Estate 1973, l’emergenza sanitaria per fronteggiare il colera

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo in questi giorni richiama alla memoria gli eventi vissuti durante le settimane di fine estate del 1973, quando vi fu una violenta epidemia di colera causata dal consumo di una partita di cozze crude e di altri frutti di mare importati dalla Tunisia contaminati dal vibrione. Chi ha vissuto quell’esperienza ricorda ancora bene le preoccupazioni generate in tutta la popolazione meridionale dal parassita definito “virgola” per la sua tipica forma visibile al microscopio, una malattia infettiva ad altissima contagiosità, evocatrice di paure ancestrali poiché ha generato più volte, nei secoli passati, un altissimo numero di infettati e migliaia di morti per la sua aggressività e rapidità di diffusione.
In quel fine di agosto si verificarono numerosi casi di infezioni di colera a Napoli e a Bari, il primo si manifestò a Torre del Greco, un popoloso centro abitato alle pendici del Vesuvio, dove una donna era stata ricoverata con i sintomi della malattia causati del batterio gram-negativo “Vibrio cholerae”, ovvero con forti mal di pancia, diarrea profusa, vomito e crampi alle gambe. Il 31 agosto i giornali pugliesi diffusero la notizia di alcuni casi sospetti di gastroenterite nel barese e nel foggiano, i sanitari temevano il contagio del morbo preoccupati anche da gli esiti positivi delle prime analisi, ma era necessario attendere la conferma delle controanalisi da eseguire con un siero proveniente da Roma. Ed in effetti il giorno dopo arrivò la conferma: era proprio colera, provocato dal ceppo El Tor serotipo Ogawa (dal nome dello studioso che lo classificò). Il morbo era lo stesso che aveva già causato il decesso di nove persone a Napoli tra i duecentoventi ricoverati all’ospedale “D. Cotugno” (in dieci giorni diventarono ben 911), mentre nel Policlinico di Bari quell’1 settembre si registrarono quaranta ricoveri in isolamento nella divisione infettivi, di cui nove accertati come infezioni coleriche. Alla fine dell’emergenza, durata 47 giorni (dal 27 agosto al 12 ottobre), si contarono complessivamente ventiquattro decessi, quindici sui 119 casi verificati a Napoli e dieci sui 110 contagiati a Bari, tutti prevalentemente adulti con una preponderanza di uomini.
L’intera economia pugliese, se non quella dell’intero meridione, fu messa a dura prova: in tutta la regione vennero proibiti inizialmente e per almeno un mese la vendita di frutti di mare, di verdura cruda nei mercati ed il suo consumo nei ristoranti, negli ospedali e nelle comunità, anche i gelati preparati e venduti artigianalmente vennero vietati, banditi dalle tavole anche i fichi, attaccabili da altri possibili vettori di infezione come le mosche. Crollò la vendita ed il consumo di pesci, rei di frequentare le stesse acque dei mitili. Non erano consentiti i bagni in mare sia negli stabilimenti che sulle spiagge libere, con controlli più accurati soprattutto nelle zone con acque contaminate e vicini agli scarichi fognari, venne altresì proibita l’irrigazione nei campi con i liquami, una pratica all’epoca molto diffusa. Gli altri provvedimenti riguardarono la chiusura di cinema, la sospensione delle partite di calcio, degli esami di riparazione nelle scuole e gli “appelli” universitari, contestualmente furono avviati massicci interventi per disinfettare e ripulire le città.
Accuse di disfunzioni, trascuratezze e intempestività emersero in quei tristi giorni, polemiche che viaggiavano esclusivamente sulla carta stampata, nei notiziari della radio e della televisione, in particolare sugli unici canali tv che trasmettevano in quegli anni, Rai Uno e Rai Due. Tutto veniva testimoniato nelle foto e nei servizi televisivi dei reporter provenienti da tutto il mondo: a finire sul banco degli imputati furono principalmente le precarie condizioni igieniche e sanitarie di tanti paesi del Sud, a partire dai sistemi fognari che talvolta non erano dotati di impianti di depurazione.
Anche a Brindisi, dove alla fine dell’emergenza si contarono solamente due casi di contagio e nessun morto, si vissero momenti di angoscia. Ci fu apprensione e sconcerto quando venne confermata la notizia dell’ordinanza che vietava lo svolgimento di pubblici eventi civili e religiosi al fine di evitare pericolosi assembramenti che potessero favorire il contagio. Infatti quell’infausto anno la tanto attesa e sempre riuscita “Festa dell’Uva” non si svolse: era quasi tutto pronto ma si preferì, giustamente, dapprima rimandare e poi annullare l’iniziativa che di solito richiamava un gran numero di persone. L’amata manifestazione da allora non è stata più riproposta.
Nonostante l’abolizione delle bancarelle dalle piazze e dai mercati, la vendita ed il consumo dei mitili continuò in alcuni casi in clandestinità, anche se non mancarono i sequestri e sanzioni ai trasgressori. Notevoli danni subì a questo proposito il settore dell’allevamento di cozze nere che si praticava da secoli sui pali nel bacino portuale di fronte al Castello Alfonsino. Fu questa, secondo l’opinione di molti, “l’inizio della fine” della mitilicoltura brindisina.
Furono avviati anche nella nostra città gli interventi utili a debellare la malattia con l’adozione su larga scala della prevenzione vaccinale effettuata presso alcuni presidi sanitari, nell’ufficio igiene del Comune e nelle sale della stazione marittima, ovunque ci furono lunghe file di persone, composte ed ordinate, in attesa di ricevere il vaccino da iniettare sul braccio destro con siringhe in vetro preventivamente sterilizzate. L’afflusso era regolato dalla presenza di guardie e di infermieri, è giusto anche ricordare l’abnegazione dei medici e di tutto il personale impegnato nell’emergenza. A Napoli intanto, dopo l’iniziale la carenza di disinfettanti, antibiotici e sulfamidici che generò non poche proteste e mobilitazioni, un milione di dosi di vaccini vennero offerte e somministrate alla popolazione partenopea dai militari americani della Sesta flotta della Us Navy con l’impiego di siringhe mediche a pistola utilizzate per le vaccinazioni di massa dei loro soldati impegnati nella guerra del Vietnam. Fu la più grande operazione di profilassi mai esercitata in Europa dalla fine della guerra.
Le principali misure da mettere in pratica per fermare la diffusione del batterio erano: lavare bene le mani, cuocere sempre la verdura e consumare solo cibi cotti, pastorizzare il latte e bere esclusivamente l’acqua imbottigliata, evitando il consumo (all’epoca molto diffuso) di acqua dal rubinetto, che in ogni caso doveva essere sempre bollita. In quelle settimane venne incrementato l’uso del succo di limone, che si diceva attenuasse gli effetti del vibrione, di conseguenza i prezzi di questi agrumi salì alle stelle. Un altro provvedimento cautelativo adottato dalle autorità nazionali fu quello di rinviare l’apertura delle scuole di ogni ordine e grado dal primo ottobre, come di solito avveniva, al cinque di novembre.
Il precedente episodio epidemico avvenuto a Brindisi risaliva al 1911, il fenomeno nell’occasione non assume vaste proporzioni, ma per ovvi motivi sanitari la festa patronale venne inizialmente rinviata ai primi giorni di novembre e poi rimandata all’anno successivo. Già nel 1909 la settima pandemia “vi penetrò da Brindisi ma in maniera poco rilevante” ricorda il prof. M. Soscia, mentre l’anno successivo si manifestò con grande intensità a Napoli ed in Puglia. Una devastante diffusione colerica si ebbe già nel 1836-37: l’infezione durò un anno circa causando nella sola capitale del regno oltre diciottomila decessi, tra loro anche il poeta Giacomo Leopardi. Le severe norme igieniche dettate all’epoca prevedevano di gettare le salme in fosse comuni dentro cui veniva versata la calce viva.
L’epidemia del 1973 generò comunque alcune ricadute positive, come in genere accade dopo il verificarsi di importanti calamità: vennero distrutti i vivai abusivi di mitili, si potenziarono i controlli su quelli autorizzati e su gli scarichi della rete fognaria, nuove misure di profilassi furono adottati così come lo stile di vita si adeguò alle più moderne attitudini in materia di igiene e pulizia.