Chiamarlo Babylandia e definirlo il luogo del ricordo dei bambini di 50 anni fa è estremamente riduttivo e limitativo per definire e far comprendere alle generazioni moderne quello che è stato, cosa ha rappresentato e cosa può ancora essere quel terreno posto al di là del muro di via Materdomini. Anni di abbandono, tagli sconsiderati di alberi e, giusto per non farci mancare niente, incendi di origine misteriosa, hanno oramai ridotto quella che era una pineta ultrasecolare messa a dimora attorno ed in mezzo ad una gran quantità di costruzioni – ora ruderi – risalenti, anche essi, a più di cent’anni addietro, in una sorta di oggetto misterioso che pochi in realtà conoscono e di cui ancor meno comprendono l’importanza che non è solo storica, romantica ed affettiva ma, anche, naturalistica.
Per trovare traccia delle sue origini bisogna tornare indietro, alla fine del XIX secolo quando, in virtù del Regio Decreto 29 settembre 1895, n. 636, fu approvato il regolamento sulla sanità marittima che istituiva le stazioni sanitarie dell’Asinara e di Brindisi e, in virtù della successiva Convenzione Internazionale di Venezia, sottoscritto fra 18 Stati Sovrani il 19 marzo 1897 si stabiliva l’utilizzo della Stazione Sanitaria Marittima dell’Asinara – un’isola sarda sperduta su cui già insisteva una colonia penale – per la quarantena e la cura degli equipaggi e dei passeggeri delle navi infette da peste, colera o altre malattie mortifere e quella di Brindisi situata in località Bocca di Puglia e di lì a poco denominata Mater Domini, per tenere sotto osservazione e praticare le necessarie cure e profilassi a quelli delle navi apparentemente incolumi ma provenienti, comunque, da località infette.
Fu così che lì, a pochi passi dal mare, dove già una dozzina di anni prima era stato edificato il primo nucleo della Stazione Sanitaria Marittima, sorsero, una ventina di grossi casermoni e varie altre costruzioni destinati ad ambulatori, servizi igienici, cucine, mense e depositi a supporto del Sanitario, che non serviva solo la zona marittima di Brindisi ma, almeno fino allo scoppio del primo conflitto mondiale, tutto il Mar Adriatico, sponda opposta compresa.
Ed il suo trovarsi al centro del Mediterraneo, porta di ingresso dall’Oriente in Italia, ne fece fin da subito il luogo ideale anche per l’accoglienza umanitaria.
Nel 1912 la Città di Brindisi ricevette un encomio solenne per aver ospitato, proprio nei casermoni del Sanitario Marittimo, i circa 2.500 profughi italo-turchi che furono espulsi per rappresaglia dal governo ottomano, dopo che l’Italia, con aspirazioni coloniali, aveva invaso l’isola di Rodi.
La stessa storia si ripetette dieci anni dopo quando, a causa del conflitto armato fra greci ed ottomani, altre centinaia di profughi di origine italiana, fuggirono dalla Turchia per trovare un riparo sicuro nella madre patria.
Nel 1915 fu la volta di migliaia di soldati Serbi in fuga per evitare la furia dell’esercito Austro-Ungarico che, trasportati a bordo di decine di navi a Brindisi, trovarono ospitalità e le prime cure presso il complesso di Mater Domini.
A cavallo fra le due guerre, venute meno, anche per i progressi della Medicina, le esigenze di “zone di quarantena” e non essendovi, almeno in quel momento, necessità di ospitare profughi, il Sanitario di Mater Domini ben si prestò, per gli ampi spazi, l’aria pura della pineta ricca di iodio proveniente dal vicino mare e la spiaggia, allora sabbiosa, posta appena al di là della strada, ad essere adibito a colonia estiva per i bambini di Brindisi e provincia che, a turni di un centinaio per volta, trascorrevano due settimane di vacanza, ospiti della struttura.
Durante il secondo conflitto mondiale fu attrezzato come campo militare e nel 1949, quando l’Istria passò alla Jugoslavia, ospitò i profughi istriani di nazionalità italiana in fuga dalle persecuzioni del regime di Tito.
Risalgono ai primi anni Cinquanta le prime ed uniche opere di manutenzione effettuate dal Comune di Brindisi che adeguò i servizi igienici e le cucine, per rendere la struttura maggiormente idonea all’accoglienza ed asfaltò lo stradone che attraversa i caseggiati e che costituisce tuttora, anche per chi consulta Google Map, il prolungamento di via Materdomini; inoltre alla già quasi centenaria pineta ed ai bei esemplari di querce già ivi esistenti, furono aggiunti, come era in uso a quell’epoca, numerosi alberi di eucalipto per fungere da barriera frangivento ed un nuova piantumazione di pini nella radura che guarda verso il mare.
Nel 1956 Brindisi fu, ancora una volta, capitale dell’ospitalità e dell’accoglienza, quando a trovar rifugio nell’ex Stazione Sanitaria Marittima furono alcune centinaia di ebrei, di nazionalità italiana e non solo, in fuga dall’Egitto dopo che a causa della crisi di Suez, era scoppiato il conflitto arabo-israeliano che, ancor oggi, a 60 anni di distanza, insanguina il Medioriente.
La cronica mancanza di manutenzione, per assenza di risorse, in una cittadina del Mezzogiorno d’Italia, in cui l’economia stentava a riprendersi dopo la guerra, fecero si che tutte quelle costruzioni andassero via via in rovina e non fossero più utilizzate.
Con il boom economico degli anni Sessanta, complice la crescente agiatezza e la spensieratezza che lo sviluppo industriale stava portando in città, sulla litoranea nord, proprio quella ormai denominata Materdomini, a pochi metri dal luogo di cui stiamo discorrendo, sorsero i primi locali destinati al divertimento – anche pruriginoso – degli adulti: l’Estoril con le sue entreneuse ed i primi strip-tease di cui si abbia notizia in Puglia, la Sciaia a mare, la rinomatissima, quanto esclusiva, Spiaggia del Sole, ebbero il loro periodo di massimo splendore, attirando gente anche da fuori regione, questa volta non bisognosa di cure ed accoglienza, ma di divertimento!
Fu così che in una parte della pineta ricompresa all’interno del vecchio muro di cinta della Stazione Sanitaria Marittima, per felice intuizione di Pasquale De Pace, fu creato un parco dei divertimenti destinato ai bambini ed alle famiglie denominato, in ossequio all’americanizzazione che, complice la base Usaf, stava subendo Brindisi in quegli anni, “Babylandia”.
E qui iniziano i primi ricordi personali: il trenino con le varie fermate, la grande – per me che ero piccolo – giostra che girava in tondo, l’alto scivolo rosso a spirale che, a scendere, ci toglieva il fiato e le tante corse a perdifiato con i fratellini e gli amici nel fresco della pineta, fino a quando la voce imperiosa di papà ci ricordava, senza possibilità di proroga, che era ora di far ritorno a casa!
Da allora, quaranta anni di incuria, una prelazione non esercitata dal Comune con conseguente acquisto da parte di una società privata con sede nel tarantino, una mezza dozzina di incendi che, unitamente a dei tagli non autorizzati di alberi, hanno ridotto ai minimi termini la pineta secolare e, infine, un contenzioso dinanzi al TAR di Lecce intrapreso dal proprietario per poter utilizzare l’area a fini edificatori (il progetto prevede la realizzazione di interventi di ristrutturazione di un paio di edifici esistenti con destinazione finale residenziale, incompatibile con la destinazione urbanistica a verde pubblico che riveste la zona secondo il Piano Regolatore vigente).
Tutto ciò ha fatto si che Babylandia, anzi, la Stazione Sanitaria Marittima Mater Domini, si presenti oggi spettrale ed inquietante, come l’abbiamo vista nel corso della nostra passeggiata e come proveremo, con il consueto e prezioso ausilio della biologa Paola Pino d’Astore, a descriverla anche dal punto di vista dell’importanza naturalistica.
Innanzi tutto, appena si mette piede nell’ex Babylandia, chi, come noi, ha vissuto quella bella stagione di una Brindisi piena di gioia e di speranza, non può non notare l’assoluta mancanza di alberi e vegetazione lì dove il terreno degrada lentamente verso l’azzurro mare di Cala Materdomini, e dove fino a pochissimim anni addietro vi era una vasta e rigogliosa pineta; ora il suolo si presenta tutto spianato e tutto quanto potesse ricordare l’antico parco giochi per bambini è stato cancellato per sempre.
Fra i tanti caseggiati, ora diroccati, quelli che un tempo erano i vasti dormitori della Stazione Sanitaria Marittima, capaci di ospitare ognuno fino a 400 persone, privi di infissi ed in parte crollati, alcuni completamente avvolti da edera, resistono gruppi di alberi secolari, Pini e Querce, soprattutto, ma anche Eucalipti, mentre lungo il perimetro della proprietà, ben poche essenze arboree sono rimaste al loro posto.
Affacciandoci in uno dei caseggiati, particolarmente luminoso in quanto per la sua posizione riesce a captare la luce diretta del sole sia al mattino che al pomeriggio, viene da sorridere a vedere come la Natura non si da mai per vinta e, al suo interno, quasi fosse una serra, sono cresciuti rigogliosi degli alberi di fico, che fanno sembrare ancora più surreale l’atmosfera intorno.
Le grandi strutture adibite a servizi igienici si presentano depredate di ogni cosa; lo stesso dicasi per la costruzione che ospitava le cucine e su cui si erge ancora, imperiosa, la enorme canna fumaria in cemento, ben visibile anche dalla pubblica via.
Sbirciando all’interno di un’altra costruzione, proviamo, all’unisono, un tuffo al cuore nel vedere dei ceppi sradicati di Pino, del diametro di circa un metro (il che vuol dire che si trattava di alberi secolari) occultati all’interno, dopo che, evidentemente, i tronchi erano stati fatti a pezzi ed il prezioso carico di legna portato via.
Davvero spettacolari, nella loro maestosità, alcuni esemplari monumentali di Querce, alte ben oltre una dozzina di metri, che stando riparati in mezzo ai casermoni, sono riusciti a sopravvivere sfuggendo sia alla furia del fuoco che a quella, ancor più violenta, della mano dell’uomo.
Mentre io mi intrattenevo maggiormente ad osservare le costruzioni diroccate, per cercare di memorizzarne la posizione ed immaginare come potevano essere cento anni fa, quando la Stazione Sanitaria Marittima di Mater Domini era un vanto per la Nazione e cercavo di captare l’antica presenza di mio nonno Antonio che, da Ufficiale Medico della Regia Marina Militare, in quella struttura ci ha prestato servizio, Paola era completamente persa nell’osservare le essenze arboree originarie ancora presenti e quelle che spontaneamente, per semi trasportati dal vento o da animali, erano nate e si erano sviluppate rigogliose nelle zone più lontane dal passaggio della ruspe e dei trattori.
Qualche domanda è d’obbligo, alla dott.ssa Pino d’Astore, al termine di questo tour.
Paola, se dico Babylandia, quali ricordi riaffiorano alla tua mente ?
“Dalla fine degli anni Sessanta, ricordo di esserci stata più volte con la mia famiglia, quando avevo meno di 10 anni e che oltre ai giochi collocati poco dopo l’ingresso, presso il bar, mi avevano sempre impressionato gli alberi, alti e dalla grande chioma (così li vedevo, con gli occhi di bambina). Per me era un posto molto bello, pieno di verde, dove correre liberi in spazi aperti e dove nelle giornate di sole era piacevole l’ombra e l’aria fresca delle “grandi piante”.
Poi, in anni più recenti ricordo il dispiacere per gli incendi dolosi (in Italia non esiste l’autocombustione), ben sapendo che avrebbero danneggiato o distrutto le piante ad alto fusto. L’abilità dei Vigili del fuoco ha impedito più volte la distruzione di questa storica area verde, prossima al mare e indimenticabile sicuramente per i miei coetanei e tutta la gioventù di allora. Ma pochi anni fa, ricordo il dispiacere più profondo: il taglio di alberi secolari dalla chioma maestosa di Pinus pinea (Pino domestico, quello che produce pigne con pinoli, tanto buoni da mangiare), lungo il perimetro del muro di Babylandia che costeggia Via Materdomini, proprio di fronte all’ambulatorio veterinario della Sciaia a Mare. Che fastidio potevano dare quelle bellissime piante, cresciute lungo il perimetro e che per decenni hanno ospitato diverse specie di passeriformi, rapaci notturni come l’Assiolo ed il Gufo comune, Tortore dal collare orientale, che qui hanno trascorso la loro stagione riproduttiva, fino all’involo dei loro piccoli?
Oggi restano i ceppi, con le radici sradicate, nascosti all’interno di uno dei vecchi edifici. Ma una di queste piante è ancora lì: probabilmente non hanno fatto in tempo ad abbatterla ed è stata liberata da una grossa corda che cingeva il suo tronco”.
Hai notato qualcosa di particolare e degno di nota, durante la nostra scarpinata?
“Nonostante numerose tracce di passaggio di ruspe, alla vegetazione di chiara origine antropica come l’Alloro ed il Pitosforo, nonché la storica piantumazione di Pino domestico, Pino d’Aleppo ed Eucalipti, si associano piante di macchia mediterranea come il Lentisco, il Cisto rosso, il Cisto marino, la Fillirea, l’Oleastro. Accanto a queste, vi sono piante erbacee in fiore, tra cui l’Orchidea piramidale. Attraverso un cancello si accede ad un suggestivo viale alberato, corrispondente alla originaria via Mater Domini, che per tutta la sua lunghezza e su entrambi i lati, è impreziosito da n. 33 piante di Leccio, quercia sempreverde che tanto caratterizza il nostro paesaggio campestre. In un piazzale laterale sono disposti n.6 Lecci secolari che meritano l’attenta vigilanza dei Carabinieri-Forestale e dell’ufficio comunale competente per le autorizzazioni necessarie, in funzione della destinazione d’uso. E, a proposito di ciò, sarebbe bello e gratificante se gli eventuali progetti sussistenti su ciò che resta di Babylandia potessero conservare, almeno un pò, la memoria del luogo.
Tra i vecchi caseggiati, durante la nostra passeggiata, si solleva in volo uno stormo vociferante di Taccole, corvide di media dimensione, quasi nero, dal volo agile e brioso, da qualche anno regolarmente nidificante nella città di Brindisi e i cui giovani hanno intensi occhi celesti, come la luce magnifica della nostra terra”.