di Giovanni Membola per il7 Magazine
Ogni luogo conserva storie e leggende popolate da figure reali e mitologiche. Spesso ai santi e agli eroi, protagonisti delle narrazioni, si uniscono e si intrecciano altri elementi che arricchiscono il racconto folcloristico tramandato oralmente per secoli, tanto da diventare parte del ricco patrimonio culturale del luogo. Tutto ciò è avvenuto anche nell’antica leggenda del denaro tornese, la moneta coniata in epoca sveva-angioina, divenuta co-protagonista della storia legata alla tradizione brindisina del Corpus Domini.
Tornese è il nome italianizzato della moneta foggiata nella città francese di Tours in epoca carolingia (742-814), da cui la locuzione latina “denarius turonensis”, un termine poi utilizzato durante il medioevo anche per numerose monete coniate nelle altre zecche italiane ed europee. Questo dischetto metallico in rame e in argento ebbe larga circolazione persino in oriente grazie ai traffici e ai movimenti dei crociati, nei secoli è stata ampiamente imitata e contraffatta. Le monete furono create anche nella Repubblica di Venezia, con il nome di torneselli, e nel regno delle due Sicilie, dove circolarono fino all’unificazione italiana, perdendo nel tempo le caratteristiche dei “denier tournois” francesi ed orientali.
Si è molto discusso sull’origine dell’etimologia di questa antica moneta, i numismatici attribuiscono da sempre il termine al luogo di coniazione (Tours), mentre altri storici e scrittori del passato lo hanno spesso associato al verbo “tornare”, riferendosi ad eventi commemorativi di avvenimenti storici e politici a ricordo di un ritorno di qualcosa o di qualcuno. In quest’ultimo ambito rientrerebbe proprio l’origine della leggenda brindisina del tornese, strettamente collegata ad un’altra reminiscenza remota ricca di mistero, ovvero il rituale religioso del Cavallo Parato. L’evento, unico nel suo genere, viene cerimoniato solo a Brindisi in occasione del Corpus Domini, allorché il Vescovo porta in processione il Sacramento per le vie principali della città montando su un cavallo bianco parato, a rievocare l’antica tradizione originata nel 1254.
Alle radici del racconto vi sarebbe la circostanza che ricorda l’approdo difficoltoso a Brindisi del re di Francia Luigi IX, di ritorno dall’Egitto durante la settima crociata (1248-1254). Il “re santo”, così conosciuto per la sua successiva santificazione, dopo la conquista della città di Damietta in Egitto, nel 1250 decise un attacco al Cairo, ma venne sconfitto e fatto prigioniero nel corso della battaglia di El Mansura (5 e 6 aprile). Per il suo rilascio dovette restituire la città conquistata e versare un riscatto di un milione di scudi, ma non avendo i denari sufficienti, avrebbe lasciato in pegno l’Eucarestia. Tornando in Occidente il sovrano sarebbe approdato a Brindisi dove trovò l’amico Federico II, l’imperatore svevo “inorridì al pensiero che l’ostia sacralissima di Cristo si trovasse nelle mani impure del rappresentante di Maometto, e corse ai ripari, generosamente, per far cessare quello scempio” (C. Teofilato, 1931), e ordinò subito alla zecca brindisina di coniare tante piccole monete d’argento aventi sul lato dritto il simbolo del tabernacolo e nel rovescio la tipica aquila coronata sveva. Tremila di questi denari furono consegnati al sovrano francese per il pagamento del riscatto pattuito, con tale tesoro Luigi IX tornò in Egitto dal Saladino e pretese la restituzione del sacro pegno: “tra l’uomo santo e il monarca infedele […] si svolse allora una fraterna gara di generosità, alla quale non dovette essere estraneo il gran nome di Federico, ben noto al Sultano”. Il principe orientale, infatti, ammirando la fede del “re perditore”, restituì l’ostia consacrata rifiutando i denari come premio alla sua fede e lealtà. Pertanto, le tremila monete d’oro e d’argento, essendo “tornati” a Brindisi dove erano state battute, furono da quel momento denominate “tornesi”.
Nell’occasione del secondo rientro in Italia, la nave sarebbe stata sospinta da una forte mareggiata sullo “scoglio” del promontorio distante circa tre miglia a sud di Brindisi, qui si recò l’Arcivescovo Pietro III, detto Paparone, che essendo molto vecchio montava su un cavallo bianco. In questo luogo ameno, da allora denominato Punta Cavallo, gli fu consegnato il tabernacolo contenente il Santissimo Sacramento, che fu portato in processione sino alla città, seguito dal clero e dal popolo dei fedeli. Dall’affascinante racconto prenderebbe origine l’usanza tutta brindisina di portare solennemente, su un docile cavallo bianco ornato con paramenti sacri, l’ostia consacrata nel giorno del Corpus Domini.
Le leggende si sa, possono essere il frutto della fantasia ma possono anche scaturire e contenere fatti e situazioni realmente accaduti, racconti del passato mai comprovati da elementi storici.
È sempre lo studioso Cesare Teofilato (1881-1961) a formulare un’altra possibile ipotesi sulle radici dell’onomatopea della moneta, collegata sempre alla rievocazione di un ritorno. Secondo lo storico nonché attivo antifascista francavillese, il nome del tornese nel meridione d’Italia potrebbe anche derivare dalla commemorazione di un altro ritorno, ossia quello della Casa Sveva nel Regno di Sicilia: dopo la morte di Federico II (13 dicembre 1250), il papa Innocenzo IV fomentò numerose ribellioni in tutto il Mezzogiorno svevo, le sommosse furono in parte contenute da Corrado e Manfredi, figli dell’imperatore e rispettivamente erede legittimo e reggente del regno. Napoli e altri territori, passati sotto il controllo degli insorti, furono riconquistati con energia dai due fratelli nell’ottobre del 1253, e per celebrare il “ritorno” del dominio svevo, furono foggiate alcune modeste monete dette appunto “tornesi”. Alcuni esemplari di questi rarissimi denari facevano parte della collezione del prof. Teofilato, grande esperto di numismatica, che basandosi su alcune tecniche di lavorazione “e per leggende”, furono ritenute coniate nella zecca di Brindisi nel 1251-53, su ordine di Manfredi a nome di Corrado. Le rare monetine, di cui non sono mai state diffuse le immagini, avevano diametro di diciassette millimetri e peso di circa un grammo, recavano nella parte centrale del lato diritto le sigle “A • P” racchiuso in un cerchietto, monogramma interpretato come “Apuliae”, quindi “C • IMPERATREX” inciso in modo circolare sull’intorno, interpretato come “Corrado imperatore e re”, della Puglia appunto. Sul rovescio era impresso, sempre all’interno di un cerchio, il simbolo di una croce patente accostata – in ogni quadrante – da quattro piccoli astri accantonati a sei punte, il testo “M • IMPERATOR” era segnato nello spazio sottostante e sull’intorno, interpretato come “Manfredi imperatore, nel senso di capo dell’esercito, come nella monetazione della fine della repubblica romana”.
Ricordiamo che il privilegio di battere moneta a Brindisi fu concesso con ogni probabilità da Enrico VI di Hohenstaufen, padre di Federico II, nelle officine della zecca situate nella Domus Margariti, la sontuosa casa dell’ammiraglio normanno distrutta in epoca angioina (1281) per far posto al convento francescano di S. Paolo Eremita; la zecca fu riportata a Brindisi da Manfredonia, dove era stata spostata da Manfredi per pochi anni (1263-1266), nella nuova sede costruita sull’isolato racchiuso tra le vie Tarantini – De Dominicis – De Leo – Montenegro, nei pressi della Cattedrale, rimanendo complessivamente attiva per oltre tre secoli, coniando complessivamente ben 338 monete diverse. Con Federico II è possibile che abbia avuto anche “funzioni di deposito di oro, e moneta, nel senso di banca di stato” (E. Travaglini, 1972), divenendo la più importante nella parte continentale del regno, insieme a quelle di Messina, dove lo Stupor Mundi fece introdurre e coniare il denaro tornese per tutto il Regno di Sicilia, “moneta della quale gli Angioini avrebbero fatto largo uso, sulla base della primigenia linea federiciana” (S. Perfetto, 2020).
È ancora in uso in diverse località salentine chiamare tutte le monete con il termine dialettale “li turnìsi”, a Brindisi tale espressione era alquanto diffusa sino ad alcuni decenni fa, un vocabolo che si ritrova in numerosi proverbi e modi di dire nati dalla remota saggezza popolare, che traevano dall’esame delle diverse abitudini nei confronti del denaro interessanti spunti di riflessione.