Bocche di Puglia / Alla diga, di giorno e di notte: tra murene, dentici e civette di mare

Uno dei posti storicamente più frequentati e, al tempo stesso, più suggestivi, anche per i brindisini del nuovo millennio è la vecchia diga, la cui denominazione esatta è diga di Bocca di Puglia, costruita nel 1869 e che, oltre a costituire una protezione per l’imbocco nel porto di Brindisi, ha unito la terraferma a Sant’Andrea che è l’isola dell’arcipelago delle Pedagne che ospita il Castello Alfonsino e Forte a Mare, oltre che la batteria militare “Carlo Pisacane”.
La sua costruzione, resa necessaria dall’importanza che Brindisi stava nuovamente assumendo dal punto di vista strategico e militare, oltre che mercantile, comportò la chiusura del vecchio passaggio – Bocca di Puglia, appunto – dei navigli più piccoli che navigavano sottocosta e provenivano da nord o erano diretti a nord e che, in tal modo, evitavano di circumnavigare l’isola.
Lunga quasi 500 metri e larga 30, all’epoca fu considerata un’opera titanica, per via delle migliaia di blocchi di calcestruzzo, pesanti ognuno diverse tonnellate, che furono gettati in mare alla rinfusa, su un fondale che nel punto più profondo superava i dieci metri e che consentirono, poi la costruzione della strada di collegamento e, sul lato interno, quello che dà sul porticciolo, denominato non a caso “Bocche di Puglia”, il banchinamento.
Luogo di passeggiate tonificanti o romantiche, a seconda dell’orario e luogo prediletto dai pescatori amatoriali, negli anni ‘90 del secolo scorso fu “allungata” di quattro chilometri con la costruzione della molto meno romantica e più imponente, Diga di Punta Riso, ma questa è un’altra storia.
Dopo questi doverosi cenni sulla parte della diga visibile e calpestabile da chiunque, voglio provare a descrivere quello che, a distanza di un secolo e mezzo dalla sua costruzione, si è venuto a creare sott’acqua, come è apparso nel corso di due immersioni consecutive, una in pieno giorno, l’altra subito dopo il tramonto, effettuate partendo dalla sua radice, posta dietro i ruderi del Picnic, la parte terminale sud di Cala Materdomini.
In occasione dell’escursione mattutina, nel mentre assembliamo l’attrezzatura e ci prepariamo per calarci in mare, assistiamo ad un via vai, abbastanza discreto, di gente a piedi in tenuta da “jogging” e pescatori con canne, ami, lenze e l’immancabile secchiello di plastica azzurra, stile “Moplen” di dimensione variabile a seconda dell’ottimismo del singolo soggetto.
Dal momento che il fondale è inizialmente roccioso e molto basso, dopo aver percorso una ventina di metri a piedi, attenti a non pestare i ricci, completiamo la vestizione in acqua e ci immergiamo in corrispondenza di un canalone, fra due irte pareti di scoglio naturale che porta rapidamente a 10 metri di profondità.
Ho voluto specificare scoglio naturale perché, mantenendo la parete rocciosa sulla nostra destra e cominciando a pinneggiare in direzione della diga, man mano che si avanza, diventa sempre più difficile poter distinguere i grossi massi di carparo da quelli, altrettanto grossi, in calcestruzzo, calati in mare nel 1869 ed ormai talmente incrostati di “coralligeno” che solo la loro squadratura le fa distinguere dai blocchi di carparo (estratti a suo tempo dal mare, deturpando la scogliera, con cariche di dinamite, per essere anch’essi utilizzati per arginare il mare ed è così servita la risposta al tormento del compianto Lucio Battisti che si chiedeva come può uno scoglio arginare il mare…).
Ho usato il termine coralligeno non per invocare l’esistenza di una sorta di barriera corallina, che è tutt’altra cosa e non ce la ritroviamo, certamente, sotto la diga, ma per descrivere con un termine tecnico l’insieme della biodiversità che si forma a contatto con substrati duri come possono essere rocce, blocchi, ma anche relitti di navi o formazioni biogeniche, cioè accumuli calcarei derivanti dalla stratificazione di forme di vita che a loro volta diventano substrato utile per altri esseri viventi.
Le prime a notarsi sono le alghe rosse, quelle più ricche di componente calcarea, poi, man mano che si scende in profondità, cominciano a prendere il sopravvento le spugne e le colonie di microscopici briozoi che assumono la forma, ma non la composizione e la consistenza dei veri e propri coralli, ed a cui è probabilmente dovuto il nome di coralligeno.
Di tanto in tanto qualche spirografo, un verme con le sembianze di fiore, la cui corona di tentacoli danza alla corrente come petali baciati dal vento e che si rifugia nel tubo calcareo al nostro passare.
È tutta un’esplosione di vita: molluschi, crostacei, ricci e stelle marine e, tutt’intorno, tanti, ma proprio tanti pesci di ogni colore e dimensione, fra cui migliaia di castagnole, donzelle, tordi pavone e giovani saraghi delle tre diverse specie presenti nel nostro mare. Sul fondo misto sabbioso, ai margini della gettata di blocchi, scorfani e triglie in grande abbondanza.
Ci dirigiamo spediti verso i grossi blocchi in calcestruzzo che partono, come un’enorme franata, dalla costa ad una distanza anche di cinquanta metri dalla terraferma, sul fondale sabbioso posto ad undici metri di profondità, e ci divertiamo ad esplorarli, infilandoci nei più ampi pertugi e percorrendo delle piccole gallerie che sono diventate rifugi per i pesciolini più piccoli e terreno di caccia per i loro predatori. Un giovane dentice a caccia di piccole castagnole, si allontana visibilmente scocciato e, probabilmente, ancora a digiuno, ma avrà tempo, modo e luogo per rifarsi.
Sulla via del ritorno, in un crepaccio, una giovane e solitaria corvina, si affaccia un attimo per spiarci, prima di rintanarsi nuovamente.
Una volta venuti fuori dal mare ci diciamo subito che è il caso di tornare sul posto di notte in quanto, con tutti quegli anfratti e quei nascondigli, sembrano sussistere tutti i presupposti per una fantastica immersione notturna quando gli animali protagonisti della scena cambiano decisamente.
Mezz’ora prima del tramonto, siamo sul posto con la gradita presenza anche della nostra “quota rosa”, Alberta che, con la temperatura del mare costantemente al di sopra dei 25°, ha ripreso, insieme al coraggio, anche dimestichezza con maschera e pinne e sarà dei nostri per la sua prima immersione di questo disgraziato 2020.
Il via vai sulla diga è più intenso che nelle ore mattutine ed assistiamo ad una sorta di cambio turno, via i pescatori ed arrivano le coppiette a piedi, mano nella mano, o in macchina fin sopra la diga, caso mai due passi dovessero far male.
Oltre alla consueta attrezzatura, siamo tutti dotati di torce subacquee, perché nel buio della notte, che sott’acqua è ancora più nero, riusciremo a vedere solo ciò che sarà illuminato dai nostri fasci di luce. Approfittiamo degli ultimi bagliori del crepuscolo per entrare in acqua e dirigerci nel punto da dove iniziare la vera e propria immersione. Fra torce, illuminatori, flash e luci di segnalazione colorate e ad intermittenza, daremo agli abitanti del mare l’impressione di un lunapark itinerante.
Appena messa la testa sotto il pelo dell’acqua la stessa parete rocciosa vista di mattina con predominante colorazione verde ed azzurra appare con predominanti tonalità rosse e gialle in quanto con la luce artificiale che illumina nel buio, viene meno l’effetto distorsivo del mare sui raggi solari e che man mano che si scende di profondità affievolisce fino ad annullare la maggior parte dei colori, specialmente quelli più vivaci.
Ed ecco che lo scorfano sonnecchiante che poche ore prima sembrava essere di un marroncino smorto, appare di un esplosivo color rosso fiamma che dà l’impressione di brillare di luce propria e così le strisce gialle e rosse che attraversano longitudinalmente i fianchi delle triglie da scoglio fanno apparire questi simpatici pesci baffuti ancora più luccicanti, i giovani saraghi, ancora svegli, si allontanano dalla luce, mentre i tordi pavone, ormai in pieno sonno, restano immobili, accecati dalle nostre luci.
Non tarda molto a comparire la prima murena ben sveglia, essendo un predatore con abitudini notturne, in procinto da uscire dalla tana ma che, vedendoci, resta ancora affacciata alla finestra, digrignando i denti aguzzi e poco lontano noto una sua possibile preda, un minuscolo polpo di pochi centimetri, ancora tanto trasparente, da confondersi quasi con la sabbia. E’ solo il primo di una lunga serie di polpi, di ogni dimensione, incontrati nell’oretta passata in fondo al mare: si tratta, infatti, di animali notturni che prediligono frequentare i fondali poco profondi e ricchi di anfratti come sono quelli sotto la vecchia diga; trattandosi di esseri che vivono poco più di un anno, la loro crescita è molto veloce per cui l’esemplare di pochi centimetri che abbiamo appena incontrato, se non dovesse essere predato da nessuno, alla fine del prossimo autunno sarà già adulto e pronto per la riproduzione. Proprio perché si riproducono una sola volta nell’arco della vita è sbagliato pescare in estate quelli di piccole dimensioni: per ottenere un chilo di pescato di “purpitieddi” si ammazzano un centinaio di giovanissimi polpi per soddisfare la gola di un paio di persone: quegli stessi cento polpi fra sei mesi, peseranno non meno di un quintale e sfamarebbero un esercito.
Ho preferito fare un ragionamento più etico che animalista – come è per la cosiddetta “schiuma di mare”, ovverossia i giovanissimi pesciolini ancora trasparenti, da molti considerati una prelibatezza, ma che, per queste stesse ragioni è vietatissimo, pescare, vendere, acquistare e consumare – proprio per non alimentare alcun genere di polemica, ma solo per evidenziare come in un mondo dove l’uomo si pone non come custode, ma come padrone e despota del creato, si spreca inutilmente, per gola, avidità ed egoismo, la maggior parte delle risorse che il buon Dio ha messo a disposizione, che sono tante, ma non infinite.
Dopo essere giunti ai grossi blocchi di calcestruzzo ed averli ispezionati per bene, essendo trascorsa già quasi un’ora dal nostro ingresso in acqua, cominciamo a far ritorno. Per evitare di fare esattamente gli stessi incontri dell’andata, mi tengo leggermente più esterno, sulla parte sabbiosa, con la scogliera alla mia sinistra: ancora polpi, triglie, qualche sogliola quasi invisibile sulla sabbia, quando all’improvviso credo di aver fatto un incontro unico ma che, in realtà, unico non sarà.
Puntando, a casaccio, la torcia verso il largo, intravedo uno strano pesce “alato” che plana sul fondo e poi, per nulla intimorito dal mio illuminatore si avvicina fino a farsi riconoscere: si tratta di un pesce civetta (Dactylopterus volitans), si tratta di uno strano pesce, con la testa grossa e la bocca molto grande il cui corpo, dotato di corazza ossea e compresso sul dorso, ha la forma di un grezzo parallelepipedo, con due pinne dorsali, di cui una retta da raggi spinosi come aculei, pinne ventrali appuntite, e coda allungata, ma la caratteristica che rende particolare questa creatura sono le grandi pinne pettorali, dotate di lunghi e robusti raggi, che completamente allargate formano un grande ellisse, che permette al pesce di planare sui fondali; la colorazione blu elettrica con sfumature di mille colori, rende ancora più spettacolare questo pesce.
Essendo gli altri sub distanziati di qualche metro, disegno grossi cerchi di luce con la torcia per attrarre la loro attenzione, ma prima ancora di loro, attratti da quello stesso segnale, giungono, alla spicciolata, una dozzina di altre civette di mare, alcune camminando sul fondo, altre planando proprio davanti a me, senza mostrare alcun timore, ma solamente tanta, reciproca, curiosità.
Del gruppo di amici che era con me, solo due, entrambi fotografi, di cui uno di fama internazionale, dotati di apparecchiature talmente sofisticate che la mia macchinetta compatta scafandrata sarebbe andata nel loro vano batterie, non si avvedono di nulla, troppo intenti a fotografare niente meno che una seppia che aveva catalizzato la loro attenzione.
In un quarto di secolo di immersioni non mi era mai capitato di incontrare un pesce civetta e me ne sono capitate a tiro una dozzina in pochi minuti proprio sotto la diga: è proprio vero che il mare e la natura riservano sempre grandi sorprese a chi si approccia loro con rispetto ed amore.
Terminata l’immersione e riposte le attrezzature, la serata termina davanti ad uno dei tanti i paninari che animano, di estate, la costa brindisina, dove possiamo, ridendo e scherzando, commentare quanto abbiamo appena visto.
Per la parte più divertente della storia dobbiamo aspettare il mattino dopo, quando scopriamo che qualcuno, con molta enfasi ed una punta di allarme, aveva pubblicato un paio di foto ed un video fatti la sera prima dalla diga in cui si vedevano delle strane luci bianche e verdi che si muovevano sotto il pelo dell’acqua. Sfogliando i commenti ed il crescendo della discussione mediatica, scopriamo che era già stata emanata la sentenza inappellabile del Tribunale di Facebook: si trattava certamente di pescatori di frodo di polpi che contravvenendo alla legge andava a pesca di notte, con le bombole, facendone una strage: dei maledetti bracconieri a cui si augurava ogni genere di male! E non uno, in questa gogna mediatica, che prendesse le nostre difese per ipotizzare che poteva anche trattarsi di innocui appassionati di subacquea che con i dispositivi luminosi previsti dalla legge, effettuava un’immersione ricreativa: pescatori si, ma pescatori di immagini!.