di Michele Bombacigno per il7 Magazine
Annunciata dal tempestivo tam tam dei social e delle testate online, la notizia della morte di Mario Brugnerotto, antica e gloriosissima bandiera del calcio brindisino, si è subito diffusa nella città, rattristando tutti i tifosi e, in particolare, noi un po’ più… grandicelli che abbiamo avuto la fortuna di vivere quella epopea delle maglie con la V sul petto e di vedere all’opera sul terreno del Comunale grandi calciatori e, soprattutto, grandi uomini come Mario.
Avevo solo sei o sette anni quando cominciai a seguire il Brindisi e mi colpì subito quel roccioso difensore biondo di origine veneta che assomigliava un po’ a mio zio Vito, con il quale andavo la domenica allo stadio.
Dalla mia visuale di bimbetto, Mario, che già di suo era aitante, mi sembrava un vero e proprio gigante, baluardo quasi insuperabile, che aveva il grande merito di depotenziare le mie ansie allorché gli attaccanti avversari si avvicinavano alla nostra area di rigore.
Dopo tre anni di lontananza, trascorsi a Barletta, Mario, non più giovanissimo, tornò a vestire i colori biancazzurri, appena in tempo per dare il suo importante contributo alla fantastica stagione che, dopo un acceso duello con il Lecce, culminò con la promozione in serie B, dando il via a un ciclo fantastico, se pur assai breve.
Non voglio soffermarmi a sottolineare il valore del calciatore Mario Brugnerotto e la sua importanza nella storia del calcio della città. I numeri sono eloquenti: dieci stagioni, duecentosettantasette presenze, persino nove gol, non pochi se si considera che ai difensori di quell’epoca era praticamente interdetto il superamento della propria metà campo.
Mi piace, invece, ricordare qui la persona, amabile, che ho avuto la fortuna di conoscere.
Poco tempo dopo che Mario aveva smesso di giocare, e io ero appena diventato maggiorenne, ci ritrovammo vicini di casa. E così lo incrociavo spesso per strada e lo guardavo con la stessa ammirazione e con la stessa emozione con cui lo avevo visto a suo tempo giganteggiare alla guida della nostra retroguardia.
Ero felice e orgoglioso che avesse deciso di stabilirsi definitivamente a Brindisi, a un tiro di schioppo dalla mia abitazione, per giunta!
Avrei voluto dirgli qualcosa, presentarmi, salutarlo, diventarne persino amico, ma, timido com’ero, mi limitavo a osservarlo nel suo incedere sempre tranquillo ed elegante, senza osare avvicinarmi e parlargli.
Nel suo sguardo – oggi sono certo che si accorgesse di come indugiassi a fissarlo e che intuisse che ero stato un suo tifoso – e nel portamento che aveva qualcosa di nobile coglievo una fierezza dolce che mi faceva pensare che fosse anche una bella persona.
Molti anni dopo – avevo ormai superato la cinquantina, ma per certi aspetti solo anagraficamente – il mio grande amico Alessandro Caiulo volle farmi un magnifico regalo, invitandomi a prendere un caffè in un bar di Santa Chiara, dove ci sarebbe stato anche Mario, che Alessandro doveva intervistare.
E così ebbi finalmente modo, non senza un bel po’ di tremante gioia, di conoscerlo e di parlargli!
Fu una piacevolissima chiacchierata. Mario, che nonostante fosse ormai un brindisino a tutti gli effetti non aveva perduto l’inflessione veneta, ricordò i vecchi tempi con orgoglio e al tempo stesso con umiltà e mi confermò di essere la carismatica e bella persona che fino ad allora avevo solo immaginato.
Da quella sera in poi, quando lo incontravo nelle strade del quartiere, non facevo mai in tempo a salutarlo per primo perché lui, forte nell’anticipo come quando in campo stroncava le trame avversarie, mi precedeva sempre, regalandomi anche un sorriso e qualche parola gentile.
Così lo ricorderò sempre: grintoso, irriducibile, ma leale, in campo; semplice e cortese fuori dal campo.
E mi piace ora immaginarlo in compagnia del Grande Blek, a rievocare quei begli anni e a riservare parole grate e dolci a una città che li ha accolti e amati profondamente come propri figli e che li porterà sempre nel cuore.