di Nazareno Valente per IL7 Magazine
Riprendiamo il filo del discorso ripartendo dall’antagonismo che la conquista romana aveva riacceso tra Tarantini e Brindisini.
La nostra città, rifondata come colonia di diritto latino, era infatti stata posta al centro dei rapporti commerciali con l’Oriente a tutto danno di Taranto, trattata dai Romani con giustificata diffidenza per i tradimenti consumati nel corso della sanguinosa guerra contro Annibale.
Mentre Brindisi prosperava, Taranto soffriva invece l’incontenibile declino dovuto al diradarsi dei traffici e delle attività industriali. Nonostante ciò la città ionica continuava ad affascinare i letterati e le classi colte, grazie alle sue origine greche ed agli influssi culturali ancora percepibili. Brindisi aveva al contrario altri pregi che la ponevano tra le città più rinomate dell’impero, gradita piuttosto alla classe equestre e alla parte senatoriale interessata ai circuiti produttivi. Era quindi del tutto scontato che Virgilio — il quale non a caso risiedeva vicino Napoli, località greca per antonomasia — manifestasse maggiore interesse per Taranto e la frequentasse tanto da dedicarle due citazioni in versi molto apprezzati delle Georgiche.
Era del tutto naturale che i Tarantini lo sentissero un po’ loro e che ci rimanessero male nell’apprendere che, per un tiro beffardo della sorte, il poeta di Andes avesse concluso i suoi giorni a Brindisi, creando così un legame indissolubile proprio con l’odiata città rivale. Il disappunto e lo sconcerto serpeggiarono come fastidiosi tarli finché lasciarono il passo al proposito di trovare il modo migliore per riappropriarsi dell’illustre personaggio. L’espediente escogitato doveva manipolare la realtà e fare in modo che una versione alternativa si sovrapponesse a quella voluta dal destino, allo scopo di far credere che Virgilio, invece che a Brindisi, fosse morto a Taranto.
Il falso, nato di certo nella cerchia degli eruditi tarantini e da questi veicolato in modo che s’insinuasse negli ambienti colti delle città vicine, fu confezionato in una veste così sopraffina che con il passar del tempo acquisì consistenza sino a trovare spazio in una tradizione manoscritta della “Vita Vergilii” di Servio.
Avremo occasione di esaminare in seguito come tutto ciò si poté realizzare; per il momento è il caso di riferire cosa raccontino le fonti letterarie sulla morte del mantovano.
Tra i vari autori che hanno narrato l’episodio, quello che gode di maggior credito è Elio Donato che poté contare sulle informazioni contenute in opere, andate poi perdute, di scrittori d’un periodo vicino a quello in cui i fatti accaddero. Nella sua “Vita di Virgilio”, Donato ci narra che il poeta, all’età di cinquantuno anni, nell’intento di dare il tocco finale all’Eneide, si recò in Grecia ed in Asia. Giunto ad Atene, incontrò Augusto che tornava a Roma dall’Oriente e, pur di non separarsi da lui, decise di rientrare insieme in Italia ma, «mentre visitava la vicina città di Megara, sotto un sole cocente, fu colto da un malore che crebbe durante la navigazione non più interrotta, così che sbarcò alquanto aggravato a Brindisi, dove in pochi giorni morì, l’XI giorno avanti le Calende di ottobre sotto il consolato di Cn. Senzio e di Q. Lucrezio» («dum Megara vicinum oppidum ferventissimo sole cognoscit, languorem nactus est eumque non intermissa navigatione auxit ita, ut gravior aliquanto Brundisium appelleret, ubi diebus paucis obiit XI Kal. Octobr. Cn. Sentio Q. Lucretio coss.»).
Quindi, secondo Donato, il poeta muore a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C., pochi giorni dopo esservi sbarcato già in fin di vita. Anche il “Chronicon” di San Girolamo, sia pure succintamente, ci riporta la stessa informazione («Virgilius Brundusii moritur», «Virgilio morì a Brindisi») e allo stesso modo pure gli altri autori antichi non si allontanano da questa versione, che quindi risulta ampiamente accreditata. Le uniche eccezioni riguardano uno specifico manoscritto, su cui ci soffermeremo nel seguito, e la “Vita Vergilii” attribuita a Marco Valerio Probo in cui si trova la generica indicazione che Virgilio «morì in Calabria» («decessit in Calabria»), e Brindisi non viene pertanto indicata in maniera esplicita.
Anche per meglio comprendere le successive argomentazioni, è utile a questo punto soffermarsi sul termine “Calabria” in quanto, nel corso del tempo, ha individuato due diverse entità geografiche.
In antichità, e quindi per tutti gli autori appena citati, Calabria stava ad indicare l’attuale penisola salentina, essendo questa la denominazione autoctona utilizzata per l’appunto dai nostri antenati. Anche se poco conosciuto al di fuori della cerchia locale, perché oscurato dal più noto Messapia coniato e imposto dai Greci, il toponimo (o più precisamente, il coronimo) era sempre stato usato dai nostri corregionali e tornò ad avere un uso universale nel periodo successivo alla conquista romana. Ai tempi di Virgilio, la nostra terra veniva pertanto chiamata Calabria, mentre la Puglia settentrionale, da dopo Egnazia in su, era detta Apulia, sicché l’odierna Puglia era allora conosciuta come Apulia et Calabria. A partire dal VII secolo, per un vero e proprio bizantinismo (Bisanzio non voleva far sapere d’aver perso il controllo della Calabria, conquistata dai Longobardi) il nome Calabria si estese al Bruttium, finendo poi per designare la sola attuale penisola calabrese. La nostra terra, privata del suo coronimo originario, incominciò invece a far parte dell’Apulia, e con tale nome fu da allora denominata, accomunata a tutto il resto della Puglia. Occorre pertanto tener conto di questo balletto toponomastico per comprendere con precisione a quali zone geografiche si riferiscono gli autori nell’uso dei vari coronimi.
In definitiva, l’affermazione di Probo che Virgilio morì in Calabria significava che il poeta aveva concluso il suo tempo in una qualsiasi località dell’attuale Salento e che, pertanto, l’evento poteva essere accaduto anche a Taranto, e non necessariamente a Brindisi. Era questo il piccolo spazio in cui s’incunearono con molta probabilità gli scritti degli studiosi tarantini per cercare di accreditare la loro versione dei fatti e modificare così la realtà.
Nel frattempo la nostra terra era sconvolta da ben più gravi avvenimenti: le incursioni longobarde e saracene mietevano vere e proprie stragi e le pesti si susseguivano violente tanto da creare il deserto nelle contrade. Ormai le antiche rivalità cittadine non avevano più motivo d’essere, sostituite però da altre contese innescate da un mondo che, perduta l’universalità imposta dal potere romano, si rinchiudeva sempre più nei rigidi confini degli orticelli comunali. Anche le dispute accademiche riemersero in un diverso contesto e forse, proprio grazie alla grande attenzione che il Basso Medioevo tributava alla figura di Virgilio, la questione tornò a galla.
Come i fatti si siano svolti nel dettaglio non sarà mai dato di sapere, certo è che un amanuense del XV secolo, nel ricopiare la “Vita Vergilii” di Servio, diede ospitalità, non si sa se per errore o volutamente, alla storia alternativa confezionata dagli eruditi tarantini. Così nel codice Dresdensis di Servio fu riportato che Virgilio era morto a Taranto, città dell’Apulia, a seguito d’un colpo di sole subito nel visitare Metaponto («periit autem Tarenti, in Apuliae civitate. Nam dum Metapontum cupit videre, valetudinem ex solis ardore contraxit»).
La morte di Virgilio veniva così spostata da Brindisi a Taranto e l’insolazione presa a Metaponto, invece che a Megara. Questa versione ebbe alterne fortune sino a quando gli studiosi non si insospettirono per il fatto che Taranto era indicata come città dell’Apulia. Si osservò infatti che Servio, autore vissuto tra il IV ed il V secolo, non avrebbe mai utilizzato l’espressione «Apuliae civitate» per il semplice motivo che solo dal VII secolo il termine Apulia aveva iniziato a designare anche la nostra terra. Si constatò inoltre che nessun altro codice di Servio conteneva il brano e ne conclusero che si trattava d’un palese falso.
I tentativi dei Tarantini furono così vanificati.
Sebbene non vi avesse mai avuto fissa dimora, né occasione di frequentarla con assiduità, è del tutto provato che Virgilio abbia consumato a Brindisi gli ultimi istanti di vita, e che Taranto non c’entri proprio nulla con il luttuoso evento.
Qualche dubbio mi sentirei invece di esprimere sulla zona della città in cui egli fu costretto a salutare questo mondo. In effetti pare alquanto strano che Augusto, allora padrone del mondo, non abbia saputo garantire all’amico morente un ambiente migliore di quello costituito da un’area portuale occupata per lo più da locande anche d’infimo rango. E si fa fatica a credere che un imperatore – e non certo una persona qualsiasi – non sia stata in grado di far trovare un alloggio più consono al prestigio del poeta e suo. Per questo sarei propenso a credere che la zona sia stata scelta a tavolino per essere funzionale alle leggende che si desideravano imbastire e che, nella realtà, l’avvenimento si sia svolto in altra parte della città.
C’è infatti tutto un filone di leggende, ormai cadute in disuso per mancanza di anime candide disposte a crederci, che illustrava le opere di magia compiute dal poeta a beneficio dell’umanità, a cominciare da quella che l’aveva visto creare una prodigiosa mosca di bronzo in grado di liberare Napoli dal flagello delle mosche. Ma non solo: le stesse fognature di Napoli si tramandava fossero state fatte da Virgilio, così come una statua umana che, soffiando in una tromba, proteggeva il clima dagli effetti negativi del vento di Favonio, oltre ad altre meraviglie. E, pensate un po’, anche la vexata quaestio su chi abbia edificato le colonne romane avrebbe soluzione, se riabilitassimo il racconto popolare che attribuiva a Virgilio la loro costruzione, eseguita in quattro e quattr’otto, per abbellire proprio il luogo dove risiedeva. Ora, se si considera che non c’è altro monumento brindisino spacciabile d’epoca virgiliana, dovrebbe essere evidente il perché fosse indispensabile che il poeta dimorasse in quei dintorni e non in altri paraggi.
C’è poi un’altra saga – che ha per altro la curiosa caratteristica d’essere buona per tirarla fuori dal cilindro, come si fa con un coniglio, per le occasioni in cui bisogna compiacere gli spettatori, tipo i convegni celebrativi – la cui attendibilità è appesa agli scenari portuali da cui non può ovviamente prescindere.
Sarà proprio questa tradizione erudita l’argomento della prossima puntata, che si affronterà con qualche patema, perché c’è il rischio di spezzare troppo il cuore di chi s’è ormai assuefatto al solito ritornello.
Parafrasando con la dovuta cautela Virgilio, «paulo alia canamus». Per preannunciare che si correrà l’alea d’intonare, una volta tanto, una diversa melodia.