Domenico da Brindisi, il “pope” vissuto nel 1200

di Gianfranco Perri

Brindisino destinato alla fama, citato nei testi di storia e commentato in varie occasioni nella bibliografia storica cittadina, Domenico fu un arciprete – il pope Theorido protopapa dei greci bizantini di Brindisi ‘archipresbiterum graecorum de Brundusio’ – vissuto a cavallo tra i secoli XII e XIII, al quale è anche intitolata una via del centro storico cittadino. Molti storici e cronisti ne fanno ammirata menzione “come uomo versatissimo nelle scienze e discipline ecclesiastiche, profondo grecista e fine diplomatico, di nobilissimo ingegno e di specchiata virtù, con doti singolari della sua mente e del suo cuore che lo facevano tenere in molta stima presso i migliori e più cospicui personaggi del suo tempo…”
Eppure, le notizie intorno alla vita di Domenico non vanno oltre quelle poche affermazioni generiche circa la sua cultura, la sua saggezza e la sua religiosità, senza che nessuna di esse si appoggi su una qualche fonte documentale certa, di carattere storico o biografico. Per contro, la sua figura e la sua azione risaltano in maniera centrale, se pur solo puntuale, dentro quel complicato capitolo della storia medievale che, dopo il Grande scisma d’Oriente del 1054, vide consumarsi un persistente scontro ideologico – e non sempre solo ideologico – tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa orientale. Un importante capitolo di storia per il quale anche Brindisi costituì uno scenario per niente trascurabile, in virtù della sua storica collocazione di ‘limes’ – e non solo geografico – tra Occidente e Oriente.
Il ricordo di questa singolare figura di prete brindisino, pertanto, nonostante la quasi totale deficienza relativa ai trascorsi della sua vita, ben merita di essere ravvivato a mo’ di occasione propizia per riproporre il racconto di quella pagina di storia cittadina che lo vide operare, una pagina certamente importante ed i cui strascichi, a più di ottocento anni di distanza, sono ancora rintracciabili nei risvolti religiosi e sociali della società brindisina.

In Terra d’Otranto, e pertanto di fatto in parte anche a Brindisi, dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, dalla storia formalmente datata 476 dC, il dominio bizantino si protrasse per più di 500 anni, in maniera più o meno accidentata e comunque quasi ininterrottamente, fino all’arrivo dei Normanni. Ed in quei secoli, l’arrivo di monaci orientali di rito greco che finirono con lo stabilire stretti contatti con le popolazioni locali, determinò il diffondersi in praticamente tutto il Salento di una vasta cultura di carattere umanesimo-greco-cristiano.
Un primo afflusso massiccio di nuclei monastici orientali si produsse durante il VII secolo quando, a causa dell’imperversare in Oriente dell’invasione musulmana, profughi dalla Siria e dall’Egitto raggiunsero le province meridionali italiane. Il loro arrivo finì con rafforzare notevolmente l’elemento culturale bizantino già presente in quei territori dove anche la realtà religiosa fu profondamente influenzata dalle loro pratiche orientali. Altri religiosi orientali giunsero sulle coste del basso Adriatico provenienti dalle regioni balcaniche spinti dalle persecuzioni che si produssero contro tutti i sostenitori dell’ortodossia dopo l’emanazione del Tipo, nel 648. Altri ancora giunsero quando nel 726 Bisanzio sancì l’inizio della persecuzione iconoclasta. Lo scisma di Fozio dell’867 poi, trasse con sé nuovi religiosi regolari e secolari di rito orientale al Salento, mentre la riconquista bizantina, con la conseguente fondazione – nell’892 – del Thema di Longobardia, stabilì le premesse per un nuovo accentuato afflusso in Puglia di religiosi orientali di rito greco.
«La ristabilita egemonia di Bisanzio sul Salento determina il tentativo di comprendere le diocesi salentine nel patriarcato di Costantinopoli. Il rito greco, comunque, si affiancò più che sostituirsi a quello latino, anche perché in quel periodo risulta vi siano stati vescovi latini eletti dal popolo e dal clero, poi confermati dal patriarca di Bisanzio. Roma, a salvaguardia dei propri diritti, attribuisce il titolo della sede di Brindisi ai vescovi di Canosa. Si hanno così vescovi residenti la cui elezione è confermata da Bisanzio e vescovi nominali cui il titolo è conferito a Roma dal papa… Così, vescovo latino di Brindisi fu Giovanni, arcivescovo di Canosa e Brindisi dal 952 al 978, succeduto da Paone fino al 993. Entrambi risiedono in Bari e si sottoscrivono archiepiscopus Sancte Sedis Canusine et Brundusine Ecclesie…» [“Gli arcivescovi di Brindisi dal VII al X secolo” di G. Carito, 2008] Contemporaneamente, vescovo in Oria riconosciuto da Bisanzio era Andrea, succeduto da Gregorio, Giovanni, Leonardo, Eustachio, Gregorio, tutti titolati vescovi di Oria, Brindisi, Ostuni e Monopoli.
Con l’unica eccezione della chiesa di Otranto il cui vescovo aveva la dignità di metropolita conferitagli dal patriarca di Costantinopoli che egli riconosceva pienamente, molte delle altre importanti chiese salentine tentavano di tener fronte all’ingerenza dei funzionari bizantini e di sottrarsi alla diretta autorità del patriarca di Costantinopoli, costantemente appoggiati in tale atteggiamento dal metropolita di Canosa, al quale da Costantinopoli era stato opposto l’arcivescovo Pau. A vescovo di Brindisi, il metropolita latino Giovanni di Canosa riconobbe Gregorio, mentre per Costantinopoli la chiesa brindisina continuava a dipendere da Oria.
Dopo il Grande scisma d’Oriente del 1054 i religiosi orientali del Salento restarono di rito e di concezione teologica ortodossa, pur nel riconoscimento della supremazia apostolica romana conseguente al consolidarsi della conquista normanna – Brindisi fu definitivamente occupata da Roberto il Guiscardo il 1070 – quando il clero orientale dovette fare a meno dell’appoggio che gli veniva da Bisanzio, mentre i religiosi latini si avvantaggiarono della nuova situazione politica. Così, mentre tutte le chiese ritornarono alle dipendenze della Chiesa latina, i vescovi greci andarono perdendo anche il dominio del litorale tra Brindisi e Bari, Oria inclusa. E nel 1098, inoltre, scomparve anche la primazia di Oria su Brindisi e l’arcivescovo Godino fu dal papa di Roma obbligato a ricondurre la sua residenza nella sede storica di Brindisi.

La cultura bizantina non andò tuttavia dispersa e continuò ad evolversi, pur nel nuovo ambiente non del tutto favorevole, grazie alla sua congenialità alle popolazioni salentine che di essa si erano nutrite per cinque secoli. La religiosità orientale nel Salento, infatti, nonostante l’avvento e l’affermazione del monachesimo occidentale, lasciò tuttavia molto a lungo un profondo e prezioso retaggio culturale che accompagnò gli stessi monaci Benedettini nel loro nuovo importante ruolo, sia in campo religioso e sia in quello economico-sociale. In alcune aree di Terra d’Otranto è infatti documentata, fin dalla fine del secolo XI, la coesistenza di monaci greci e latini. Una coesistenza tanto intima che non sempre è semplice né facile dissociare o distinguere pienamente le due culture religiose che caratterizzarono non solo il superstrato linguistico con i dialetti locali e la religiosità, ma anche la cultura più in generale, fino ai moduli pittorici e architettonici, e a molto altro.

Nella stessa Brindisi, anche se l’influsso della cultura bizantina nel Salento si andava facendo meno notevole via via che dall’estremo Sud si saliva verso Nord, la presenza e l’influenza – e il retaggio – della religiosità monacale e più in generale orientale, così come i legami con il rito greco, rimasero per lunghissimo tempo ben radicati, sia formalmente e sia informalmente, nelle consuetudini religiose e nella cultura popolare. E, come del resto è ben documentato, per un certo tempo in città i due riti, quello greco e quello latino, convissero l’uno accanto all’altro e mentre si andavano sviluppando le relative influenze sulla cultura e sul costume locali – in dialetto brindisino il prete è ‘lu papa’: papa Caliazzu, papa Pascalinu, papa Pizzicallu, eccetera – la popolazione godeva di libertà religiosa, come attestato dalla persistenza in città di più chiese di rito greco.
La chiesa di San Pelino, eretta nel VII secolo per volontà di Ciprio successore sulla cattedra episcopale di Brindisi del dedicatario, entrambi monaci basiliani giunti a Brindisi provenienti dall’Oriente, era situata vicino alla Cattedrale, alle spalle del palazzo Granafei. La basilica di San Leucio, monaco egiziano evangelizzatore e primo vescovo di Brindisi agli inizi del V secolo, che intorno all’880 fu voluta dal vescovo di Oria Teodosio per riporvi la parte del corpo del santo ritornata da Benevento. La chiesa di San Giacomo, sino al 1173, di solo rito greco, era ubicata in prossimità dello scalo marittimo, sull’angolo interno che dà sui Giardinetti.
Ebbene, fu nel contesto storico religioso sociale descritto che visse a Brindisi il protopapa dei greci, Domenico. In un ambiente religioso e spirituale quindi, che sullo scadere del secolo decimosecondo – 1199 – era delineato con ben chiari caratteri: rito orientale in declino, mentre si andava affermando la prevalenza della Chiesa romana; clero regolare ancora legato per molti tramiti alla fonte spirituale di Bisanzio ed alla sua tradizione, mentre il clero secolare, a causa di una maggiore duttilità provocata dai più frequenti rapporti con le popolazioni, in progressivo adeguamento alla nuova situazione. Il tutto conseguente alla politica normanna che era stata fondamentalmente antibizantina, e nonostante il temporale modesto rinvigorimento della tradizione filobizantina che si era iniziato a sperimentare con l’avvento svevo sul regno di Sicilia, cui Brindisi apparteneva.
L’8 gennaio 1198 era salito al trono pontificio Innocenzo III con l’aspirazione di promuovere, oltre alla già prevista crociata contro l’Islam, la conversione degli scismatici di Bisanzio e la ricostruzione dell’universalità della Chiesa romana. Il papa, infatti, abbracciò subito l’iniziativa di proporre al basileus di Costantinopoli Alessio III il rientro in seno alla Chiesa cattolica e, mentre Alessio tergiversava, la congiuntura politica determinatasi in Bulgaria gli offerse una opportunità favorevole a quella sua aspirazione.

Nel 1186 una insurrezione di bulgari e di valacchi, guidata dai fratelli Pietro e Giovanni Asen, aveva liquidato, con l’aiuto delle popola zioni turche, le resistentze bizantine e Pietro aveva preso le insegne imperiali nella nuova capitale, Trnovo, ed aveva anche fondato una Chiesa nazionale indipendente. Alessio III, che aveva tentato invano di ridurre i bulgaro-valacchi con le armi e con le trattative, era finalmente riuscito che nel corso del 1196 i due fratelli, Pietro prima e Giovanni poi, fossero assassinati e così, sul trono di Trnovo era salito il terzo fratello Asen Giovanni, detto Kalojan, Giovanni il buono. Questi però, a sua volta, cominciò a guardare verso Roma nella ricerca di elementi che valessero a rafforzare spiritualmente ma anche materialmente la sua corona, gravata dalla pesante ipoteca bizantina. Un riconoscimento da parte della Sede Apostolica avrebbe significato la definitiva rottura del legame di dipendenza dal patriarcato di Bisanzio ed avrebbe potuto costituire un titolo di legittimità al buon diritto della stessa corona bulgaro-valacca.
E fu a quel punto che Innocenzo III si predispose a compiere una mossa d’apertura nei confronti di Kalojan, giacché stabilire buoni rapporti con quel principe gli apparve interessante, visto che sulla via di Bisanzio, nonché di Terra Santa, dopo il già avvenuto rafforzamento dei rapporti col regno ungherese, non rimaneva che il principato bulgaro o quello serbo a costituire un eventuale ostacolo. Prese quindi, iniziando il 1199, l’iniziativa di inviare presso il capo bulgaro il presbitero Domenico, protopapa dei greci di Brindisi, munito d’una missiva e con il delicato e difficile compito di saggiare il terreno e di studiare in loco quella che da Roma appariva essere una potenzialmente favorevole congiuntura politica internazionale. Più in particolare, Domenico avrebbe dovuto accertare gli intendimenti e le disposizioni del principe bulgaro, nonché valutarne le pretese e quindi, anche la solidità della sua posizione personale e la consistenza del suo potere, nonché lo stato d’animo delle popolazioni nei confronti del loro capo. E perché inviare proprio Domenico da Brindisi?
«Forse perché Domenico proveniva proprio da quell’ambiente brindisino che offriva ad Innocenzo III buone garanzie nella scelta: ambiente greco, ma tradizionalmente vicino e sviluppatosi nel più largo cerchio del clero latino, e che si giovava di un notevole grado ecclesiastico e proveniva dal clero secolare e non già da quello regolare, più attaccato alla tradizione e più sensibile alle sollecitazioni ideali provenienti da Bisanzio. Non v’era pericolo che, nella lontana Bulgaria, Domenico fosse attratto dal fascino dell’antica Bisanzio. Tra i motivi che indussero il papa alla scelta potrebbe, se ve ne fosse bisogno, anche congetturarsi una conoscenza da patte di Domenico della lingua bulgara. Infatti, in una città come Brindisi, aperta ad intensi traffici con l’Oriente, poteva ben trovarsi un membro del clero greco capace di intendere quella lingua. E la conferma che Domenico abbia avuto dei rapporti con personalità bulgare, o slave, o greche in contatto con la capitale del principato bulgaro, è nel fatto che Kalogiovanni riuscì a trovare un mallevatore capace di attestare l’identità di Domenico e garantirne la buona fede». [“Domenico a Brindisi, Apocrisario di Innocenza III” di E. Pennetta in ASP – 1955]

Domenico, in qualità di legato pontificio, partì da Brindisi i primi di gennaio di quel 1199 munito della missiva apostolica indirizzata a Johannitio domino Blacorum et Bulgarorum in una missione dichiarata esplicitamente di carattere esplorativo ed informativo, avendo lo stesso il papa già stabilito che avrebbe predisposto altri diplomatici per una eventuale ulteriore fase di trattative. Giunto a Trnovo, Domenico fu accolto freddamente da un principe inquieto e molto diffidente, e fu da questi posto sotto rigida sorveglianza, senza che pertanto potesse minimamente adempiere alla missione affidatagli. Una situazione che perdurò immutata fin quando il principe ebbe modo di trovare un testimone di sua completa fiducia che poté garantirgli e dimostrargli l’effettiva buona fede di Domenico, il quale finalmente poté svolgere la missione.
Secondo la datazione indicata nel Codice Diplomatico Brindisino di Annibale De Leo, il viaggio di andata e la permanenza di Domenico alla corte di Trnovo fino al momento della partenza, si sarebbero espletati nel corso di un anno, mentre secondo un’altra fonte, e forse più verosimilmente, l’intera azione del presbitero brindisino avrebbe compreso un arco di tempo di ben quattro anni. Comunque sia, Domenico iniziò finalmente il suo viaggio di ritorno – accompagnato da Blasius, presbitero di Branicievo – munito di due lettere dirette al papa, una dello stesso capo dei bulgari Kalojan e l’altra di Basilio, arcivescovo dei bulgari e pastore di Zagora.
Kalogiovanni nella sua lettera, scrisse di essere lieto di aver ricevuto la missiva papale che gli aveva ricordato la sua antica discendenza romana, ed aggiunse che tanto i suoi due fratelli quanto egli stesso avevano avuto in animo già da tempo di allacciare relazioni con la Sede apostolica e pertanto ringraziava il papa per quel suo primo passo, offrendogli amicizia ‘et servitium sicut Patri spirituali et summo Pontifici’. Incoraggiato quindi dalla missiva recatagli da Domenico, procedette a chiarire le aspirazioni cui tendeva: essere confermato come figlio nel seno della Santa romana Chiesa ed ottenere dal Santo Padre, con l’onore dovuto, la corona imperiale di Bulgaria. Come contropartita alle richieste avanzate, non avrebbe esitato ad offrire, ove quelle fossero state accolte, la fedele obbedienza del suo impero, sicché ‘tutto quello che crederete comandare al nostro impero sarà, per onore di Dio e della Chiesa romana, condotto a termine’. Terminò la lettera pregando il papa di affrettare l’invio dei nunzi promessi per la conclusione delle trattative e di inviarli in compagnia di Domenico, a prova e garanzia dell’ufficialità della prima e della nuova missione.

Quella seconda missione in effetti ci fu e fu condotta dall’abate Giovanni di Casamari, cappellano papale, senza che però sia possibile rintracciare testimonianze che il papa abbia aderito al desiderio del principe bulgaro d’inviare di nuovo presso la sua corte, l’archi-presbitero dei greci di Brindisi Domenico. E ci fu anche una terza ed ultima missione papale che, presieduta dal cardinale Leone di Santa Croce, si concluse con l’unzione e l’incoronazione di Giovanni a ‘kral’ di Bulgaria, e non già a ‘zar’ come lui avrebbe in definitiva desiderato.
La missione di Domenico, nel suo carattere esplorativo e limitato ad una, per altro non facile, presa di contatto con l’ambiente bulgaro, ebbe pertanto un esito evidentemente del tutto favorevole, giacché Domenico pose solide basi per quello che fu il poi rivelatosi effimero accordo tra la Chiesa romana e il principato bulgaro. Accordo che, infatti, fu presto travolto dagli eventi e dai mutamenti d’indirizzo politico del ‘kral’ Giovanni.
Il nome di Domenico da Brindisi ritornò così nell’ombra della storia dalla quale il mandato di Innocenzo III lo aveva per uno solo specifico, se pur importante, episodio tratto. I pochi e mal delineati contorni che caratterizzano di fatto la evanescente figura del pur noto presbitero dei greci di Brindisi valgono in ogni modo a lumeggiare la statura intellettuale e morale di Domenico, quale esponente di quella cultura greco-salentina che per alcuni secoli dette la sua non sottovalutabile né cancellabile impronta alle tendenze spirituali delle genti che popolano l’estremo lembo orientale della penisola italica, tra cui, evidentemente, anche quelle della sua Brindisi. Impronta le cui tracce hanno perdurato attraverso secoli, fino ai nostri giorni.
Agli inizi del ‘300, erano così numerosi i brindisini di lingua greca, che fu richiesta al re Carlo II d’Angiò la designazione per la città di un notaio perito in lingua greca ed in quell’occasione la nomina ricadde su Giovanni Frisci, figlio del protopapa greco Stefano. Nel ‘400 nuove immigrazioni dall’Oriente, favorite dalla politica degli Aragonesi, rinfoltirono la comunità greco-albanese-schiavona di Brindisi, che assunse notevole importanza sociale, tanto che nel 1485 il re Federico d’Aragona nel riorganizzare il governo della città dispose che dell’Amministrazione facessero parte due membri appartenenti alle comunità greca albanese o schiavona.
Nel 1536 l’imperatore Carlo V, re di Spagna, inviò a Brindisi una colonia di Greci Coronei e per decenni fu loro sacerdote Antonio Pyrgho, che nella propria cattedrale celebrò con il rito greco vari battesimi di bambini, coronei e non. Una liturgia greca, che si mantenne formalmente in uso nella città fino al 1680, nonostante il Concilio di Trento del 1545 avesse ufficialmente sostituito il rito greco con quello cattolico, officiato in latino.
Nel 1793, per ripopolare la città la cui popolazione si era ridotta a solamente 5000 anime a causa della critica situazione sanitaria conseguente all’impaludamento del porto interno, «…fu chiamata una intera colonia greca dall’isole Jonie, cui furono assegnati per i primi soccorsi dodicimila ducati e molti territori incolti di pertinenza delle comunità religiose, oltre a tantissime altre agevolazioni e privilegi specialmente concessi. E per vieppiù incoraggiarla fu istallata una commissione particolare che era preseduta dall’arcivescovo Giambattista Rivellini e il governatore della nazione Nicola Vivenzio, presso la quale fossero le risoluzioni sugli affari di quella. Furono parimenti assegnate due chiese per l’esercizio del culto religioso, una dentro la città detta di San Antonio Abate, e l’altra fuori della chiesa di Mater Domini, ossia San Lionardo poi da loro intitolata a San Giorgio, officiate da due sacerdoti dello stesso rito, pensionati dalla corte.» [Cronaca dei Sindaci di Brindisi, 1787-1860]

Tuttora, la Domenica delle Palme nella cattedrale di Brindisi si leggono in greco l’Epistola e il Vangelo. Una tradizione questa, che continua quella della celebrazione liturgica che seguiva la processione delle Palme che si snodava dal Capitolo fino all’Osanna, una piramide tronca su cui si saliva dai gradini disposti su tutti i suoi quattro lati e sulla cui sommità vi era una colonna di marmo innalzata a sostegno di una gran croce, dove per secoli l’arcivescovo e il clero, proponendo vangelo ed epistola in greco, ricordarono gli stretti legami fra la chiesa locale e il mondo orientale. La tradizione si protrasse nonostante i vari tentativi di sopprimere ogni traccia del rito greco e fu solo negli anni ’30 del secolo scorso, quando il complesso dell’Osanna fu demolito, che la tradizione fu ricollocata nello spazio della cattedrale. La colonna in marmo pario con croce scolpita che sormontava l’Osanna da allora si conserva in Santa Maria del Casale e fu datata tra IX e X secolo, facendo supporre che l’Osanna fosse stata edificata in periodo altomedievale e che fosse quindi contemporanea della vicina basilica di San Leucio.
Brindisi, infine, continua ad annoverare tra i suoi cittadini una solida e ben rappresentata comunità di religione greca che conserva il suo riferimento religioso nella bella chiesa di San Nicola costruita nel 1891.