseienne, è semplice, cortese, carico di riconoscenza: “Grazie per l’attenzione. Non la do mai per scontata”, dice.
Da che ha memoria, la musica gli è compagna di vita. Non riesce a collocarla nel tempo, questa sua viscerale passione per il rock, sicuramente nata molto prima che cominciasse a suonare insieme a Antonello Montemurro e Maurizio De Domizio nella Brindisi dei primi anni Ottanta e che, affascinato dal fermento musicale e culturale di Bologna, vi si traferisse nel 1983 per iscriversi al DAMS. Per un singolare gioco del destino, il PIMI gli è stato consegnato dal produttore Oderso Rubini, attualmente consulente musicale dell’assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna, ma un tempo dei protagonisti di quella scena discografica bolognese nella quale il giovane Amerigo ambiva di muovere i suoi primi passi: “Il mio trasporto per la musica ha un che di cromosomico, forse deriva da un’altra vita. Non me lo posso spiegare altrimenti”.

Cosa significa essere un artista indipendente oggi, in questa particolare congiuntura storica che ha visto il settore artistico fortemente penalizzato dalle scelte politiche conseguenti alla pandemia?
“È la domanda sulla quale ho costruito la mia vita musicale e mi permetto di offrire una risposta che ritengo valida a prescindere dalla pandemia. Sino a circa quindici anni fa c’era un confine molto netto tra chi faceva musica in modo indipendente e chi lavorava con le grandi case discografiche. Poi la crisi economica ha modificato le prospettive dei grandi marchi, che hanno cominciato a patire le stesse problematiche dei marchi indipendenti, dovendo fare i conti con una notevole perdita di guadagni e con sempre meno fondi da investire in grandi progetti. Parallelamente, si è sviluppata una crescita esponenziale delle piccole etichette non soltanto dal punto di vista commerciale, ma proprio del valore del prodotto finale, perché sicuramente continuare a produrre malgrado giri d’affari non eccezionali ha dato maggiore spessore alla musica. In contemporanea, si è affermato da parte degli indipendenti un modo di operare che, per alcuni aspetti, si avvicina molto al lavoro delle grandi case discografiche. Ecco perché in questo momento storico il confine tra un modo e l’altro di fare musica è molto diluito. Oggi come oggi, personalmente interpreto la mia indipendenza più come una libertà della mente e del cuore, che non come indipendenza del contratto discografico in senso stretto. Credo che abbiano importanza l’istinto con cui fai musica, la genuinità con cui la produci, la purezza di quello che esprimi”.

Quali sono le rinunce e i privilegi di chi non lavora sotto l’egida delle major?
“Essere musicisti indipendenti non è come aderire ad un partito politico, non si sottoscrive una tessera che ti qualifica a vita. È una scelta che si deve rinnovare giorno per giorno, anche quando le cose non vanno come ti aspetteresti o come sentiresti di meritare. Se nasci indipendente e resti indipendente durante tutta la tua carriera artistica, sai che dovrai rinunciare a un bel po’ di cose, prima di tutto alla popolarità che deriva dall’essere sponsorizzato da una major, poi ai guadagni che ne conseguono. Io sono sempre stato un musicista apprezzatissimo dalla critica e stimato dai colleghi, ma sicuramente non faccio musica da grandi ascolti. D’altra parte, conservo una prerogativa che non tutti hanno: quella di poter esprimere la mia creatività senza nessun vincolo se non il mio gusto personale e il desiderio di offrire ai pochi che mi ascoltano un’alternativa alla mediocrità cui, mi dispiace dirlo, troppo spesso il mainstream tende. Non so se sia un vero e proprio privilegio, sicuramente è un’opportunità che mi sono ritagliato e che mi rende soddisfatto di questo lavoro, anche a distanza di così tanti anni da quando ho iniziato a farlo”.

Cinema, teatri e spettacoli dal vivo nell’ultimo anno e mezzo hanno subito più di ogni altra attività le politiche di lockdown: come artista, ha mai avuto la percezione di essere trattato da cittadino di serie b?
“Sono sempre stato un personaggio di serie b, anche all’interno del mondo dello spettacolo stesso. In più di trent’anni di carriera, credo di aver guadagnato meno della metà di un qualsiasi tecnico luci, o fonico, o organizzatore di concerti. La pandemia ha cambiato le prospettive di chi con gli spettacoli dal vivo porta il pane a casa, io ho sempre fatto anche altro, ogni tipo di lavoro, perciò il mio sentirmi di serie b viene da molto più lontano rispetto allo scoppio della pandemia. Questa indipendenza dal cachet mi ha permesso di fare una musica priva di compromessi, onesta verso il pubblico e rispettosa di me stesso”.

A proposito della mediocrità del mainstream a cui faceva riferimento poc’anzi, ritiene che un ruolo in questo abbassamento di qualità del gusto medio lo abbiano i reality show musicali?
“Credo che abbiano la colpa gravissima di creare intorno alla musica uno spettacolo che alla fine prende il sopravvento sulla musica stessa. La più diretta ripercussione di questo tipo di programmi sul mondo musicale è l’approccio sbagliato dei giovani, che partecipano ai reality pensando che fare musica sia apparire in televisione e diventare popolare in breve tempo, mentre fare musica è divertirsi suonando con gli amici, studiare per migliorarsi, scervellarsi per creare qualcosa di nuovo e originale. In questo senso, sì, i reality hanno abbassato fino alla mediocrità la qualità della musica, svilendo il lavoro degli artisti che rifiutano di adattarsi alla media”.

Che disco è “Un sogno di Maila”? Da quale sua urgenza personale nasce (o a quale bisogno risponde, magari) questo suo ultimo lavoro?
“È un disco che propone un percorso all’interno dell’essere umano attraverso le varie fasi vissute da Maila: la nascita (o, addirittura, la provenienza da una vita precedente), l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e la morte, intesa come trapasso verso una vita successiva o verso qualunque cosa possa esserci dopo. Non è un progetto pensato a tavolino, non pensavo che sarei arrivato lì: molto semplicemente ho alzato le mie antenne e ho cominciato a scrivere. Soltanto dopo circa tre mesi di lavoro ho cominciato a capire dove mi stava portando questo viaggio. Il mio bisogno è quello di stare nella musica e farmi strumento affinché la musica arrivi agli altri. In questo momento mi sento come qualcuno che capta delle onde e le trasmette a chi ascolta, quindi mi riesce difficile accostare questa attitudine ad un’urgenza. Rispetto a qualche anno fa, ho molta meno urgenza di esprimere qualcosa e molto più bisogno di conoscere, acquisire, condividere qualcosa. Mi sento in comunicazione con il mondo e non ho più l’urgenza dei vent’anni che mi portava a fare musica per far venire fuori me stesso. Ora so chi sono e mi piace condividere con gli altri quello che sono e che so”.

Qual è un provvedimento che il governo dovrebbe varare immediatamente a favore del mondo musicale e dello spettacolo in genere?
“Penso che sarebbe importante affidare la SIAE a chi realmente difende i diritti degli autori, anche quelli più piccoli e meno famosi, visto che adesso ci ritroviamo con un ente il cui unico scopo è sfilare soldi anche semplicemente se si fischietta una canzone per strada. Parlando più in generale, quello di cui sento la necessità, a livello musicale ma non solo, è l’eliminazione di tutti i passaggi burocratici che complicano la vita delle persone. Di queste complicazioni la SIAE, nel nostro mondo, è fortemente responsabile”.

Domani la chiama un produttore dagli uffici di Sony Music e le offre un contratto discografico da capogiro per “Un sogno di Maila”, a patto che lei elimini un brano perché ritenuto di difficile comprensione, o accorci una certa parte strumentale, o modifichi un testo: cosa risponde?
“Non sarebbe la prima volta, per cui risponderei come ho sempre fatto: ascolti meglio l’album e ci ripensi, probabilmente si renderà conto che è perfetto così”.
Perché?
“Perché la musica non ha bisogno di commercianti, ma di discografici illuminati che siano in grado di riconoscere tutta la bellezza che questo mondo è in grado di offrire”.