Fontana Tancredi, dopo tante battaglie ambientaliste: ora i ruderi del cantiere sono abbandonati

Correva l’anno 2010, quando chi, come me, per recarsi da casa a lavoro, percorreva quotidianamente la via Provinciale San Vito, cominciò a vedere – se non erro in estate – movimenti di mezzi ed operai all’imbocco di via del Lavoro su un cantiere aperto proprio sulla sommità del terrapieno (ex collinetta, in tempi antichi) che sovrasta la Fontana Tancredi, uno dei monumenti più celebri che vanta la Città di Brindisi.
All’inizio pensai, con sollievo, che finalmente si stava procedendo alla demolizione di un vecchio e cadente manufatto che occupava alcune decine di metri quadri di quello spazio, per ampliare il giardinetto a più livelli in cui era stata incastonata, come perla preziosa, la antica “Fons Magna” o Fontana Grande. Tale era il nome attribuito alla antica fonte prima che, nell’Anno Domini 1192, il re normanno Tancredi di Sicilia la rimettesse a nuovo – dandogli, grossomodo, la forma attuale – per ringraziare i brindisini dell’accoglienza calorosa in occasione del matrimonio di suo figlio Ruggero con la principessa Irene, figlia dell’imperatore bizantino Isacco II, celebrato nella Cattedrale di Brindisi, a dimostrazione di come il capoluogo messapico rappresenta da sempre il punto ideale e materiale di congiunzione fra Oriente ed Occidente.
Lo stemma cittadino, con la testa di cervo e le due colonne romane, fu posto in cima alla fontana nel 1549, allorquando il governatore Loffredo commissionò alcuni lavori di restauro. A quell’epoca la seconda colonna non era stata ancora trafugata a Lecce, ma i suoi rocchi giacevano sparsi per terra da circa venti anni, per cui vedere entrambe le colonne ben irte, almeno nel bassorilievo, aveva fatto sicuramente piacere ai brindisini ed era apparso beneaugurante.

Fin da ragazzino mi fermavo a contemplare quella Fontana misteriosa, cercando di immaginare i tempi in cui in quella lunga vasca in pietra, come ci aveva spiegato la maestra delle Elementari, si abbeveravano, anche dodici per volta, i cavalli dei crociati prima di imbarcarsi sulle navi per andare a riconquistare la Terra Santa ed i faccioni da cui sgorgava l’acqua, vecchi di mille anni, mi apparivano oltremodo inquietanti.
Quando, anni dopo, durante gli studi classici, mi capitò di approfondire l’argomento, venni a sapere che la Fons Magna segnava, di fatto, l’arrivo a Brindisi della via Appia Traiana, quella che, inizialmente sovrapposta alla antica via consolare voluta dal console Claudio Appio Cieco, all’altezza di Benevento, si staccava dal vecchio tracciato per escludere Taranto (ormai in decadenza nel III secolo dopo i fasti della Magna Grecia) e raggiungere più celermente la “Porta d’Oriente”, passando da Bari ed Egnazia, attraversando la Piana degli Ulivi. Subito dopo la Fontana Grande, voltando a destra per l’attuale via Osanna, senza dover, come ora, sperare che il passaggio a livello sia aperto, si arrivava al punto di congiungimento con il vecchio tracciato della “Regina Viarium” e si faceva ingresso all’interno delle mura della Città.
La via Appia-Traiana fu costruita, per volere dell’imperatore Traiano, agli inizi del II secolo e la Fons Magna doveva essere già a quei tempi imponente; la sua acqua veniva utilizzata anche ad uso potabile per gli uomini in quanto, in un’epoca in cui ci si adattava ad ingurgitare anche acqua melmosa e maleodorante (aqua miserrima, come era definita dagli avi dei nostri avi) pur di saziare la sete, avere a disposizione “pura aqua fontanalis” in abbondanza, cioè acqua fresca, cristallina ed appena sgorgata dalla roccia, alle nostre latitudini era cosa rara e pregevole.
Certamente, già in epoca repubblicana, l’accesso dalla attuale via Provinciale San Vito segnava un importante punto di arrivo in città e fu percorso, per lo più a piedi, anche da Orazio, Mecenate e Virgilio quando furono inviati, insieme ad altri, in missione a Brindisi per cercare di far fare pace ai contendenti ed evitare l’inasprirsi della guerra civile dopo l’uccisione di Giulio Cesare.
A quell’epoca, Brindisi, per importanza, era la terza città italica oltre che la più fedele a Roma.
Dopo questo breve viaggio nel tempo, che nella mia mente, leggendo i testi di viaggiatori antichi, ho fatto mille volte, possiamo tornare al presente o meglio ancora, al recente passato, per tentare di ricostruire la vicenda dell’obbrobrio del cantiere abbandonato, che ammorba la vista sia dei residenti sia dei turisti e degli studiosi che vengono ad ammirare da vicino la Fontana Tancredi.

Contrariamente a quanto avevo inizialmente pensato, si venne presto a sapere che il Comune di Brindisi aveva concesso al proprietario del suolo un permesso a costruire un edificio a più piani da adibire ad uffici e civili abitazioni, esattamente sopra la fontana, con l’unica prescrizione imposta, si fa per dire, a tutela del monumento, della piantumazione di una siepe (sic!) che rendesse meno impattante la visuale frontale. Tutto qui. E non siamo nella Brindisi postbellica, presa dalla frenesia del modernismo che sancì la distruzione di tanti monumenti, ma in un’epoca – il secondo decennio del terzo millennio dell’era cristiana – in cui la tutela del patrimonio architettonico, storico, culturale e paesaggistico, avrebbe già dovuto costituire la Bibbia per gli uffici pubblici atti a rilasciare permessi edilizi; in una città già ampiamente deturpata come Brindisi, tutelare il patrimonio residuo avrebbe dovuto essere una parola d’ordine tassativa ed inderogabile.
Invece le cose non sono andate esattamente così. Nel silenzio colpevole dell’Amministrazione Comunale, ci fu la sollevazione di alcune associazioni come Italia Nostra e Legambiente e, soprattutto, il tentativo, invero tardivo, del Ministero per i Beni Culturali e della competente Soprintendenza di porre un argine, apponendo, nella primavera del 2011, un vincolo indiretto di inedificabilità sul retrostante suolo di proprietà privata, considerato il rilevante interesse storico ed architettonico della Fontana Tancredi – esempio di ingegneria idraulica e di architettura civile normanna in Puglia, impostato al di sopra di sorgenti naturali di acque dolci lungo la costa del seno di ponente della città (così la relazione storico-artistica allegata al decreto ministeriale) – ritenuta l’esigenza di garantire la conservazione delle condizioni di decoro, luce, prospettiva e godibilità pubblica, mediante la salvaguardia dell’integrità dei luoghi intorno già parzialmente edificati a monte e per scongiurare ulteriore impropria urbanizzazione dell’area all’imbocco della Minnuta, mediante l’inibizione dei processi di modifica a qualsiasi titolo dei luoghi.
Il proprietario fece ricorso immediato al Tribunale Amministrativo Regionale di Lecce, per ottenere l’annullamento del vincolo. I giudici della Corte salentina, i quali ben conoscevano l’importanza e la storia del monumento brindisino, ritennero infondate le sue ragioni ed insufficienti a salvaguardare il monumento i quattro ciuffi di verde previsti nel permesso a costruire inopinatamente rilasciato dal Comune di Brindisi (che, notate bene, neanche ebbe a costituirsi dinanzi al TAR, preferendo rimanere contumace). In sentenza era ben evidenziato che, a differenza dei palazzi già costruiti in quella stessa zona, quest’ultimo sarebbe stato edificato proprio a ridosso della Fontana Tancredi ad una vicinanza tale da alterare e compromettere il monumento stesso.

Era l’estate del 2012 e tutto sembrava essere ritornato nella carreggiata giusta, ma il proprietario appellava la decisione al Consiglio di Stato che, a distanza di tre anni, esattamente nel marzo del 2015, con sentenza del Collegio presieduto da Filippo Padroni Griffi, il più noto della celebre famiglia barese, ribaltava la decisione del TAR ed annullava il vincolo sulla base di una serie di motivazioni che Italia Nostra riassunse nei seguenti concetti: 1) il Dirigente dell’Ufficio Tecnico Comunale aveva rilasciato il permesso a costruire in quanto, secondo lui, sarebbe stato sufficiente a tutelare il bene piantare della vegetazione dietro la fontana; 2) la Soprintendenza di Lecce, che pure da tempo aveva manifestato l’intenzione di sottoporre l’area a vincolo, si era mossa in ritardo, quando il permesso a costruire era già stato rilasciato, senza nemmeno ben specificare le ragioni di tutela dei luoghi; 3) il Sindaco dell’epoca non si era mai espresso sulla questione; 4) gli assessori del settore, pur dogliendosi degli scempi perpetrati dai loro predecessori, erano incappati esattamente negli stessi errori.
Questa situazione a dir poco kafkiana mi fa tornare alla mente una frase di Procopio di Cesarea (uno storico bizantino del VI secolo dopo Cristo) che mio suocero, Marcello Mele, per quarant’anni servitore dello Stato nella Pubblica Amministrazione, soleva recitare ad ogni nuovo amministratore: “La stragrande maggioranza degli uomini di potere si fa facilmente e regolarmente trascinare dalla stupidità a ripetere i crimini dei predecessori e torna a commettere con tutta disinvoltura gli stessi errori del passato”. Ovviamente il politico di turno giurava e spergiurava che mai avrebbe commesso gli stessi errori dei suoi predecessori!
Ed in effetti il Consiglio di Stato, a leggere la motivazione della sentenza, si muove in questa direzione, sottolineando come la situazione sia stata determinata da anni di ritardo nell’assumere iniziative di salvaguardia del sito circostante al bene culturale ed affrontata senza precisa considerazione della intervenuta trasformazione del territorio e dei diritti nel frattempo maturati. Il tutto dopo anni di carenza di interventi di tutela, in un territorio ormai intensamente urbanizzato, per cui – detto in soldoni – “sobbra la tigna la capu malata”, cosa sarà mai una nuova autorizzazione a costruire?

Forte di questa sentenza, il proprietario cedeva suolo e cantiere ad una società edilizia di nuova costituzione che avviava subito, fra lo sconcerto di gran parte della cittadinanza, me compreso, i lavori di costruzione del manufatto sopra la fontana.
Nell’assenza di decisioni da parte del Comune di Brindisi, scendeva in campo, a tutela del monumento, l’Amministrazione Provinciale, che avviava un procedimento teso all’annullamento del permesso a costruire, sospendendo i lavori: iniziava una nuova battaglia legale dinanzi al TAR di Lecce che sfociava, nel gennaio del 2018, in una vittoria a mani basse dell’impresa costruttrice in quanto i giudici amministrativi, ricalcando quanto già espresso dal Consiglio di Stato, rilevavano impietosamente la grave compromissione della zona da ogni punto di vista, attorniata come era da imponenti costruzioni alte anche sette piani che già rendevano irrimediabile l’impatto visivo, seguiva l’annullamento dei provvedimenti presi dalla Provincia a salvaguardia del Monumento ed i lavori potevano riprendere.
A questo punto l’indignazione era talmente alta in città, anche più alta dei palazzoni cui faceva riferimento il TAR, che vi fu una sorta di sollevazione popolare per tutelare la Fontana Tancredi; il che non lasciò insensibile nemmeno la società costruttrice, consapevole della grave lacerazione che si stava consumando in città per via di questo ulteriore affronto al patrimonio artistico e culturale e della conseguente impopolarità che sarebbe derivata dal sopraelevare la costruzione.

Il Commissario prefettizio che governava all’epoca la città, Sante Giuffrè, un tipo solerte e decisionista, non ebbe dubbi ad intraprendere l’unica strada certa per giungere ad una conclusione onorevole: un accordo che facesse recedere la società dall’intento di costruire quella palazzina.
Fu così che si giunse a sottoscrivere, il 5 giugno 2018, dinanzi al notaio Michele Errico un atto di permuta in base al quale il Comune di Brindisi, in cambio della proprietà del cantiere posto sopra alla Fontana Tancredi, cedeva altro fabbricato, fatiscente, posto fra via Osanna, via Adamello e via Cappuccini, non lontano da via del Lavoro. Il Comune riceveva anche la somma di €.50.000,00, che avrebbe dovuto utilizzare per sistemare a giardino tale area. “E’ molto bello – dichiarò raggiante il commissario Giuffré subito dopo la sottoscrizione dell’accordo – quello che abbiamo fatto, grazie alla sensibilità e alla professionalità dell’impresa e alla tenacia e alla volontà delle associazioni che si sono battute per la salvaguardia della Fontana Tancredi”.

Peccato che fino ad ora, a distanza di due anni e mezzo dalla sottoscrizione dell’accordo e dalla corresponsione della somma necessaria per sistemare l’area sovrastante, ora di proprietà comunale, nulla si è mosso e, come ho avuto personalmente modo di constatare, l’ex cantiere è abbandonato a se stesso e sta divenendo un ricettacolo di rifiuti che non è invaso dai topi sol perché frequentato assiduamente da una nutrita colonia felina. Ciliegina sulla torta, si fa per dire, nell’area già attrezzata a giardino, giacciono esanimi i resti di un grosso Pino di recente tagliato ed il cancelletto che consentirebbe l’accesso al monumento ed ai giardinetti risulta essere quasi sempre chiuso per cui non ci si può avvicinare nemmeno per leggere i pannelli illustrativi che oltre a raccontare la storia del monumento ne mettono in evidenza le peculiarità artistiche.
Come dare torto, mi è venuto da pensare osservando, costernato, lo stato di abbandono dei luoghi, a quegli uomini in toga nera che, quasi sbeffeggiando gli amministratori brindisini e la città intera hanno affermato, scritto e sottoscritto che la zona è talmente deturpata per colpa delle amministrazioni che si sono succedute nel tempo e del lassismo della stessa Soprintendenza, da non meritare più alcuna tutela?