di Marina Poci
Se la sua vita fosse un film, dietro la macchina da presa vorrebbe Federico Fellini. Onirico, malinconico, delicato e ironico: così gli piacerebbe il lungometraggio che riassume la sua vita da cinematografaro di provincia. E sospeso tra fantasia e realtà, esattamente come si sente lui, gli piacerebbe che fosse il racconto della sua attività a servizio della settima arte. E forse non ha tutti i torti: nessuno, meglio del maestro riminese quattro volte premio Oscar (cinque, se si conta quello alla carriera), potrebbe portare sullo schermo la leggerezza e la stravaganza di un proprietario di cinema che consente di sedersi in sala anche a chi arriva accompagnato da due cagnolini, o posticipa la proiezione di un quarto d’ora, pur di permettere a due spettatori che stanno per chiudere la propria attività commerciale di gustare la visione del film dall’inizio alla fine.
Tutto questo, e molto di più, è Vito Antonio Becci, settantaquattro anni, titolare del Nuovo Cinema Paradiso di Erchie, tre sale (una delle quali da ben duecento posti) per poco più di ottomila abitanti, uno che i film di successo e di valore li fiuta prima ancora che il successo sia decretato dai botteghini delle multisala e il valore sia riconosciuto dalla critica di alto livello.
Per questo, quando ha riaperto le sale del Paradiso dopo mesi di chiusura, ha iniziato col botto, cioè proiettando C’è ancora domani, con Paola Cortellesi autrice, regista e interprete della pellicola alla fine della quale il pubblico in tutta Italia applaude, si commuove e riflette. “E alla fine mi sono commosso anch’io, a fine spettacolo. Abbiamo avuto moltissimi spettatori, il passaparola sta funzionando alla grande. Penso sia un film che tutti dovrebbero vedere, perché racconta la condizione della donna com’era e qualche volta com’è ancora”, dice. “Sono del ’49, quindi quello che si vede sullo schermo non l’ho vissuto in prima persona. Però ne ho sentito parlare, da mia madre principalmente. In casa mia le situazioni estreme che Paola Cortellesi è stata così brava a descrivere non sono mai esistite, per quei tempi mio padre, attivista socialista, era un uomo di idee molto aperte, solo un po’ possessivo nei confronti delle mie tre sorelle maggiori”, aggiunge.
Proprio da quel padre che lo ha educato al senso profondo della libertà e che nei primi anni Cinquanta prese in locazione un piccolo locale di Erchie per proiettare film, gli è derivata la fascinazione per l’arte del racconto cinematografico, l’attrazione per il fascio di luce che usciva dal proiettore e si stagliava sullo schermo rivelando magie, anche se i colori ancora non c’erano e li si poteva soltanto immaginare: “Mio padre si innamorò della settima arte. E io me ne innamorai insieme a lui e a mia sorella Anna, che con me ancora si occupa dell’attuale Paradiso. Era un posto di dimensioni piccolissime. Ho perso il conto dei film visti in quella saletta, sicuramente il primo è stato qualcosa del genere cappa e spada. Non eravamo ricchi, ma sognavamo. Gli altri miei amici avevano da mangiare, io avevo il cinema”.
Un’infanzia non ricca, ma felice e, forse, mai conclusa del tutto, visto che – ama ripetere – “sono diventato nonno, ma non so se sono realmente cresciuto. Il carissimo Peter Pan continua a vivere in me e non ho proprio intenzione di metterlo da parte. E le confido un segreto: sono quasi convinto che non invecchierò mai”.
Da quella piccola saletta dove adesso c’è una farmacia, al cinema Verdi, poi diventato un supermercato, che per un certo periodo funzionò addirittura contemporaneamente ad un’altra sala, sempre gestita da lui: i passi, prima di arrivare all’attuale Nuovo Cinema Paradiso sono stati parecchi e non sempre fortunati, ma “a che servono i soldi, quando hai i sogni?”, si chiede candidamente Becci e la risposta a una domanda che non può che essere retorica è in quella sala dalle poltrone un po’ demodé e in quell’atrio in cui non manca mai un fiore fresco (“adesso c’è la rucola selvatica, non ha senso comprare i fiori coltivati quando la natura ci offre ogni giorno dei regali inestimabili”). Proprio quella seconda sala restò chiusa per molti anni prima del colpo di reni che portò Becci a riaprire, dopo aver visto il film di Tornatore al cui titolo è ispirato il nome del cinema: “Tornatore aveva parlato di me, della mia vita di bambino curioso e appassionato in compagnia di papà dietro al proiettore. Non potevo che dedicare al suo atto d’amore per il cinema il luogo che più amavo al mondo. Una decina di anni dopo, ricavai altre due sale da cinquanta posti ciascuna in uno spazio che avevo lasciato libero. Sa’, ci sono film che hanno bisogno di ambienti più intimi. Riconoscerli e proiettarli nelle sale più piccole fa parte del mio lavoro”, aggiunge ancora.
Se gli si chiede se soffra la concorrenza delle multisale, si stringe nelle spalle e si limita a commentare che no, non vive i colossi in questo modo, perché il suo Paradiso risponde ad esigenze completamente diverse: “Ha mai sentito il proprietario di una multisala dire ad un cliente che ha difficoltà ad arrivare da un paese vicino “non si preoccupi, vengo a prenderla io, oppure mando qualcuno dei miei”? Ecco, io invece lo faccio. È questo che da sempre ho fatto. Nelle mie sale gli spettatori non sono mai stati un numero, sono sempre stati persone. Siamo stati non soltanto un cinema, ma un vero e proprio luogo di aggregazione, non soltanto giovanile. Qui c’erano rassegne, spettacoli musicali, veglioni di Carnevale, eventi che attiravano in sala più di mille persone. Nemmeno so come riuscissero a starci. Sa che le dico? La storia dei cinematografari è per definizione una storia triste, soprattutto negli ultimi anni. Ovunque i piccoli cinema e i piccoli teatri chiudono per lasciare il posto ai grandi colossi. Tutto sommato, io sono un vincente: ho qualche altra entrata economica, perciò posso ancora permettermi di aprire una sala per pochi spettatori, come è accaduto di recente. Altri miei colleghi, non potendo farlo, hanno mollato definitivamente”, continua.
Cinematografaro, si definisce, eppure ha anche altre passioni culturali e artistiche: “Sono un discreto presepista e, se mi posso permettere, anche un ottimo cantautore di ballate. Sono stato una prima voce in un coro di duecento voci bianche, avrei voluto imparare a suonare il pianoforte, ma non ho avuto la costanza. Amo la scuola genovese, Tenco, Paoli, Lauzi, anche se la mia musica è molto personale, non ho mai puntato all’emulazione. Adesso sono in procinto di incidere una nuova ballata intitolata “So’ salentinu”, manca poco perché sia ascoltabile da tutti”.
Dopo una vita dedicata all’arte più onirica che c’è, non ha esaurito i sogni, Vito Antonio Becci: gli piacerebbe proiettare nelle sue sale i grandi classici del Neorealismo, i capolavori di Fellini, i film di Pasolini, così incompresi dal pubblico e dalla critica. “Della parola cultura ci si riempie la bocca, ma poi sono in pochi a lavorare per realizzare progetti culturali solidi. Però non ho perso la speranza di vedere dalle mie poltrone Le notti di Cabiria. C’è ancora tempo, il buon cinema non invecchia mai. E nemmeno io”, conclude.
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