Capire per ripartire, Domenico Casale: «Ri-scoprire la solidarietà dimenticata»

Si conclude il viaggio, che ci ha consentito di incontrare testimoni che ci hanno aiutato a capire quel che ci sta accadendo, per ripartire. Coincidenza non ricercata vuole, che il viaggio faccia meta a casa del Preside, prof. Domenico Casale, al momento della apertura della fase 2, la riapertura. Uomo mite e di una sensibilità e compostezza d’animo, temprata alla lunga esperienza di educatore e di guida della più popolosa scuola media della provincia, quella titolata ed accorpata, durante la sua presidenza con nome “Giulio Cesare-Caduti di Marzabotto. Durante la sua dirigenza, la scuola “licenziava” circa 1000 studenti all’anno e nella sua capacità, l’offerta di un piano formativo in cui il corpo docente, gli studenti e le famiglie, formavano una comunità al cui centro era e restava la salute intellettiva, emotiva e corporea di ogni singolo studente.
Una laurea in lettere con una tesi in sociologia dal titolo accattivante “Il movimento giovanile e i suoi critici: age group o conflitto di classe?” resta nel suo più profondo ed intenso lavorio che lo porterà a coniugare la ricerca alla didattica attraverso la pedagogia.
A Lui Mons. Settimio Todisco, affida la direzione di un impoertante strumento di formazione e di dialogo per la comunità diocesana brindisina: La Scuola di Formazione sociale e Politica che elabora un tentativo di “think thank” dalle aspirazioni interessanti.
Con il preside Casale il dialogo è intenso e vertiginoso, ma da maestro riconduce l’essenziale alla sua forma più efficace, invita il suo interlocutore a farsi protagonista di domande a cui non offre risposte, ma ne sollecita gli aspetti e le tensioni più necessarie.
Come un buon maestro fa maturare nell’interlocutore il bisogno di formulare le domande giuste, lasciando le risposte alla libera formazione della volontà.
In un gioco elegante, mai formale, sempre acuto, si intravvede il suo metodo: “colmare le deficienza e promuovere le eccellenze”, una suggestione pedagogica che forse potrà tornare utile.
Mimmo, la prima fase, quella che ci ha visti fermi e diligenti nelle nostre abitazioni è appena terminata, ma siamo invitati alla responsabilità, vivremo giorni lunghi e difficili e le nostre comnità vivranno non sempre facili momenti: la fragilità entra a far parte “ordinarie” di questo tempo diretto dal coronavirus.
“Parlare oggi di fragilità è di una semplicità sconcertante e per le infinite vittime e per le conseguenze disastrose, a livello planetario, che questo morbo va generando e di cui pagheremo per decenni le conseguenze. Certo, nulla e nessuno ci restituirà le vittime, talora afferenti alla generazione di chi ha molto dato e poco ricevuto ed anche spesso ai moderni eroi di corsia sacrificatisi sul campo per salvare degli innocenti. Ciò doverosamente premesso e onorato, vorrei volgere lo sguardo alle fragilità “ordinarie”, lo generalizzato ed ampio disagio psicologico e sociale che questa pandemia sta seminando, speriamo non a livello irreversibile, e nei singoli e nel più ampio e complesso spettro sociale e provare, in conclusione, a formulare qualche prospettiva, pur consapevole che significa tentare di quadrare il cerchio”.
La veloce analisi fatta di interrogativi si sofferma sulla fragilità dell’uomo comune, come singolo e come comunità. A quella fragilità i cui esiti si faranno sentire, volenti o nolenti, in conseguenza della “quarantena” (io sto a casa) e dei distanziamenti sociali.
“Mi chiedo: Chi ripagherà il bambino dei giochi persi, utili per il suo processo di maturazione, se è vero che il gioco per il bambino è il corrispettivo del lavoro per gli adulti? Chi ricompenserà un adolescente nel suo processo di socializzazione interrotto? Chi ridarà allo studente quell’apprendere “insieme” metodi, discipline e regole del vivere sociale? Chi potrà ristabilire equilibrio nel curricolo di uno studente universitario? Quali conseguenze avrà la “quarantena” nella vita di questi soggetti? E nella stessa metodica ora vigente dei processi di acculturazione umana e sociale? E che dire delle varie e molteplici situazioni di disabilità, già in difficoltà, nell’ordinaria quotidianità?
Allargando poi lo sguardo al mondo degli adulti in fase lavorativa e/o in quiescenza: Chi mai rasserenerà i parenti dei malati, scomparsi e rapiti alla loro vista, dal tormento e dalle turbe da “abbandono”? Quali certezze resteranno, dopo questo tsunami, sulle probabilità di poter gestire con le proprie forze la vita propria e quella della propria famiglia, se basta un infinitesimale virus a vanificare ogni umano progetto? E quanto l’anomala quotidianità di una famiglia composita potrà reggere agli stress emotivi imposti da una convivenza forzata in quattro muri per lungo tempo? E che dire degli anziani, che aldilà dell’oggettiva fragilità fisica, non a caso preda ambita dalla “bestia”, sono stati deprivati dei residui rapporti umani e sociali: non ultimo il connubio con i consimili nipoti, il mondo dell’esperienza e quello dell’innocenza? E più in generale che ne sarà dei lettori compulsivi con la chiusura delle librerie e biblioteche, dei melomani, dei frequentatori assidui di concerti, spettacoli vari e delle masse di sportivi, se dei sociologi giungono ad affermare che l’odierno sport è il sostituto della guerra, per la canalizzazione degli istinti di violenza?
Insomma, “Almeno di testa si può uscire”? (da facebook), può non essere una semplice battuta! Si può sospendere la vita senza conseguenze sulla psiche e sulla socialità: una vita senza la quotidianità, le periodiche manifestazioni di massa le festività, le ricorrenze private e pubbliche (onomastici, compleanni, esami, domeniche, Pasqua e i suoi riti, il 25 aprile, il 1° maggio …), momenti di crescita umana e sociale, di aggregazione, momenti identificativi di una comunità? Quanto si può vivere in “apnea”? Chi ci compenserà mai dei tempi sottratti?”.
Alcuni dei tanti interrogativi dell’ordinaria composizione sociale preda di questo tempo “sospeso” che richiederanno a psicologi, psichiatri e sociologi e soprattutto ai pubblici servizi risposte ed appropriati interventi.
“Sin qui la frettolosa analisi, che è meramente di ‘pura’ riflessione. Scevra ovviamente dal volere individuare responsabilità, in quanto atti dovuti per limitare il diffondersi della pandemia. Oggettivo, incompleto ma esemplificativo tentativo di definire le varie situazioni critiche generate da questa inedita situazione”.
E le prospettive?
“Scrive T. S. Eliot: “Non smetteremo di esplorare/ E alla fine di tutto il nostro andare/Ritorneremo al punto di partenza/ Per conoscerlo per la prima volta”. (Quatto Quartetti).
Proprio così.
Secondo la più classica eterogenesi dei fini, c’è una realtà che questo invisibile virus ci ha fatto, nel macro-microcosmo della nostra esistenza, ri-scoprire: la SOLIDARIETÀ, che negli anni di un individualismo imperante e crescente avevamo un po’ dimenticato. A me pare una basica precondizione per una più avvertita acquisizione di quel senso di IDENTITÀ, che emerge in maniera prepotente in quei momenti critici del vivere sociale. E che porta a quel fenomeno che, in altra occasione, è stato impropriamente definito “MIRACOLO” (economico). Impropriamente, in quanto non frutto de “la forza del destino”, come è stato scritto, ma, come ampiamente documentato, opera di leaders illuminati e di umili servitori dello stato ordinariamente integerrimi e competenti. Oggi sarà compito di tutte le istituzioni e delle molteplici agenzie educative non disperdere questo nuovo slancio vitale, anzi, sfruttando questa infausta situazione, farlo radicare nell’opinione pubblica, non completamente estranea a questo sentire, a star (e alle generalizzate confortanti esperienze di questi giorni”.
Ti riferisci ad un esempio particolare?
“Come ci ha ricordato Papa Francesco in quell’epica esperienza del 27 marzo scorso, solo nella fredda Piazza S. Pietro, nella disamina delle “distrazioni” dei singoli e della società nei confronti della persona, della civiltà e dell’ambiente. Con il conseguente bisogno/impegno a ritrovare il senso di marcia recuperando persi valori, civili e religiosi. Profonda riflessione. Il Pontefice, novello sofferente Profeta, parlava del presente ma soprattutto in prospettiva futura. E siccome stiamo nel periodo pasquale mi pare interessante ritornare, a modello e progetto, alla vita dei primi cristiani, a quel legame, la KOINONIA, che mons. Ravasi traduce in ‘essere comuni’, anche sulla tradizione, pur apografa, degli “Atti di Tommaso”: “VIENI E FÀ COMUNITÀ, fa’ comunione con noi”. E commenta: “Anche se i modelli dovranno essere necessariamente mutevoli, tenendo conto dei contesti sociali diversi in cui sono inserite le comunità, bisogna che i cristiani (non solo loro, ndr) non perdano questa carica utopica e non si riducano a gretti amministratori, a biechi gestori di strutture”.
Oltre la disperazione, verso il sogno, oltre il sogno per ricostruire realtà?
“Impossibile, No. Difficile, difficilissimo. Però, già Plotino annotava: “Se uno non spera, non potrà mai trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio”. Già impervio! È “la Spes contra spem” di S. Paolo. E, per giungere ad un testimone contemporaneo: “SPERANZA significa che qualcuno ci ama, significa mettersi in cammino verso un altrove, significa anche cercare di vivere in altro modo”. (Enzo Bianchi). Convinti, come ci hanno insegnato gli antichi che “Spes ultima dea est et omnium rerum pretiosissima, quia sine spe homines vivere nequeunt!” (la Speranza è l’ultima dea e la più preziosa di tutte le cose, perchè senza Speranza gli uomini non possono vivere). E i noti fratelli Bennato, durante il “tempo sospeso” compongono un testo dove affermano proprio di voler cantare la speranza proprio in quanto, la vita non può essere questa: “è la vita che non si può fermare”.