Collezione Faldetta: dalle tombe razziate a Museo

di Alessandro Caiulo per il7 Magazine

Capita spesso, nel corso delle mie lunghe passeggiate nelle campagne intorno a Brindisi ed ai comuni limitrofi, di imbattermi in vecchie masserie ed antiche chiesette in rovina che, seppure saccheggiate e vandalizzate mantengono, comunque, un certo fascino e, a volte, condivido con i lettori queste esperienze, cercando anche attraverso le immagini, che spesso esprimono più delle parole, di sollecitarne la conoscenza che, a mio avviso, è sempre il primo passo obbligato per giungere alla tutela ed alla conservazione del nostro patrimonio storico e culturale, specie quando è posizionato al di fuori delle mura della città.
A volte capita anche di imbattermi in veri e propri siti archeologici, ai più sconosciuti proprio in quanto non valorizzati o non sufficientemente valorizzati che, in alcuni casi oltre ad essere in stato di abbandono, sono tuttora visitati da “cercatori di tesori” o, per meglio dire tombaroli.
Anche se questo termine, il cui significato letterale è saccheggiatore o profanatore di tombe, potrebbe sembrare un qualcosa di anacronistico ai giorni nostri, dal momento che è stato un fenomeno assai in auge fino a mezzo secolo fa, c’è ancora chi dalle nostre parti, per sbarcare il lunario, va alla ricerca di antiche tombe messapiche o greche da depredare.
Raramente queste persone sono guidate da un reale interesse per ciò che è antico, in quanto chi ricerca e scava abusivamente tombe antiche, protette dalla legge, per asportare da esse oggetti preziosi o comunque d’interesse archeologico lo fa per arricchirsi vendendolo, spesso attraverso vari passaggi fra intermediari in cui ognuno ritaglia una sua fetta di guadagno, ad amatori e collezionisti spesso anche stranieri e, a volte, addirittura a musei esteri, soprattutto del nord Europa e degli Stati Uniti, dove la legislazione è più permissiva: ovviamente tutti quanti questi personaggi agiscono al di fuori e contro la legge italiana che prevede espressamente che le ricerche e gli scavi archeologici sono di competenza esclusiva dello Stato e che allo Stato appartiene tutto ciò che viene rinvenuto, per cui chi se ne impossessa commette reato.
Ed ecco che, passando dalle parti di Valesio, importante centro messapico e, poi, romano, poco a nord di Torchiarolo, oppure dai resti delle antiche Terme romane di Malvindi, fra Mesagne e San Pancrazio, e, più ancora, nei pressi di Muro Maurizio, fra Mesagne e San Donaci – dove migliaia di piccoli cocci di terracotta disseminati in decine di ettari attorno alla omonima masseria testimoniano la presenza, colpevolmente ignorata dalle autorità preposte, di un sito archeologico di importanza eccezionale – ma anche lì dove erano posizionate le vecchie stazioni di posta lungo il tracciato di quella che fu la via Appia Antica, all’emozione della vista di antiche vestigia, fa eco il senso di sconforto e di impotenza di fronte all’abbandono di questi luoghi che, se adeguatamente valorizzati, costituirebbero una ricchezza non solo culturale, ma anche economica per il nostro territorio.
In controtendenza, ma solo negli ultimi anni, il Parco archeologico dei Messapi di Muro Tenente, fra Latiano e Mesagne, oramai recintato, custodito e, alla bisogna, come è successo la scorsa estate, vigilato per alcune notti dai volontari che, per tutelare una antica tomba risalente al V secolo avanti Cristo, intatta, posizionata fra due depredate anni prima proprio dai tombaroli, hanno sorvegliato la zona per tenere lontani i malintenzionati al punto che qualcuno, dimostrandosi fin troppo ottimista, ebbe a dichiarare che il tempo dei tombaroli era finito per sempre.
Invece non è così come è dimostrato da alcuni fatti di cronaca attuale, come il recentissimo recupero da parte dei carabinieri della sezione Archeologia del reparto operativo del Comando per la tutela del patrimonio culturale, nel corso di una indagine della Procura della Repubblica di Taranto, di ben duemila reperti trafugati dalla Puglia e finiti nelle mani di trafficanti tedeschi, belgi, olandesi e svizzeri, per essere venduti a ricchi collezionisti privi di scrupoli. L’indagine ha individuato 13 persone, tra tombaroli, ricercatori dei reperti e trasportatori, denunciate con le accuse di associazione per delinquere, ricettazione, scavo clandestino e impossessamento illecito di reperti archeologici.
Ed è specialmente l’esistenza di collezionisti privati disposti a spendere fior di quattrini pur di entrare in possesso di antiche ceramiche a figure rosse o miniaturistiche o votive, corredi funerari, gioielli ed utensili in bronzo, a rendere sempre attuale e florido il traffico di reperti archeologici.
Per rimanere vicini a casa nostra, anche la famosa Collezione Archeologica Faldetta, da qualche anno a questa parte in mostra presso la Palazzina Belvedere, ai piedi delle colonne romane, è stato il frutto di questo amore in un certo senso morboso per i manufatti antichi che ha spinto, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, Salvatore Faldetta, più volte consigliere ed assessore comunale di Brindisi, a raccogliere e collezionare reperti anche di grande valore provenienti, però, da scavi clandestini.
Fortunatamente questa preziosa collezione, ricca di 363 pezzi pregiati, non è rimasta in mani private né è stata smembrata ma, con il benestare della Sovrintendenza ed il consenso dello stesso Faldetta – che costituì, all’uopo, una fondazione – fu messa a disposizione della collettività ed è ora un fiore all’occhiello della città, di cui andare fieri.
Abbiamo sentito al riguardo Anna Cinti, presidente dell’Associazione “Le Colonne” che sin dalla sua costituzione è fortemente impegnata nella promozione e valorizzazione del patrimonio artistico-culturale nell’ambito della provincia di Brindisi e che da otto anni a questa parte gestisce la Collezione Faldetta.
Nell’immaginario collettivo, complice probabilmente alcuni film cult americani – ad esempio la saga di Indiana Jones, Tomb Raider (letteralmente razziatore di tombe), che è anche un popolarissimo videogioco, e altri ancora – in cui i protagonisti per recuperare un antico cimelio ne distruggono cento o mille – c’è una certa visione romantica dei tombaroli che per decenni hanno imperversato in lungo e largo anche nel nostro territorio, saccheggiando necropoli, siti archeologici, cripte, chiese e tutto quanto poteva assicurargli un facile guadagno nel mercato nero del collezionismo.
Dal momento che pochi come te conoscono il danno che questo fenomeno ha arrecato ed arreca tuttora al nostro patrimonio storico ed archeologico, qual è il tuo pensiero al riguardo?
“La decontestualizzazione dei reperti è quanto di peggio possa capitare alla nostra storia, alla nostra identità. Fortunatamente sono sempre maggiori le azioni di controllo dei carabinieri del nucleo per la tutela del patrimonio culturale. E’ necessario far comprendere che gli oggetti una volta sequestrati sono al sicuro in Soprintendenza, ma ormai, strappati al loro contesto, hanno perso qualsiasi valore informativo ai fini di una ricostruzione archeologica. Inoltre, laddove sono stati presi, la loro estrazione dalla stratificazione archeologica ha ormai compromesso la lettura archeologica del sito, e quindi l’interpretazione globale”.
Altro puntum dolens e, direi, l’altro lato della stessa medaglia, è quello dei collezionisti di antichità che, dal momento che i beni archeologici sono patrimonio indisponibile dello Stato, altro non fanno che alimentare questo commercio illegale e porsi essi stessi fuori dalla legge. Anche in questo caso si tende a considerare queste persone alla stregua di benefattori, come se, in qualche modo, avessero salvaguardato e messo al sicuro i preziosi manufatti antichi per le generazioni a venire. Vuoi spiegarci qual è l’iter che porta le collezioni private, una volta che le stesse sono scoperte dalla Sovrintendenza, ad essere veicolate verso la fruizione pubblica?
“In base all’art. 14 del Codice dei Beni Culturali le Soprintendenze avviano il procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale di cui all’art. 13 dello stesso Codice dei Beni Culturali. La proposta è sottoposta al Segretariato Regionale che, dopo le procedure di rito, emana il relativo Decreto di dichiarazione dell’interesse culturale del bene di proprietà privata di cui all’art. 10 del predetto Codice, sottoponendo così il bene privato ai “vincoli” di tutela dettati dalla normativa. Questi vincoli servono ad evitare, ad esempio, che vengano esportati all’estero o che siano sottratti alla pubblica fruizione”.
La Collezione Archeologica Faldetta, ospitata da qualche hanno nella Palazzina Belvedere, sul lungomare di Brindisi, che attraverso la gestione da parte dell’Associazione “Le Colonne – Arte Antica e Contemporanea” da te presieduta viene valorizzata al massimo, è uno dei classici esempi di come una collezione privata, formatasi attraverso gli scavi illegali dei tombaroli, ha finito per essere in qualche modo restituita alla collettività ed essere un richiamo per appassionati, turisti e scolaresche. Ce ne vuoi parlare diffusamente?
“La Collezione Archeologica Faldetta è un esempio di collezione privata, sottoposta a tutela ai sensi della ex legge 1 giugno 1939, che in questi anni ha ospitato tantissimi turisti e scolaresche. Il fatto che sia una collezione privata è stato un nostro “punto di forza”. In questi anni la Associazione Le Colonne ha lavorato molto con le scuole per sensibilizzare le nuove generazioni sull’argomento. Abbiamo avviato progetti e percorsi per spiegare cosa fare e a chi rivolgersi dinanzi ad un reperto archeologico, come avviene uno scavo di ricerca e il ruolo fondamentale dell’archeologo. Bisogna anche sottolineare che un museo archeologico contiene spesso opere dal valore collezionistio decotestualizzate, solo a partire dal 1970, i reperti esposti provengono da scavi regolari. La Associazione Le Colonne è subentrata nella gestione della Collezione Archeolgica Faldetta, per volontà della famiglia Faldetta, dopo Fondazione Faldetta. Dal 2012 la Associazione Le Colonne lavora in sinergia con il Comune di Brindisi e la Soprintendenza”.
Sappiamo che l’Associazione Le Colonne non si occupa solo della Collezione Archeologica Faldetta, che è forse quella a cui, personalmente sei più affezionata, ma gestisce anche altri beni monumentali. Ce li vuoi elencare, spiegando, in breve, in cosa consiste la vostra attività?
“La Associazione Le Colonne si occupa principalmente della gestione e valorizzazione del patrimonio culturale, come il Castello di Carovigno, il Castello Alfonsino di Brindisi e la Collezione Archeologica Faldetta, e proprio quest’ultimo sito, resta uno dei nostri luoghi più cari. Oltre al quotidiano svolgimento delle attività di promozione e valorizzazione, la Associazione si propone come “agenzia educativa”, come mediatore tra i luoghi di cultura, gli Istituti Scolastici e la comunità di riferimento. È promotrice di numerose iniziative ed eventi culturali finalizzati a rendere i beni culturali uno spazio di integrazione e aggregazione per la collettività. Ha ideato e sviluppato per l’Amministrazione Comunale di Brindisi un progetto denominato PAST – Patrimonio Archeologico Storico Turistico Brindisi con lo scopo di valorizzare e intensificare la fruizione dei beni culturali della città di Brindisi. Ha ottenuto il marchio di attenzione e qualità promosso da Regione Puglia Loves Family e il marchio nazionale Kidpass per aver promosso una gestione degli spazi museale “family friendly”. Nel 2019 la Associazione è stata invitata al TourismA, il Salone internazionale dell’archeologia e del turismo culturale, a Firenze, nell’ambito degli ‘Stati Generali della gestione del Patrimonio Culturale dal basso’ come eccellenza del territorio. La Collezione Archeologica Faldetta rappresenta, comunque, il nostro punto di partenza. In questi anni la Associazione è cresciuta molto e sono orgogliosa dello staff creato. E’ un gruppo composto principalmente da giovani professionisti della città di Brindisi che lavorano quotidianamente per il territorio. Ringrazio tutte le persone che credono in noi, dalle Istituzioni ai cittadini, alle scuole che ci accompagnano in questo interessante percorso lavorativo”.