Cinquantasette anni, nativo di Siracusa, laureatosi e specializzatosi a Catania: il nuovo direttore della Struttura Complessa di Malattie Infettive dell’ospedale Perrino di Brindisi è Salvatore Minniti, da anni presente nel reparto come vicario dell’ex primario Domenico Potenza, andato in pensione a dicembre 2020. Responsabile dell’assistenza domiciliare nel trattamento dell’Hiv e dell’Aids e del centro provinciale per la profilassi dell’epatite, al momento di scegliere la specializzazione si è orientato su Malattie Infettive perché da ragazzo sognava di andare a vivere e lavorare nei Paesi in via di sviluppo, laddove la cura efficace delle patologie infettivologiche, più del resto, può fare la differenza tra la vita e la morte (in effetti, prima di stabilirsi in Italia, ha prestato servizio per qualche anno in Etiopia). Invitato a scegliere una parola che definisca il suo lavoro nell’ultimo anno, opta per resilienza, “perché noi operatori sanitari siamo stati capaci di adattarci alle difficoltà del momento, riorganizzandoci con atteggiamento positivo”. Resilienza che si sposa perfettamente con l’ottimismo che ne contraddistingue l’approccio, personale e professionale, all’emergenza sanitaria, malgrado la gravità della situazione attuale.
Questa nomina arriva in una fase complicatissima dell’emergenza sanitaria per gli ospedali pugliesi.
“Purtroppo è da oltre un anno che il momento è complicato”.
È più complicato adesso rispetto a quanto lo era l’anno scorso di questi tempi?
“No, penso di poter affermare con serenità che, malgrado tutto, preferisco il marzo 2021 al marzo 2020. Se è vero che il numero di ricoveri è di molto superiore, è vero anche che siamo molto più preparati ad affrontarlo. Per noi operatori sanitari, niente è paragonabile alla prima ondata del virus, quando siamo stati travolti da qualcosa di inaspettato e di sconosciuto e abbiamo temuto di non riuscire a farvi fronte. Adesso, sia dal punto di vista organizzativo che da quello terapeutico, è completamente un’altra storia. Un anno fa, tutto ciò su cui potevamo basarci erano i riscontri “aneddotici” su come venivano curati i pazienti in Cina. Oggi come oggi, le terapie che abbiamo utilizzato a marzo e ad aprile dell’anno scorso sono in larga parte controindicate”.
Non soltanto superate, quindi, ma addirittura controindicate.
“Sì. Ad esempio, l’idrossiclorochina e i farmaci antiretrovirali, che abbiamo somministrato all’inizio credendo che fossero una buona opzione, adesso non rientrano tra le alternative terapeutiche efficaci. E in medicina, quando qualcosa non è efficace, deve considerarsi controindicato”.
A proposito di opzioni terapeutiche, come si cura adesso il Covid-19? Molti virologi sostengono che i pazienti arrivino in ospedale in condizioni già critiche, laddove si potrebbe iniziare per tempo una valida terapia domiciliare.
“A tutt’oggi non vi sono terapie sicuramente efficaci nella gestione del paziente domiciliare. Se l’ammalato è a domicilio, è perché si presuppone che abbia una sintomatologia simil-influenzale: in questo caso, dovrebbe essere curato con quelle poche prescrizioni che normalmente suggerisce il medico di base e cioè tachipirina e, nel caso di complicazioni batteriche, antibiotici. Viceversa, ciò che noi osserviamo è che spesso si cerca di anticipare al domicilio terapie che sono state validate per essere somministrate in ospedale, ovvero anticoagulanti e cortisonici. Noi medici ospedalieri abbiamo contestato fortemente queste soluzioni, anche a livello nazionale, non soltanto perché è stato dimostrato che non c’è nessun vantaggio in questo approccio, ma anche perché si sono verificati casi in cui queste terapie improprie hanno aumentato il rischio di eventi collaterali avversi che, probabilmente, non ci sarebbero stati se ci si fosse attenuti al protocollo domiciliare approvat0”.
Sostanzialmente lei sta dicendo che, qualora dovesse presentarsi l’esigenza di somministrare eparina e cortisone, è perché il paziente non è già più un paziente domiciliare e deve necessariamente essere gestito in ospedale.
“Esattamente. Perché gli studi validati ci dicono con molta chiarezza che questi due presidii terapeutici, eparina e cortisone, sono utili quando curiamo un paziente che si è già complicato e non per prevenire eventuali complicazioni in pazienti paucisintomatici. Voglio ripeterlo, perché sia chiaro a chi pensa di potersi curare da solo: la terapia preventiva non solo non è utile, ma in alcuni casi può rivelarsi dannosa. Lo stesso approccio preventivo è stato ipotizzato, per fortuna senza successo, a proposito del vaccino AstraZeneca e dei pochissimi casi al mondo di trombosi riscontrati in pazienti a cui era stato somministrato: c’è stato chi ha proposto di sottoporre a terapia antitrombotica chiunque avesse ricevuto quel vaccino. Non c’è bisogno, spero, di spiegare quanto sia estremamente pericoloso intraprendere questo percorso. La comunità medica deve essere compatta nel rispedire al mittente queste opzioni che non hanno nulla di scientifico”.
A distanza di un anno dallo scoppio della pandemia, quali certezze abbiamo?
“La più solida certezza che abbiamo è che, grazie a Dio, questo virus nel 95% dei casi decorre in maniera paucisintomatica o, se dà sintomi, si autorisolve senza gravi conseguenze. Il nostro compito è gestire con attenzione il 5% dei casi rimanenti, certe volte al domicilio, certe volte in ospedale”.
Proviamo a fare un resoconto della situazione, con specifico riferimento al suo reparto, in questa fase della pandemia: numero di pazienti provenienti da altre province, percentuale di casi di variante inglese rispetto al ceppo originario, età media dei ricoverati.
“Per quanto riguarda la provenienza, Brindisi sta decisamente dando una grossa mano alle altre province, ma questo aiuto riguarda quasi esclusivamente la terapia intensiva e la pneumologia. Nel caso specifico del mio reparto, il 99% dei pazienti sono della provincia di Brindisi, perché si tratta di pazienti che accedono alle Malattie Infettive direttamente dal pronto soccorso. Ed è chiaro che il primo accesso in urgenza del paziente brindisino è il Perrino. Venendo alla variante inglese, più contagiosa, è già assodato che sia preminente nel territorio pugliese. E questo sicuramente influisce sull’età media dei ricoverati, che si è notevolmente abbassata negli ultimi tre mesi. Anche se, non possiamo negarlo, questo abbassamento è dovuto anche alla vaccinazione massiva dei soggetti più anziani e dei sanitari: sia nell’una che nell’altra categoria, infatti, abbiamo avuto una grande riduzione dei contagiati. Ricordo che, durante la prima ondata, ogni giorno avevamo notizie di colleghi medici (o infermieri, o oss) positivi. Adesso si tratta di casi rarissimi”.
Questa è una considerazione generale o si riferisce al reparto di Malattie Infettive?
“È un discorso che riguarda tutto l’ospedale. Nel nostro reparto, anche nel momento del picco della prima ondata, abbiamo avuto veramente pochissimi contagiati e nessun caso tra i medici”.
Forse perché Malattie Infettive è, per definizione, un reparto nel quale siete più preparati a ridurre al minimo il rischio di contagio.
“Sicuramente rientra nella nostra forma mentis il cercare di evitare il contagio. Un infettivologo che riceve la notizia di essere stato contagiato mentre cura un paziente, che sia affetto da Covid o da altra patologia, non smette di chiedersi dove ha sbagliato. È un’emergenza alla quale all’inizio siamo arrivati più preparati rispetto ai colleghi delle altre specializzazioni. Adesso il livello di attenzione e preparazione è molto alto in tutti i reparti”.
I suoi colleghi degli altri reparti lamentano che l’emergenza sanitaria stia sottraendo risorse alle patologie ordinarie. Per un reparto di Malattie Infettive questo cosa significa? Meno attenzione a quali patologie?
“Noi abbiamo affrontato questo problema e, a differenza di altre province, abbiamo pensato di mantenere un numero minimo di letti per patologie infettive non Covid. Fortunatamente siamo dislocati su due piani, perciò abbiamo allestito il terzo piano per i pazienti affetti da coronavirus e abbiamo mantenuto al quarto piano quattro stanze per pazienti affetti da altre malattie infettive. Devo dire che questa scelta ha funzionato: se arriva una meningite o una tubercolosi, siamo in grado di curarle senza spostare i pazienti chissà dove”.
Tra i medici che gestiscono il terzo piano Covid e quelli che curano le patologie infettive per così dire “ordinarie” c’è promiscuità?
“La parola “promiscuità” è terribile, sottintende disorganizzazione e magari anche mancanza di igiene. Visto che siamo in sei soli medici a dover gestire il reparto Covid, curare gli altri pazienti con patologie infettivologiche e contemporaneamente fare le consulenze al pronto soccorso e agli altri reparti, dovremmo dire che siamo estremamente promiscui! Invece no, stiamo molto attenti a salvaguardare i nostri pazienti, quale che sia l’ambito nel quale siamo chiamati a intervenire”.
Qualche giorno fa la ASL di Brindisi, dando attuazione alla legge regionale del 23 febbraio, ha collocato in ferie forzate alcuni operatori sanitari che hanno rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid. Come valuta questo provvedimento e la possibilità di obbligare i sanitari a questo tipo di profilassi?
“Personalmente, non amo molto parlare di obbligo. Noi italiani siamo un popolo particolare: di fronte ad un obbligo che non ci piace, cerchiamo sempre di trovare l’escamotage per sfuggire. È per questo che credo che i cittadini, incluso il personale sanitario, debbano essere convinti della bontà della scelta vaccinale, non debbano essere obbligati a fare la scelta vaccinale. I fatti, in tutto il mondo, ci stanno dimostrando che i vaccini funzionano. Alla luce di questa certezza, sono convinto che basti investire di più su una corretta comunicazione e una efficace informazione”.
Il rischio saturazione per i nostri ospedali è già concreto o si potrà manifestare nelle prossime settimane?
“Io credo che tra circa tre settimane riusciremo a oltrepassare questo momento di difficoltà. Le ultime scelte aziendali, che proprio in questi giorni hanno ulteriormente allargato il numero di posti letto, sono sicuramente determinanti per una gestione più serena dei pazienti, considerato che potremmo non avere raggiunto ancora il picco dei contagi e che stiamo aiutando anche le altre province che, oggettivamente, stanno soffrendo più di noi. Tutto sommato la situazione mi sembra sotto controllo. Se poi, come cittadini, riuscissimo a limitare anche i comportamenti imprudenti, sarebbe un ulteriore passo in avanti. Non possiamo riporre tutte le nostre speranze nei vaccini: per quanto siano efficaci, non ne abbiamo a sufficienza per poterci completamente sentire al sicuro. Bisogna continuare ad essere individualmente e collettivamente responsabili”.
Qual è la storia personale che l’ha commossa di più in questo ultimo anno?
“Ogni giorno abbiamo a che fare con storie di grande sofferenza. Io cerco sempre di restare sufficientemente distaccato, perché il coinvolgimento emotivo potrebbe condurre a scelte non razionali, mettendo a rischio i pazienti. Sicuramente posso dire che sono rimasto molto colpito quando, durante la prima ondata, una sera ho dovuto ricoverare una giovane incinta insieme a sua madre, entrambe positive al Covid. Inizialmente, pensando di fare cosa gradita nell’interesse di entrambe, le abbiamo tenute nella stessa stanza. Purtroppo nel giro di poco tempo la madre è peggiorata notevolmente e la figlia, che era quasi al termine della gravidanza, ha iniziato ad agitarsi moltissimo, facendoci temere per la sua salute e per quella del bambino. Quindi, ho dovuto compiere la scelta, difficilissima, di separarle. Ecco, quello è stato un momento di grande sofferenza anche per me”.
In questa particolare fase dell’emergenza, riesce ad essere ottimista?
“Certamente. Riusciremo ad uscire da questa situazione emergenziale. Ovviamente, da professionista, so bene che il Covid non scomparirà, però – con le opportune cautele – diventerà un virus occasionale, più simile ad una influenza stagionale. Non dimentichiamo che, oltre ad essere a buon punto sui vaccini, la ricerca sta procedendo bene anche sulle terapie. Avremo nuovi farmaci che ci consentiranno di gestire la malattia con una certa tranquillità. E questa non è una speranza, è un dato oggettivo. Nel frattempo, comportiamoci bene”.