I bracconieri esistono ancora: uccelli cacciati anche nelle oasi protette

Quando sentiamo usare il termine “bracconaggio”, inevitabilmente, la nostra mente prende il volo verso paesi lontani: pensiamo alle mattanze dei grandi mammiferi negli immensi parchi nazionali africani, i cui confini sono strenuamente e quasi romanticamente difesi da pochi rangers male equipaggiati che, a costo della propria vita, difendono quella di elefanti, rinoceronti e gorilla o, al più, agli spietati cacciatori di orsi ed ungulati che ancora imperversano sulle Alpi.
Siccome il bracconaggio, tecnicamente, è la caccia illegale o di frodo: vale a dire fatta in tempi o luoghi o modi non consentiti o senza regolare licenza e che nello stesso concetto giuridico è compresa anche la cosiddetta “uccellagione”, cioè la pratica di catturare vivi gli uccelli selvatici con trappole, reti, lacci o spargendo colle o altre sostanze vischiose su rami e altri supporti dove questi animali si vanno a posare per intrappolarli, allora è evidente che è un fenomeno assai più diffuso e molto più vicino a noi di quanto siamo portati a pensare.
A ciò si aggiunga che ai sensi di legge (art.1 L.157/1992): “La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale e internazionale” il che significa che, salvi casi particolari, nessun animale può essere ucciso o prelevato in natura, per cui anche catturare un anatroccolo in uno stagno o tirare con una fionda a un fringuello è reato.
È proprio dell’altro giorno la notizia dell’arresto di una coppia di bracconieri, padre e figlia, che, proprio a Brindisi, in pieno blocco pandemia, al di fuori del periodo in cui è consentito cacciare e, per di più, in una parco naturale regionale dove è interdetta in maniera assoluta qualsiasi attività venatoria e ogni genere di prelievo di animali, avevano catturato uccelli di specie protetta.
Nel corso della brillante operazione condotta da una pattuglia dei Carabinieri Forestali di Brindisi in servizio nei pressi delle Saline di Punta della Contessa, i militari notavano un fuoristrada che, sotto una pioggia battente e attraverso tratturi accidentati, si allontanava dalla zona degli stagni verso il capoluogo. Dopo essere stata seguita con circospezione, l’auto è stata bloccata nei pressi di uno svincolo sulla tangenziale ed al suo interno i militari hanno rinvenuto un Piro piro e tre Gambecchi (uccelli limicoli che predilicono le paludi). Dopo le formali operazioni di sequestro ed accertato il loro buono stato di salute, gli animali sono stati rimessi in libertà nel loro habitat naturale.
Questa operazione fa il paio con altra analoga di qualche tempo fa quando, in un furgone, fermato dai Carabinieri sulla SS379, furono rinvenuti dieci esemplari di Piovanello, diciassette di Piro piro, quindici di Gambecchio, due di Corriere rosso ed un Piovanello pancianera; anche in questo caso si trattava di uccelli acquatici superprotetti, prelevati illegalmente alle Saline di Punta della Contessa.
In questo secondo caso i bracconieri provenivano addirittura dalla Campania ed il carico era di una certa rilevanza. Anche in questo caso è stato possibile restituire la libertà alle bestiole.
Visto il ripetersi di tanti episodi di bracconaggio all’interno delle Saline, c’è da porsi qualche interrogativo sul perché, da anni, questa stessa zona è preda di continui atti illeciti di ogni genere, dalle gare abusive di motocross (un paio di mesi addietro fu scoperto addirittura il tracciato di una pista abusiva che aveva completamente stravolto ettari di parco) alle stragi di lepri, quaglie, tordi e fagiani ad opera di soggetti provenienti anche da altre province, fino agli atti di vandalismo come la devastazione della appena ristrutturata Masseria Villanova, che avrebbe dovuto fungere da centro visite del parco. Capita anche che alcuni esemplari di specie rare finiscano nel circuito della tassidermia illegale (è sempre illegale quando riguarda specie protette), per cui gli animali vengono uccisi per essere imbalsamati e venduti ai collezionisti di questo genere di macabri trofei.
Eppure ci troviamo in un’area protetta di grande rilevanza naturalistica dove tutto ciò non dovrebbe accadere. il Parco Naturale Regionale Saline di Punta della Contessa è stato istituito con la Legge Regionale n°28 del 23.12.2002, ma già dal 1983 è un’oasi di protezione della fauna proprio per la incredibile ricchezza della avifauna, non solo migratoria, che la popola. Da censimenti effettuati negli ultimi 15 anni risultano presenti ben 114 specie avifaunistiche, di cui 44 inserite nell’Allegato I della Direttiva 79/409/CEE e quindi meritevoli di particolare protezione e salvaguardia ambientale (ad esempio: il Tarabusino, la Sgarza ciuffetto l’Airone bianco maggiore, l’Airone rosso, il Mignattaio, il Fenicottero, la Spatola, il Falco di palude, il Falco pescatore, il Cavaliere d’Italia, l’Avocetta, il Fraticello, il Gufo di palude). Inoltre, il parco delle Saline è anche Sito di Importanza Comunitaria per la presenza di due habitat prioritari come le lagune costiere e le steppe salate mediterranee, entrambi obiettivi di misure comunitarie di conservazione essendo a rischio di scomparsa nel territorio dell’Unione Europea ed è anche Zona a Protezione Speciale ai sensi della Direttiva 79/409/CEE, per la presenza di specie di uccelli d’interesse comunitario.
Acclarato che le leggi ed i regolamenti per una piena tutela di questo vero e proprio tesoro naturalistico posto fra la Zona Industriale di Brindisi e la Centrale Termoelettrica a carbone di Cerano, bisogna cercare di capire cosa non sta funzionando nella sua gestione (meglio sarebbe dire non gestione) a distanza di quasi venti anni dalla sua elevazione a Parco Naturale Regionale e dalla Regione Puglia affidato al Comune di Brindisi. È sotto gli occhi di tutti che l’assenza di un piano del parco e la mancata creazione di un organo che possa realmente gestirlo con personale qualificato anche per garantirne la vigilanza, la fruizione e la valorizzazione, ha lasciato questa importante area, ancor più interessante dal punto di vista naturalistico della tanto decantata Torre Guaceto, nel più completo abbandono ed in balia dei razziatori
Un tempo, neanche troppo lontano, era la Polizia Provinciale ad effettuare, con uomini motivati e ben addestrati, a vigilare oltre che a reprimere questi fenomeni, dacchè con la famigerata riforma Delrio si ebbe la poco lungimirante idea di demansionare le Amministrazioni Provinciali – in un più ampio disegno di abolizione di tale Ente, poi riposto nel cassetto – molti suoi compiti vennero affidati alla Regione che, come è risaputo, non ha neanche un vero e proprio organo di polizia, e si è creato un grande vuoto proprio nel settore della vigilanza sulla fauna selvatica e nel contrasto al bracconaggio. In tal modo è andato disperso un gran patrimonio di uomini, conoscenza del territorio ed esperienza, che per decenni aveva fattivamente contrastato il bracconaggio.
Nel corso di una gustosa chiacchierata con un amico per anni impegnato, sul campo, nella tutela della fauna, sono venuto a conoscenza di tutta una serie di fatti e circostanze che rendono ancora più encomiabile e per molti versi eroico, il lavoro svolto fino a cinque anni addietro da questi angeli custodi delle bellezze del creato.
Gli appostamenti notturni nelle paludi o nei boschi nei pressi di trappole e richiami piazzati dai bracconieri per coglierli in flagranza all’alba, il coraggio nell’affrontare o inseguire gente priva di scrupoli ed armata, l’ottimo rapporto di stima e amicizia con gli abitanti delle zone rurali, che fungevano da sentinelle per segnalare le azioni sospette dei malintenzionati, ma anche la fattiva collaborazione con i cacciatori ligi ai regolamenti (che sono la maggior parte) e le associazione venatorie, per combattere un fenomeno che gettava una cattiva luce sull’intera categoria.
Fra i vari metodi di caccia di frodo, ne ho appresi un paio molto crudeli di cui ignoravo l’esistenza.
La caccia con la iacca, assai in voga negli anni cinquanta e già da allora vietata, ma ancora praticata fra Villa Castelli e Ceglie Messapica, in cui si attende una serata con vento di scirocco e ci si attrezza con lampada, racchetta di legno e sacco, ben sapendo che col vento forte gli uccelli riposano sui rami più bassi di alberi e cespugli; una volta abbagliate con la luce, le povere bestiole vengono colpite violentemente attraverso le fronde: aspetto particolarmente crudele è che, raccolti gli esemplari di interesse culinario, gli altri vengono lasciati per terra agonizzanti in attesa di qualche altro predatore che ponga fine alle loro sofferenze.
La caccia con la chianca, anche essa, come tutti i metodi efferati, assolutamente illegale, si pratica utilizzando pietre lisce o mattoni che vengono sollevati, in equilibrio precario, con un bastoncino, si sistemano sotto un piccolo contenitore di acqua e delle molliche di pane che fungono da esca: quando il malcapitato uccellino, attratto dal cibo e dall’acqua, va a becchettare lì sotto, basta un piccolo movimento e finisce schiacciato sotto la chianca: quasi mai muore sul colpo ma resta per ore agonizzante fino al ritorno del bracconiere che va a raccogliere i frutti del suo reato.
Notevole è anche il contrasto ai trafficanti di cardellini (specie protetta e che non si può né cacciare né detenere in gabbia) molto richiesta specialmente nel napoletano dove il suo traffico è fiorente per le doti canore, per cui i bracconieri percorrono centinaia di chilometri in auto, con reti e richiami registrati o vivi (cioè un cardellino rinchiuso in una gabbietta o, addirittura, legato ali e zampe, che con il suo cinguettio disperato richiama decine di suoi simili) per rifornire questo traffico illecito.
Niente a che vedere, sia come numeri che come impatto sulla natura, con le decine di migliaia di pettirossi che in alta Italia, nonostante i divieti, vengono massacrati in quanto ingrediente principe nella popolare ricetta “polenta e osei”, stessa sorte anche per beccafichi ed allodole.
Sono stati centinaia i bracconieri fermati e denunciati dalla polizia provinciale, tantissimi i sequestri di fucili, a volte detenuti illegalmente o con le matricole abrase, e di trappole sequestrate e migliaia gli animali restituiti alla libertà o raccolti feriti e affidati a chi potesse curarli.
Intensa è stata anche la collaborazione – oltre la coabitazione, dato che ad Ostuni era condivisa la stessa sede operativa – fra la Polizia Provinciale ed il Centro Fauna Selvatica della Provincia di Brindisi, che, grazie a Dio, è riuscito a resistere alla falcidia della riforma Delrio e può continuare ad operare in maniera molto utile e proficua grazie ad una convenzione con la Regione Puglia.
Va evidenziato che non sempre i crimini contro gli animali sono commessi da bracconieri e che a volte capita che a rimetterci letteralmente le penne o ad essere feriti siano rari esemplari di fauna protetta, presi di mira da gente disturbata mentalmente per dar sfogo al puro gusto sadico di uccidere e che vuole in tal modo affermare i propri deliri e le proprie frustrazioni.
Infatti, nei centri dedicati alla cura della fauna selvatica rinvenuta in difficoltà, tra le cause del ricovero vi sono spesso le lesioni causate da arma da fuoco, non riconducibili alle vere e proprie azioni pianificate di bracconaggio che hanno origine da altro genere di interesse. Non si tratta di specie cacciabili (ovvero quelle previste, per Legge, nel calendario venatorio, da settembre a gennaio), ma di specie assolutamente non confondibili con quelle di interesse venatorio. Per averne un’idea più precisa abbiamo interpellato la dott.ssa Paola Pino d’Astore, responsabile del Centro Fauna Selvatica della Provincia di Brindisi, che ha iniziato ad operare nel territorio provinciale a partire dal 2001, la quale ben conosce la situazione: “Fratture e ferite da arma da fuoco si registrano tutti gli anni come una delle cause di ricovero soprattutto di rapaci diurni come il Gheppio, la Poiana, lo Sparviere, con qualche caso ancora più sconcertante che riguarda l’Aquila minore ed il Biancone o Aquila dei serpenti. A queste specie, tutte rigorosamente protette da normative nazionali ed internazionali, se ne aggiungono altre appartenenti al gruppo degli aironi come l’Airone cenerino e l’Airone guardabuoi o al gruppo dei corvidi, come la Taccola. Dall’esame radiografico possiamo distinguere se l’esemplare è stato colpito da un fucile da caccia, per la presenza di diversi pallini, oppure da un fucile ad aria compressa usato per il tiro al volo ed in questo caso troviamo un solo e grande piombino. I danni causati dall’arma da fuoco sono così devastanti che solo la minima parte degli uccelli colpiti riesce a superare la fase riabilitativa nelle strutture di cura a loro dedicate e quindi a ritornare liberi ed abili, in ambiente naturale. Da segnalare è che l’uso di fucili ad aria compressa avviene anche in pieno centro urbano”.
Insomma, sia che si tratti di bracconaggio che di sadismo, sia fatto per arricchimento o per crudeltà, si tratta di fenomeni ancora molti diffusi da noi e che seminano morte e sofferenza fra gli animali selvatici e che vanno assolutamente sradicati dal nostro territorio
Meno male che almeno il vecchio Corpo Forestale dello Stato, da sempre baluardo a difesa di boschi, parchi, foreste ed animali selvatici, di recente assorbito dall’Arma dei Carabinieri, pur oberato di lavoro per il perseguimento e la repressione dei vari reati in materia ambientale (rifiuti, emissioni inquinanti, discariche abusive, ecc.) continua a porre un argine a questi fenomeni, grazie all’abnegazione dei carabineri-forestali che, magari viaggiando ancora a bordo delle vecchie Fiat Panda verdi, continuano ad essere uno spauracchio per i nemici della natura.