Grande Guerra: la prima azione armata italiana partì da Brindisi nell’estate 1914

Un mese dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 in cui furono uccisi l’arciduca Francesco Ferdinando erede al trono austroungarico e sua moglie Sofia, l’impero dichiarò guerra alla Serbia. L’Italia, formalmente legata all’Austro-Ungheria e alla Germania dalla Triplice Alleanza, inizialmente si dichiarò neutrale per poi, quasi dieci mesi dopo, il 24 maggio 1915, schierarsi con la Triplice Intesa di Francia, Regno Unito e Russia.
Fin dallo scoppio iniziale della guerra però, in tutta Italia cominciarono a sorgere voci, anche di peso, e movimenti di opinione a favore dell’immediato intervento in difesa della Serbia, al fianco di Francia, Regno Unito e Russia. Una tra le più rimbombanti e carismatiche di quelle voci fu quella del generale Ricciotti Garibaldi, il già sessantasettenne quartogenito di Giuseppe e Anita, arci-famoso per le sue tante conclamate gesta militari condotte durante tutto il corso della sua vita, sia in Italia che all’estero, nei Balcani in primis.
Volontari garibaldini infatti, avevano partecipato alle varie rivolte antiturche: a quella del 1866-1867 in Creta con l’appena ventenne Ricciotti, a quella in Bosnia Erzegovina del 1875-1876, alla guerra serbo-turca nel 1876 e soprattutto, alla guerra greco-turca quando, nell’aprile del 1897 nonostante le varie difficoltà interposte dalle autorità italiane ufficialmente neutrali, Ricciotti Garibaldi raggiunse la Grecia e con poco più di un migliaio di volontari – esattamente 1323 – il 17 maggio guidò a Domokos lo scontro con i Turchi. Quella battaglia contro forze soverchie costò la vita a ventidue dei garibaldini, molti dei quali erano salpati da Brindisi con la Cariddi il 28 aprile, e tra loro anche il deputato Antonio Fratti. Per fortuna, i tre volontari garibaldini brindisini, Achille De Pace – ferito – Giordano Barnaba – ferito e promosso tenente – e Ricciotti D’Amelio, riuscirono a rientrare a Brindisi il 1º giugno a bordo dell’Urania assieme a centinaia di atri garibaldini e con il comandante Ricciotti.
E anche più di recente, meno di due anni prima nel 1912, nel contesto della prima guerra balcanica, Ricciotti accompagnato da ben cinque dei suoi dieci figli aveva guidato una spedizione internazionale in appoggio alla Grecia e il 14 dicembre con i suoi volontari a Drisko aveva affrontato i Turchi con un buon successo iniziale. In seguito però, non poté resistere alla controffensiva turca e dopo aver disciolto il corpo dei volontari rientrò a Brindisi il 28 dicembre 1912 a bordo del piroscafo Ismene, dichiarando di aver comunque “assolto il compito di dare alla Grecia un attestato di simpatia per la guerra intrapresa nella soluzione finale della questione balcanica secondo le idee di Mazzini e di Garibaldi”.
E così, nello stesso giorno della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, Ricciotti lanciò un proclama incoraggiando i giovani a sostenere il popolo serbo e, stigmatizzando le azioni asburgiche come potenzialmente pericolose per l’unità e la libertà d’Italia, invitando la gioventù italiana ad agire, in nome di Garibaldi, per difendere Trento e Trieste, con lo slogan: “Ogni nazione padrona a casa sua. Lunga vita al popolo serbo!”
A Firenze, il comitato costituito dai circoli repubblicani per arruolare volontari disposti a raggiungere la Serbia e combattere a fianco dell’esercito di quel paese attaccato dall’impero fu immediatamente sciolto dalle autorità governative, e il ministro degli interni ordinò ai prefetti delle principali città adriatiche – Venezia, Ancona, Bari e Lecce (cui apparteneva Brindisi) – il monitoraggio dei porti per impedire qualsiasi tipo di spostamento di uomini e armi verso la Serbia e i Balcani. Mentre anche a Roma, Milano e in altre città, tutti quei gruppi che manifestarono le loro simpatie verso l’idea dell’interventismo volontario al fianco della Serbia, furono contrastati dalla polizia e obbligati alla clandestinità.
Di fatto, pur non mancando importanti manifestazioni di appoggio da parte degli esponenti politici del partito repubblicano e nonostante Ricciotti avesse anche intrapreso un viaggio nelle capitali europee incontrando alcuni tra i maggiori statisti del tempo e prospettando loro la possibilità di formare un corpo di volontari per intervenire nei Balcani, per il veto del governo e l’ostilità dello stato maggiore in Italia, l’idea non progredì e il proclama non raccolse troppe entusiastiche adesioni, con la maggior parte dei giovani democratici italiani che, stimando minime le prospettive di essere messo in atto, decise di attendere gli ulteriori sviluppi della situazione. Ma ci fu una eccezione che, se pur numericamente limitata, era destinata a divenire storicamente emblematica della partecipazione italiana alla Grande guerra: una primissima azione armata che ebbe inizio proprio da Brindisi.
Un gruppo di giovani volontari italiani lasciò le proprie case per unirsi all’esercito serbo, mossi dall’entusiasmo e dal convincimento di poter essere primi ed esempio per i tantissimi altri che presto li avrebbero seguiti. Furono solo sette, piccolo-borghesi, la maggior parte di loro provenienti dalla provincia di Roma, uno siciliano e uno appartenente a una importante famiglia di Salerno. Ideologicamente tra repubblicani e anarchici, erano comunque tutti profondamente idealisti e già legati al movimento garibaldino. Questi i nomi dei sette: Mario Corvisieri, i fratelli Cesare e Ugo Colizza, Arturo Reali, Nicola Goretti, Vincenzo Bucca e Francesco Conforti. Quest’ultimo, Corvisieri e Cesare Colizza, avevano partecipato alla battaglia di Drisko.
Per non destare sospetti, giunsero a Brindisi alla spicciolata e il venerdì 31 luglio s’imbarcarono per il Pireo sul piroscafo greco Miksea, il cui comandante favorì l’imbarco clandestino, non mancando però di riscuotere il regolare biglietto. Arrivarono in Grecia il 3 agosto e da Atene raggiunsero a marce forzate Salonicco il sabato 8, e da lì poterono comunicare con Roma ricevendo la notizia che due giorni prima Ricciotti aveva dato disposizioni per la sospensione del progetto e per il rientro a casa di coloro i quali fossero già partiti. Ma i sette decisero unanimemente di non tornare indietro e si spostarono in treno da Salonicco a Skopje, poi a Nech e a Kragujevacka, dov’era il comando generale serbo, per da lì raggiungere la linea di combattimento sulla frontiera bosniaca inquadrati in una compagnia eterogenea composta da 500 uomini, tra serbi, montenegrini, disertori austriaci, studenti slavi e altri volontari.
Il 20 agosto, raggruppati in una unità di cinquanta uomini armati solo di fucili, ricevettero l’ordine di presidiare l’altura di Borna Gora e difenderla in attesa dell’arrivo dell’esercito regolare. Respinto l’assalto austriaco, passarono a presidiare la posizione dell’adiacente collina di Babina Glava. Il nuovo attacco austriaco fu più serrato, e per ore i volontari riuscirono a tenere la posizione, finché nella foga dell’attacco gli italiani scesero di corsa la collina e dopo qualche ora due pattuglie serbe li ritrovano crivellati di colpi.
Il primo a cadere, colpito al petto e ucciso all’istante, fu Francesco Conforti. Poco distante Cesare Colizza, già ferito e prima di essere raggiunto da una seconda scarica che lo uccise, riuscì a ordinare al fratello Ugo di tornare indietro giacché per lui non c’era più nulla da fare. Caddero anche Bucca, Corvisieri e Goretti, uno ad uno senza voltare le spalle e con il fucile ancora in mano: “i primi cinque caduti italiani della Grande guerra”. Rimasero vivi solo in due, Ugo Colizza e Arturo Reali, che lottando all’arma bianca riuscirono a disimpegnarsi e a raggiungere il gruppo di fuoco alle loro spalle e così poterono testimoniare l’accaduto.
A Babina Glava – nell’attuale Montenegro – quella cinquantina di combattenti infine, mantenne impegnata un’intera brigata di montagna austriaca fino all’arrivo dell’esercito regolare serbo, il cui comandante Popovitch ordinò che ai cinque caduti italiani fossero resi tutti gli onori militari. Ugo Colizza tornò in seguito a cercare il corpo del fratello che aveva sepolto temporaneamente in un canneto, ma non riuscì mai più a ritrovarne i resti dei caduti e quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra contro gli imperi centrali, partì volontario assieme a Arturo Reali. Entrambi sopravvissero all’ecatombe, anche se Arturo Reali si procurò una mutilazione.
In Italia, l’eco del sacrificio dei cinque giovani fu enorme ed impattante, specialmente a Roma, dove ci furono pubbliche manifestazioni di commemorazione e cordoglio. Furono i primi volontari e i primi caduti italiani della prima guerra mondiale: “I primissimi” come li chiamò il giornalista Giovanni Ansaldo in un suo articolo pubblicato sul Mattino di Napoli del 21 agosto 1964 – nel cinquantesimo anniversario della loro impresa – chiedendosi cosa li avesse spinti a lasciare la comoda Roma per andare a morire in qualche disperata sassaia serba in una guerra nella quale il loro paese non era ancora coinvolto.
Finita la guerra, nel cimitero di Belgrado fu eretto un monumento a ricordo dei cinque volontari garibaldini caduti a Babina Glava con testo bilingue italo-serbo e in Italia, nella piazza del Municipio di Marino fu affissa un’epigrafe commemorativa e finalmente, nel 1838, fu loro conferita la Croce al Merito di Guerra alla memoria: forse troppo poco e forse troppo tardi, così come in seguito è stata troppo poco raccontata quell’incredibile e assolutamente emblematica quanto nobile impresa di quei sette giovani patrioti italiani che, circostanza volle, partisse proprio da Brindisi.
Ma probabilmente non fu solo il caso a determinare quel protagonismo di un porto, quello di Brindisi, che se pur arci-famoso per esser passato alla storia quale punto di partenza delle tantissime armate romane, repubblicane e imperiali, volte all’inarrestabile conquista di tutte le terre orientali conosciute, seguite dalle più modeste ma ugualmente offensive armate dei Normanni e degli Angioini anch’esse salpate alla conquista delle coste prospicenti, fu nel tempo anche il porto di partenza e di arrivo per numerose missioni di solidarietà con tutte quelle genti, così orientali e così vicine, di fatto dirimpettaie: da tutte quante quelle già qui citate in aiuto all’emancipazione dei Greci, degli Albanesi dei Bosniaci e dei Serbi, alle tante altre non qui citate, fino a quella epica passata alla storia come “il salvataggio dell’esercito serbo” nell’inverno 1915-1916, al cui perenne ricordo è la grande epigrafe marmorea apposta sul lungomare brindisino.