In via Ferrante Fornari il primo teatro stabile di Brindisi

Sin dai tempi più remoti la funzione primaria del teatro è stata quella educativa e formativa, un mezzo di propaganda e di informazione per istruire il popolo, non limitata al semplice intrattenimento.
Della tradizione teatrale locale non si hanno notizie documentate sino alla formazione del primo teatro stabile avvenuta nella prima metà dell’800, ma già da prima a Brindisi si esibivano compagnie di attori che portavano le proprie rappresentazioni in luoghi di spettacolo improvvisati, nelle piazze e nelle case dei signori più facoltosi. Un editto dell’arcivescovo Annibale De Leo emesso nel settembre del 1800, vietava agli ecclesiastici di assistere alle recite di una compagnia di comici “capitata in questa città”, pena la sospensione dei sacri ordini. Agli stessi si vietava anche “di assistere ai giuochi che si fanno nelle botteghe, spezierie, ad altri ridotti, ove concorre ogni sorta di gente”, ciò lascia intendere quali fossero gli svaghi dei brindisini tra il XVIII e il XIX secolo. Nel 1836 in una lettera indirizzata al sindaco Stefano Palma è documentata la presenza in città di un’altra compagnia comica con a capo un certo signor Centofanti.
La costituzione di una società per l’allestimento di un teatro in una sala nel palazzo dello “Spedale Vecchio”, in piazza Duomo, proprio dove ora è situato il Museo provinciale, fu certamente un atto di coraggio e di intraprendenza di sei “possidenti” brindisini, che il 3 agosto 1838 firmarono una semplice scrittura privata con la quale si impegnarono a dotare il teatro di tutto il materiale scenico necessario. La città all’epoca contava solo 7.504 abitanti, quasi tutti contadini, pescatori e marinai che vivevano in un ambiente insalubre e dove era molto alto il tasso di mortalità per malaria e per altre malattie endemiche.
Nel 1842 le mutate esigenze di un pubblico divenuto sempre più numeroso, convinsero il barone Francesco Monticelli e il nobile Raffaele Monticelli Cuggiò ad acquisire tutto il materiale scenico del “passato teatro” al fine di allestire un nuovo teatro in un locale più capiente situato su una via a maggiore traffico qual’era la Strada Angioli, divenuta poi via Ferrante Fornari. All’epoca la strada era particolarmente animata in quanto prolungamento della via Maestra e prossima alla frequentatissima piazza dei Nobili, oggi rispettivamente via Filomeno Consiglio e piazza della Vittoria. Il locale scelto dai due imprenditori era una cantina adibita a deposito, con un piccolo “ortale” sul retro, di proprietà di Giovanni Sala, confinante su un lato con la dimora della famiglia Palma, ora Palazzo Fornari.
Una volta liberato da “botti e botticelle” il locale fu “modellato a teatro” apportando le necessarie innovazioni e iniziò a funzionare nell’ottobre del 1843 con una serie di “produzioni in musica” eseguite dalla compagnia di Antonio Candalisi, come emerge dall’interessante ricerca curata e pubblicata nel 1986 da Maria Ventricelli, dal quale è stato possibile attingere numerose notizie utili a redigere la presente nota. Il teatro, del quale però non si conosce l’intitolazione, era coperto da una tettoia ma sprovvisto di pavimentazione, aveva le dimensioni di 16.53 m. di lunghezza per 10.90 m. di larghezza media, con i “palchi intorno abbelliti da carta di Francia, i sedili in legno, un palcoscenico con scenario fisso ed un cielo appeso decorato”. Qui si eseguirono rappresentazioni di opere “serie e buffe”, spettacoli musicali, festeggiamenti per le grandi ricorrenze e in onore della monarchia borbonica. Divenne un importante punto di riferimento per la città, dove si organizzavano anche i tanto attesi veglioni con balli di carnevale, durante i quali era espressamente vietato mascherarsi con abiti religiosi e di pubblici funzionari, l’uso di “maschere indecenti e clamorose ed in generale tutte quelle che possono offendere il buon costume”. Tale ordinanza, che proibiva anche l’uso di bastoni ed armi, fu ulteriormente inasprita e rimase valida per molti anni.
Dopo l’unità d’Italia il teatro di Strada Angioli era “andato soggetto a tali degradazioni e nella sala e nei palchi, e nello insieme di cui si compone, da essere poco decoroso per una città” pertanto, su iniziativa del sindaco Antonio Balsamo (1862), venne ceduto al Comune con un atto sottoscritto da tutti i ventiquattro azionisti della società teatrale del quale facevano parte anche i soci del precedente “Spedale Vecchio”, lo stesso primo cittadino e altre figure di spicco delle famiglie più facoltose della città, che sacrificarono “all’amor di patria un interesse improduttivo”. Solo in questo modo l’ente poteva procedere con i propri mezzi ad ingrandirlo e “portarlo ad uno stato di decoro e di abbellimento da quello di abbandono in cui si trova”. I locali furono espropriati per pubblica utilità e pagati la somma di 4.590 lire, i lavori di restauro furono avviati però solo dopo due anni durante i quali il Comune fu impegnato prima a contrastare l’epidemia di colera e poi per ultimare i lavori di bonifica al porto e di selciamento delle strade.
Il Teatro Comunale, che su esplicita richiesta del sindaco Balsamo venne intitolato a Marco Pacuvio, in onore del poeta tragico latino nato a Brindisi nel 220 a.C., disponeva di una nuova pavimentazione, di un palco prolungato “munito di quattro quinte” con un nuovo telone di sipario, una nuova orchestra e “camerino dè coristi” e di una sala di spettacolo con pianta a ferro di cavallo avente capienza complessiva di circa 200 persone: in platea vi erano solo 60-68 posti a sedere, il resto del pubblico si disponeva nei due ordini di palchi, rispettivamente di dieci e tredici palchi, tutti “rivestiti con Carta di Francia damascata di color cremisi”, e nel loggione. Le sale erano illuminate da una serie di lumi a petrolio “con fonti di cristallo azzurro e tubi a campana” su basamenti in legno.
L’attività riprese nel settembre del 1867 con un’opera in musica di Raffaele Grazioli e per i primi anni rispose bene alle esigenze culturali della città, che nel frattempo cresceva in numero di abitanti (da 9mila del 1861 a 20mila del 1890) e nella condizione economica grazie alla forte ripresa delle attività commerciali legate al porto. Le rappresentazioni teatrali riscontrarono un grande successo, infatti dopo un inizio stentato, le compagnie – che per i primi anni pagavano un affitto di circa 4 lire a serata, con l’impegno di portare in scena da 20 a 60 recite diverse, spaziando dal genere comico al drammatico – registravano buoni affari proponendo opere in prosa di Goldoni, Alfieri, Pellico, Ferrari, Dumas e altri autori oggi dimenticati, “vaudevilles”, spettacoli più popolari con accompagnamento musicale divenute poi le famose operette, manifestazioni di illusionismo, veglioni e circa dodici balli in maschera per stagione. L’impresario stabiliva il prezzo degli abbonamenti alle recite in funzione dei posti (i palchi frontali costavano più di quelli laterali e quindi della platea), e del numero di ingressi. Le ridotte dimensioni del palco e l’acustica inadeguata non permisero però la programmazione di opere liriche. Al Pacuvio si esibirono per alcuni anni anche due compagnie locali, la più famosa è quella di Pio Desantis, con un repertorio di drammi, commedie e farse, del quale faceva parte il figlio, il grande Alfredo De Sanctis (il cognome cambiò nel corso degli anni) che su questo palco avviò la sua grande carriera teatrale, l’altra è quella dei coniugi Antonio e Rosa Guarini.
Già nel 1881 il teatro risultava insufficiente ed inadeguato alla richiesta crescente, ma soprattutto vi erano evidenti carenze strutturali che contrastavano fortemente con le nuove norme di sicurezza approvate del Ministero a tutela della pubblica incolumità, pertanto fu dichiarato “pericolosissimo” da un’apposita commissione e venne definitivamente chiuso nel 1888. Prima di essere demolito per l’ampliamento del nuovo “mercato dei commestibili” (l’attuale piazza mercato), i locali furono liberati dai palchi e ceduti in fitto per alcuni anni, una parte di questi furono utilizzati dal 1898 al 1903 come redazione del giornale l’Indipendente diretto da Giustino Durano. Nel frattempo era stato concretizzata la costruzione di un nuovo grande teatro comunale in una posizione ancora più centrale, ma questa è un’altra storia.