Ferdinando II di Borbone e lo iettatore di Brindisi

Il re Ferdinando II di Borbone, da vero napoletano, era noto per la sua esagerata credenza nella superstizione, tanto da attribuire alla iettatura la causa principale della malattia che lo condusse alla morte.
Anche i suoi avi avevano dimostrato una simile e spasmodica attenzione all’arcaica credenza: il nonno Ferdinando I, così come il padre Francesco I, già sovrani del Regno delle Due Sicilie, praticavano abitualmente riti scaramantici per premunirsi contro la jella, entrambi infatti portavano sempre appeso ad una catenella un piccolo corno di corallo rosso da stringere tra le mani quando ritenevano necessario scacciare il malocchio. Ferdinando II però eccedeva ancor di più nei preconcetti sulla iettatura, paragonabili ai suoi risaputi fanatismi religiosi. Le cronache del tempo registrano non pochi aneddoti e scongiuri, definiti dallo storico Raffaele De Cesare come “salaci tanto da non potersi scrivere in un libro, per quanto caratteristici ed esilaranti”. E nonostante fosse molto devoto, per lui i frati in genere ed i cappuccini in particolare, come i gobbi, i calvi, gli uomini dai capelli rossi e le vecchie con il mento aguzzo, erano simbolo di malaugurio e di sventura. Allo stesso modo temeva il venerdì e il numero 13, considerati di triste presagio, in quei giorni non concludeva nulla di importante né viaggiava.

Durante la dolorosissima malattia, originata probabilmente dalla ferita subita durante il fallito attentato dell’8 dicembre 1856 che gli procurò una infezione purulenta e la setticemia, i pregiudizi contro la iettatura crebbero in maniera inverosimile, tanto da renderlo protagonista di scongiuri indicibili. Attribuì infatti la ragione della sua infermità agli “iettatori” (ripeteva ossessivamente “me l’hanno jettata”), e il rapido peggioramento delle condizioni di salute ai menagramo che aveva incontrato durante il suo ultimo viaggio in Puglia, in particolare all’uomo calvo con il quale aveva incrociato lo sguardo nel Duomo di Brindisi.
Senza tener conto dei consigli dei medici e sfidando i rigori dell’inverno, l’8 gennaio del 1859 il re, la regina e tre principi si misero in viaggio verso le province pugliesi, in attesa dell’arrivo a Bari di Maria Sofia di Baviera, sorella della più nota principessa Sissi e sposa del primogenito ed erede al trono Francesco II. Dopo Foggia, Taranto e Lecce, dove i sovrani colsero l’occasione per soggiornare alcuni giorni, Ferdinando di Borbone giunse a Brindisi nella tarda mattinata del 27 gennaio, accolto calorosamente fuori il centro abitato dal sindaco Pietro Consiglio, dal sottointendente Mastroserio e dai sindaci, i decurioni e le guardie d’onore del circondario. All’ingresso della città era stato innalzato un arco trionfale sul quale si leggeva “Al benamato Sovrano – Restitutore della sua salute – Brindisi riconoscente – de’ suoi figli la vita – consacra”, nei pressi del quale erano schierati un battaglione di cacciatori e la banda municipale.

La corte reale fu accompagnata direttamente al Duomo, dove fu ricevuta dall’arcivescovo Raffaele Ferrigno, che fin dalla mattina aveva indossato il piviale e li attendeva sotto il baldacchino insieme a Giovanni Tarantini, “dotto uomo, che il Re già conosceva” e al Capitolo tutto. Il corteo attraversò la cattedrale gremita di gente, passando in mezzo a due file di seminaristi e canonici, dietro ai quali erano schierati soldati e gendarmi. Il sovrano si muoveva lentamente e con difficoltà. Nei pressi del presbiterio Ferdinando II notò un uomo completamente calvo, ritto davanti a tutti gli altri, che lo guardava torvo, e “non sapendo spiegarsene la presenza, diede ordine al colonnello Latour di farlo allontanare, chi disse per timore di jettatura, chi di un attentato”. Oltre al calvo, del quale non si seppe mai il nome, fu fatto allontanare anche un signore distinto, tale Alfonso Ercolini, “perchè si disse che al re non piacesse il suo portamento poco edificante in chiesa”. Nel racconto del De Cesare si parla anche del “ruzzolone per terra di un povero vecchio, ufficiale di presidio” proprio nei pressi del sovrano, quest’ultimo, nonostante i dolori, si chinò come per volerlo aiutare.
Quanto stava accadendo scosse l’arcivescovo che, ignaro dello stato di sofferenza del monarca, volle affrettare il passo spingendo con decisione il re verso il presbiterio. A quel punto il principe Francesco fu costretto a richiamare più volte il prelato, tirandolo per il piviale, tanto che monsignor Ferrigno “indispettito, nè sapendo chi potesse essere così scortese con lui, gridò napolitanamente: “Guagliò, che buò? lasciame sta”; ma visto poi chi era, fece mille scuse”.

Dopo il canto del Te Deum e la benedizione, la corte reale salì nell’adiacente Palazzo dell’Episcopio, dove fu servita ”una lauta refezione”. Qui il sovrano rimase avvolto tutto il tempo in un ampio mantello “alla russa” continuando però a tremare dal freddo, soffriva visibilmente, e solo dopo lunghe insistenze della regina Maria Teresa e di monsignor Ferrigno decise di mangiare qualcosa: scelse una ostrica “di quelle gigantesche che si trovavano allora nel porto di Brindisi, la divise in quattro, e dicendo con molta cavalleria: “questa la mangio perché è veramente brindisina”; ne inghiottì una parte soltanto”. Volle anche informarsi sui liberali rivoluzionari brindisini nemici della dinastia, “Brindisi è città tranquilla” gli fu assicurato dall’arcivescovo. Gli altri ospiti invece “pranzarono lautamente, ma in gran fretta”, chi seduto e chi in piedi, il principe Francesco – nonché duca di Calabria – mangiò un pollo davanti una finestra, scherzando con l’arcivescovo che era rimasto abbigliato con il paramento liturgico, e fece “grandi lodi al pane di Brindisi, che trovava eccellente”. Al suono della campana il corteo reale discese dall’episcopio e prese posto sulle sei carrozze “fra le grida, non molto clamorose della folla, e gli auguri e gl’inchini delle autorità”. Il convoglio si diresse a Bari per accogliere lo sbarco della novella sposa.

In questa occasione la famiglia reale borbonica non soggiornò nel Palazzo Vescovile di Brindisi come avvenuto per le visite del 1843, 1845, 1846 e 1847, a loro era riservata un’area detta delle “alcove reali”.
Le condizioni di salute del sovrano continuarono a peggiorare, tanto da non poter partecipare al matrimonio del figlio che si tenne a Bari il 3 febbraio. Durante le ultime settimane di vita passò in rassegna tutti gli “incidenti” del suo viaggio in Puglia per individuare l’empio jettatore artefice del malefico influsso e causa del suo malessere: tra i maggiori imputati vi erano i due frati cappuccini che aveva incrociato al momento della partenza, appena fuori del palazzo reale di Caserta, “certe facce” vedute ad Ariano, a Foggia e Andria, ma il principale sospettato rimaneva il calvo di Brindisi, l’energia funesta generata dal suo sguardo lo aveva angosciato più di ogni altra cosa.
Ferdinando II morì a Caserta il 22 maggio 1859, a soli quarantanove anni.