Il Palazzo del Seminario, monumento brindisino al Barocco

Il Palazzo del Seminario di Brindisi è il più dignitoso ed emblematico edificio dell’architettura settecentesca brindisina, opera che può considerarsi un retaggio degli arcivescovi spagnoli nella nostra città.
Brindisi fu una delle prime diocesi dell’Italia meridionale a dotarsi di un istituto ecclesiastico nel quale gli aspiranti preti ricevevano la formazione culturale e spirituale necessaria al ministero sacerdotale, fu infatti nel 1608 l’arcivescovo Giovanni Falces, che durante i suoi trent’anni di episcopato aveva introdotto anche l’arte della stampa, a mettere in pratica le disposizioni del Concilio di Trento del 15 luglio 1563: quel giorno, durante la XXIII sessione del concilio, i vescovi votarono all’unanimità il decreto “cum adolescentium aetas”, approvando il provvedimento di rilevanza epocale che istituiva i seminari in ogni diocesi, e dotava la Chiesa di uno strumento per la cura delle vocazioni al sacerdozio ordinato.
Il primo seminario “de chierici”, fondato dal Falces, col fine di disporre “all’educazione dell’ecclesiastica disciplina la deviata gioventù della diocesi tutta”, ebbe sede nei locali adiacenti l’episcopio acquistati dal prelato, ritenuto poi inadatto dal suo successore Francesco de Estrada che preferì affidare la formazione dei futuri preti al collegio delle Scuole Pie. L’edifico, “languente e rimasto derelitto” dopo la morte di Falces, fu completato e inaugurato da un altro vescovo spagnolo, Francesco Ramirez, ma la sede non fu considerata “né comoda né convenevole” dall’arcivescovo Pablo Giuseppe Francesco Raymundo y Camerasa de Vilana Perlas, anch’esso iberico, che pensò di risolvere definitivamente l’annosa questione nei primi mesi del 1720.
Da quattro anni sulla cattedra brindisina, il presule originario di Barcellona decise di acquisire altri locali adiacenti l’episcopio, affidando il compito al procuratore del Seminario, il canonico brindisino Francesco Morales, che comprò gli immobili a lato e dietro il palazzo arcivescovile di proprietà delle vedove Francesca Antonia Cuggiò e Angela Colletta, da Antonio Greco, Leonardo Turi e dai fratelli Leonardo e Vito Sergio. Una volta “spianati” offrirono l’area sulla quale la mattina del 27 maggio del 1720, il giorno dopo la benedizione, si pose la prima pietra del nuovo Seminario. Oggi, sulla chiave di volta sopra l’ingresso, si vede inciso proprio l’anno di avvio dei lavori di costruzione.
L’incarico per l’intero progetto venne affidato all’architetto e scultore salentino Mauro Manieri, noto esponente del barocco leccese e autore di opere come i prospetti del duomo di Taranto e della chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo a Lecce. L’avvio dei lavori divenne un avvenimento importante nella vita sociale ed ecclesiastica della città, un evento degno di una epigrafe latina riferita al noto e apprezzato storico e giurista Ortensio De Leo, che allo stesso tempo criticò “l’imprudente ed eccessivo zelo” di Mons. Paolo de Vilana Perlas per aver ordinato la demolizione della basilica dedicata a san Leucio, eretta nel IX secolo nella contrada Cappuccini, da cui furono cavate le pietre e i marmi bianchi per la costruzione del nuovo seminario. La decisione fu presa in quanto nel tempio, ormai abbandonato e in rovina, era noto si compissero pratiche di stregoneria.
Per realizzare il programma edilizio, l’arcivescovo catalano aveva investito circa trentamila ducati del suo patrimonio personale e, secondo lo storico Michele Paone, il presule finanziò l’impresa non tanto per una “finalità di comodità e di decoro”, piuttosto “eccitandone l’emulazione” per quanto avevano già fatto i suoi colleghi di Taranto, di Lecce, di Nardò e di Gallipoli. L’idea del Perlas era, sempre secondo l’opinione dello studioso, quella di elevare un edificio “simbolo dei tempi nuovi e di una modernità che si ispirasse a modelli romani, borromiani, e al gusto artistico ufficiale”, da inserire tra gli edifici medievali presenti sulla piazza del Duomo. Il seminario di Brindisi, disposto in diagonale rispetto all’asse del palazzo arcivescovile come per proteggere “la zona più spirituale della città da quel disturbo arrecato dalla convergenza di troppe strade”, in effetti richiama le fabbriche romane dell’Oratorio dei Filippini e del Collegio de Propaganda Fide: da entrambi le fabbriche il Manieri “trasse lo schema compositivo ad un ordine gigantesco percorso da paraste lisce” osserva ancora Paone nel suo lavoro del 1970, in particolare il richiamo ai due edifici romani, che l’architetto salentino poté vedere durante il suo soggiorno romano ma anche dall’esame di alcune incisioni, si nota nell’originale balaustra in ferro che correva sulla trabeazione (struttura orizzontale sostenuta da colonne) e si faceva concava in corrispondenza della zona centrale, parapetto poi sostituiti dall’attuale ringhiera in ferro a “petto d’oca”. Le variazioni apportate dal Manieri rispetto allo schema capitolino del Borromini, sono l’aggiunta sulla facciata delle otto statue in pietra di Carovigno che rappresentano le arti che nell’istituto avevano cattedre, docenti e discenti, e cioè la Matematica, l’Oratoria, l’Etica, la Teologia, la Filosofia, la Giurisprudenza, la Poetica e l’Armonia, disegnate e scolpite dallo stesso prestigioso architetto salentino. Il prospetto originale dell’edificio, realizzato per la maggior parte in carparo, lo si vede inciso su una lastra di rame realizzata dallo stesso Manieri e destinata a Raimondo marchese di Rialto, fratello di mons. Perlas, il più potente ministro dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo. E proprio sopra al balcone del primo piano della facciata principale è ammurato lo stemma della nobile casata spagnola, che viene riproposto, in alto, sul vertice dello stabile tra via Duomo e vico Seminario.
Durante i suoi quasi otto anni sulla cattedra brindisina, il vescovo non deluse le aspettative dei cittadini, dimostrandosi generoso verso i poveri e ponendo particolare attenzione al decoro del Capitolo e alle processioni. Fu sua l’iniziativa di ingrandire il presbiterio della Cattedrale, che recinse di balaustre. Anche a Salerno, dove fu chiamato alla guida della Diocesi nel febbraio 1723 con nomina diretta dal sovrano e successiva bolla pontificia, il Perlas fece demolire gli angusti locali del piccolo Seminario per far costruzione una più ampia sede degna della città (attualmente sede del Museo Diocesano), e decise di affidare l’incarico ancora a Mauro Manieri, dal prelato oramai protetto e favorito. L’architetto fu nuovamente deputato, questa volta dall’arcivescovo Andrea Maddalena, alla ricostruzione del prospetto del Seminario brindisino, crollato in parte durante il terremoto del 1743, quando “tracollando l’intero cornicione, atterrò tre delle statue ed altre ne deturpò, come tutto infranto e deturpato ne rimase lo sporco tutto delle balconate e schiacciate benanche le balaustre di ferro”. Il Manieri progettò anche il rifacimento dell’intera Cattedrale, rovinata – forse – a seguito dello stesso evento tellurico.
Il Seminario fu riaperto il 21 novembre 1744 dall’arcivescovo Antonino Sersale “colla pubblica vestizione dè convittori”, riprendendo l’attività scolastica sospesa sin dal 1703. Agli inizi dell’Ottocento il seminario veniva descritto come ben organizzato, disciplinato e diretto da un rettore “vigilantissimo”. Vi erano sessanta convittori, dodici dei quali non pagavano nulla, come previsto dalla regola di fondazione. Nel febbraio 1861 fu occupato dai militari in quanto, come ente ecclesiastico, era soggetto alla confisca e vendita dei beni; due anni dopo il Comune ne rivendicò la proprietà chiedendo fosse sede del Ginnasio e lasciando all’arcivescovado la disponibilità del secondo piano per l’impianto di una scuola di teologia, ripartizione concretizzata solo nel 1866. Nei locali ancora disponibili l’arcivescovo Luigi Maria Aguilar (1878-1892) riattivò le attività seminariali rimaste vitali sino al secondo dopoguerra. Oggi l’edificio è tornato nella piena disponibilità della diocesi e attualmente ospita le principali funzioni direttive.