La cripta ritrovata e la magia dei luoghi d’infanzia

di Roberto Romeo per il7 Magazine

Lui si chiamava Antonio Carrone. Noi in famiglia lo chiamavamo zio Antonio. Era il nostro vicino di campagna, tra San Vito e Serranova, figura depositaria di quei rapporti di vicinato e di comunità che appartengono ormai ad altre epoche. Una presenza che ha plasmato la mia formazione di bambino, in quei paesaggi fatti di terra e di semplicità, di lavoro e di pane cotto a pietra, di semine orientate dalla luna e di raccolti fatti alla luce del sole. Lui era stato pastore, poi contadino, poi ancora muratore, forza lavoro uscita da quegli agri assolati per migrare in Francia, in Belgio, per spedire la paga a San Vito, a sua moglie, per rimettere le radici nel paese con una casa nuova, più comoda e accogliente delle lamie di campagna. Decenni di lavoro duro, poi il ritorno, con la campagna a fare da nuova periferia, quella fatta di ricordi e di abitudini impossibili da perdere. Lui era cresciuto in contrada San Nicola, poco distante da Serranova, distese di ulivi e di mandorli tratteggiate e attraversate dai muretti a secco che disegnavano vecchie mulattiere sterrate. E ogni giorno dal paese, San Vito dei Normanni, tornava in quelle campagne che lo avevano visto bambino, una cura costante, dedita, mai un filo d’erba su quei tappeti di terra pareggiati con certosina manualità. E poi la sua presenza nella nostra famiglia, generosa e prodiga di consigli, mai invadente, dosata con rispetto e amicizia. Amicizia vera, come quella delle giornate nei campi, delle leggi non scritte delle comunità rurali, dei forni a pietra messi a disposizione di tutti a turno. I miei acquistarono agli inizi dei Settanta un tomolo di terra con una vecchia casa in contrada Mascava, sulla provinciale Brindisi – San Vito, e quella di zio Antonio diventò pian piano un riferimento polare, fondamentale, una guida per i lavori dovuti per noi che avevamo poca pratica e dimestichezza. I tempi della semina, le tecniche, gli innesti, le potature, le arature. E ancora mille racconti e leggende con radici orali nel mondo contadino. Con tutto il piacere di trasmettere quei saperi che affondavano nel suo amore per la vita, la meraviglia per le cose più semplici che si può scoprire e riscoprire nella terra. E lui nella terra era nato, lì, in quelle corti di tufo bagnate dal divenire delle stagioni, si era allontanato ma ci era tornato perché ritornare è più naturale che partire.
Ero un bambino quando un giorno mi portò nella casa di campagna in cui era cresciuto, in contrada San Nicola. Salimmo a bordo della sua Bianchina blu e tra strade e tratturi arrivammo in questo luogo d’incanto, due stanze e la corte per gli animali in cima a un vallone di pietra, una dimora minuscola alla quale, attaccato, non poteva mancare il forno a pietra. Ma non era quello il motivo di quella visita estemporanea. Percorremmo il costone di pietra della piccola valle di ulivi ed entrammo in una grotta ipogea che nascondeva la vera meraviglia. Colonne affrescate e, in un angolo, discreta, l’immagine di san Nicola di Myra, visibilmente sbrecciata, un luogo di culto nel quale, mi disse, le donne della contrada si incontravano per pregare il Rosario, ma che lui, pastore bambino, usava spesso per ricoverare il gregge quando era maltempo. Da allora quel luogo si è piantato nei miei ricordi come l’ulivo secolare che fa da sentinella a quella vecchia casa, ormai abbandonata. È diventato uno dei luoghi dell’infanzia che ti segnano per sempre, nei quali desideri tornare ma che non riesci a rivivere appieno. Perché manca sempre qualcosa. Mancano quegli anni, manca quell’aria, manca la consapevolezza di essere bambino, mancano gli insegnamenti e la voce rassicurante di quel contadino con la forza e le rughe del tronco scabro di un vecchio ulivo. Mentre ci accorgiamo che la vita è un incessante recupero dell’infanzia, dei luoghi che la abitano, dei suoni che ci mancano, delle voci che abbiamo perduto. È un andare urgente a ritroso che procede di pari passo col tempo che avanza. Con gli anni. E i ricordi del tempo bambino dilatano le immagini, gli affetti, lo spazio, perché è giusto così, perché i valori che fondano hanno, devono avere per forza di cose, o per grazia, una misura in più. Ho desiderato per decenni poter tornare in quel tempio antico, scivolare di nuovo in fondo a quella piccola propaggine scoscesa, e insieme scivolare in fondo a quel pomeriggio incastonato in un tempo che non torna. E che resta prezioso proprio per questo motivo. L’infanzia è il luogo che portiamo dentro di noi sempre, nel bene e nel male, è la tappa iniziale della vita alla quale torniamo una e un’altra volta ancora, e non solo con l’istinto della nostalgia, ma perché è l’infanzia il luogo in cui ci siamo svegliati alla vita dal grembo della cura.
Mi sono messo subito sulle tracce di quella campagna, di quell’angolo di memoria, di quella casa che sovrasta un piccolo e nascosto tesoro della storia. Non era facile. Zio Antonio non c’è più da una ventina d’anni. Ma dovevo tornarci per riprendere per un attimo quel filo, il cui capo è rimasto lì, ma che finalmente adesso ha una posizione, non solo nella geografia dei ricordi e dei sentimenti. Così, ho approfittato dell’entusiasmo del mio amico Alessandro Caiulo per mettere in moto la ricerca, e con l’aiuto dei parenti di zio Antonio, la figlia Filomena, il genero Tonino e il nipote Piero, che ringrazio di cuore, ho ricostruito quei passi. Grazie a loro ho realizzato un sogno. Il sogno di riattraversare un luogo che non mi appartiene più, che ha i colori e le sfumature rarefatte di una passeggiata fatta all’improvviso quarant’anni fa, che rimane chiuso in un tempo, l’infanzia, che non si ripete ma che non finisce mai. Perché è tempo dell’anima.