L’occasione o la scusa, che dir si voglia, per andarci a fare una calata in mare in pieno inverno, è stata quella di cercare di recuperare la statuetta della natività che collocammo, proprio alla vigilia di Natale, in una grotticella sottomarina, a pochi metri di profondità, sulla costa a nord di Brindisi, fra la Conca di Materdomini ed il Serrone.
Fra l’altro, era una vecchia tradizione brindisina quella di togliere il presepe dalle case nella settimana della Candelora, che è il nome con cui è universalmente conosciuta la festa cristiana della presentazione del bambino Gesù al Tempio ed il cui nome deriva dal fatto che è l’occasione in cui si benedicono in chiesa le candele.
Molti i detti popolari che si rifanno a questa festa, fra cui quello arcinoto che recita: alla Candelora dall’inverno semo fora, ma se piove o tira vento nell’inverno semo dentro, che in pratica dice tutto ed il contrario di tutto.
Il giorno della Candelora, infatti abbiamo avuto un tempo quasi estivo, con sole caldo, cielo terso e neanche una bava di vento, ma nei giorni immediatamente successivi, altro che dell’inverno semo fora, è tornato prepotentemente a farsi sentire il generale Inverno!
Approfittando, però, del tempo mite di giorni precedenti ed anche se non nutrivamo molte speranze di ritrovare la Sacra Famiglia, dal momento che da dodici anni a questa parte o per colpa di qualche violenta mareggiata o per mano sacrilega di qualche subacqueo malandrino, o per chissà quale altra ragione, del presepe sottomarino si era sempre persa ogni traccia, tanto da costringerci ad acquistarne uno nuovo ogni Natale, ci siamo organizzati per compiere questo tentativo.
Avendo il maestrale concesso un breve tregua, nonostante la temperatura rigida dell’acqua, il solo Antonello Quitadamo risponde presente al mio appello, mentre gli altri amici sub si danno alla latitanza, preferendo, evidentemente, il calduccio delle loro case.
Assemblata l’attrezzatura a riva e calatici in mare dalla scogliera, dopo poche pinneggiate verifichiamo, quasi stupiti, che questa volta San Giuseppe, la Vergine Maria ed il Bambinello sono al loro posto, in mezzo ad una nuvoletta di nere castagnole che gli nuotano attorno, ben assicurati alla roccia da ben quattro giri completi di filo di ferro a prova di mare forza 8.
Senza bisogno neanche di scambiarci un segno od un cenno, decidiamo di lasciare lì la Sacra Famiglia e concederci un giretto, tanto per non perdere il vizio.
Va detto, a beneficio di chi non frequenta gli abissi o, comunque, non li frequenta in quella che comunemente viene chiamata brutta stagione, che il mare di inverno ha un fascino tutto particolare per quei pochi intimi che hanno la fortuna e l’opportunità di poterlo contemplare.
Avendo, poi, la fortuna di abitare in una città di mare come Brindisi, affacciata sull’Adriatico ed in una penisola, come quella salentina, bagnata anche dal mar Jonio, si può dire che non esiste giorno in cui, qualunque sia il vento che tira, non si riesca a trovare una caletta riparata da dove immergersi, estate, autunno, inverno o primavera che sia.
Ed è proprio di inverno che è possibile dedicarsi ad un genere di immersioni più particolari come quando, ad esempio, già si sa che la visibilità non sarà ottimale per cui si ripiega su giretti più tranquilli e lenti, alla ricerca non già di paesaggi sottomarini mozzafiato, grandi scogliere colonizzate da spugne giganti o il passaggio di grandi pesci pelagici, bensì concentrandosi di quanto di più piccolo, ma ugualmente affascinante e meraviglioso, il nostro mare custodisce a beneficio di chi ha la pazienza di saper cercare.
Mi riferisco, ad esempio, ai tanti cavallucci marini che, proprio in questa stagione è più facile incontrare sia nel basso Adriatico ma in misura nettamente maggiore nel vicino Jonio e che nel mese di febbraio, quando si stanno avvicinando al periodo riproduttivo ed agli accoppiamenti, sfoggiano le loro livree più variopinte e colorate: è capitato, proprio l’altra sera di beccare ben tre cavallucci abbarbicati su un vecchio ferro arrugginito posto a neanche due metri di profondità e, lì vicino, un altro esemplare di un bel rosso corallo.
Il cavalluccio marino, o Ippocampo, parola composta derivante dal greco Hippos (cavallo) e Kampos (mostro marino) è la creatura sottomarina che maggiormente preferisco e che, fin da piccolo, ha colpito la mia fantasia, con la sua forma un po’ naif di pesce con testa di cavallo, la coda prensile ed una corazza ossea che ricorda le armature di cavalli e cavalieri nei tornei medioevali. Per gli antichi greci erano delle creature mitologiche di cui si servivano gli dei per attraversare gli abissi e, non a caso, in più di qualche antica pittura il carro di Poseidone, il re del mare (per gli antichi romani Nettuno) era trainato e scortato da Ippocampi montati da Tritoni e Nereidi.
Ogni volta che ne vedo uno non posso non pensare, con dolore, alla piccola colonia di cavallucci marini che fino ad un paio di estati fa stazionava sul fondo di una parete rocciosa a sei metri di profondità a lato della Conca di Materdomini, letteralmente svanita nel nulla dopo che degli sconsiderati pescatori di frodo di datteri di mare hanno martellato, deturpandola per sempre, proprio quel tratto di scogliera, per saccheggiarla di quel prezioso quanto vietato mollusco bivalve che vive conficcato nella roccia calcarea.
Ma torniamo alle cose belle ed alla descrizione di quanto incontro nei nostri mari in inverno: a saper cercare bene e con la dovuta calma, è proprio in questo periodo, quando la temperatura del nostro mare tocca il suo minimo attestandosi poco sopra i 10°, che si possono vedere in gran quantità svariati Nudibranchi, questa volta la parola deriva non solo dal greco, come nel caso dell’Ippocampo, ma per metà anche dal latino nudus (nudo) e dalla parola greca brankhia (branchia), e significa, letteralmente, con le branchie nude, cioè con il ciuffo branchiale esterno e bene in mostra.
Si tratta di lumachine prive di conchiglia protettiva e dai mille colori o, come piace chiamarli a me – dopo aver sentito per la prima volta questa espressione dall’amica Rossella Baldacconi, tarantina dottoressa in scienze ambientali, indirizzo marino, ricercatrice, bravissima fotografa subacquea ed autrice di diversi libri – arlecchini di mare, proprio per evidenziare la prima caratteristica che di questi piccolissimi animaletti, che a volte non raggiungono nemmeno la dimensione di un centimetro, balza agli occhi a che si avvicina al loro mondo.
A volte basta ispezionare con attenzione pochi metri quadrati di scogliera o un vecchio palo delle cozze o una spugna incrostanti per vedere sbucare dal nulla le antennine ed il ciuffo branchiale di questi graziosi animaletti che, oltre ad essere coloratissimi, sono anche estremamente tossici e grazie a questa tossicità, di cui il colore rappresenta una sorta di campanello di allarme per i possibili predatori, riescono a sopravvivere.
Anzi, a dirla tutta, nel loro piccolo, sono gli arlecchini di mare ad essere dei terribili predatori carnivori che si avventano con voracità su spugne, idrozoi, anemoni, briozoi, ma anche uova di altri animali marini. Fra le più belle che mi capita comunemente di incontrare, specie nelle immersioni sottocosta invernali sia a Brindisi che nella altre zone del Salento, c’è la Felimida luteorosea, detta comunemente cromodoride a pois gialli in quanto i vistosi pallini gialli che risaltano sul corpo viola orlato ancora di giallo, non può non colpire l’attenzione.
Molto bella e particolare ma, decisamente, più rara, risulta essere la Polycera quadrilineata, il cui corpo candido-perlaceo è attraversato longitudinalmente da alcune striature tratteggiate color giallo, per cui quando mi è capitato di vederne e fotografarne più di qualche esemplare in un unico contesto, sono stato davvero felice.
Molto belle e relativamente comuni anche la Flabellina rosa e la Cratena peregrina, entrambe con il corpo allungato.
Il nudibranco più raro che mi è capitato di incontrare – due sole volte in quasi mille immersioni – è sicuramente la Tecacera Pennigera il cui corpicino bianco è picchettato da mille colori ed è considerato, a buona ragione, il mollusco più bello di tutto il Mediterraneo
Mi piace riportare, letteralmente, le “istruzioni per l’uso” del noto subacqueo e documentarista Claudio Di Manau a proposito dell’incontro con questi strani esserini colorati che sembrano provenire da un’altra galassia: “Per scorgere i nudibranchi è necessario procedere lentamente, con calma e prestando molta attenzione al fondale, cercandoli là dove banchettano, su spugne e coralli. Oppure nei punti riparati dalla corrente. Creature così lente e per lo più incapaci di nuotare prediligono i punti meno sferzati dalle correnti marine. Osservare queste piccole creature è un po’ come gettare l’occhio su un altro mondo. Per riuscirci è necessario muoversi lentamente, come astronauti. In fondo andare sott’acqua spesso è come andare nello spazio. E proprio nel mare la creatività dell’evoluzione supera quella di un qualsiasi scrittore di fantascienza”.
Con un po’ di fortuna si riesce ad incontrare di tanto in tanto anche il curioso Pesce ago, un tempo molto diffuso nel nostro mare, dalle incredibili doti mimetiche sicchè spesso è quasi impossibile distinguerlo quando si trova in mezzo alla di Posidonia.
Tutt’altro genere di animale, che sembra un bellissimo fiore di questo giardino di inverno, ma in realtà è un verme addirittura simile al terricolo lombrico, è lo spirografo, il soggetto preferito dai fotografi subacquei, sia quelli alle prime armi che i professionisti: questo verme all’interno di un tubo di consistenza cartacea che è prodotto dall’animale stesso e dentro cui si ritira in caso di pericolo, la sua somiglianza con un fiore è dovuta alle branchie filiformi ricoperte di ghiandole mucose, la cui funzione è anche quella di catturare le particelle alimentari ed è proprio di inverno, quando l’acqua è gelida che questi animali dalla forma di fiore danno il meglio di sé apparendo in tutto il loro gagliardo splendore.
Questo e tanto altro la natura benigna riserva a chi si avvicina al mare anche in quella che, a torto, viene definita la brutta stagione.