C’è un piccolo pezzo di Brindisi nel cuore della Germania, al confine tra l’Assia e la Baviera, in una cittadina chiamata Grossostheim, a una quarantina di chilometri da Francoforte. È in questo caratteristico centro di dimensioni simili a Latiano che nel 1960 arrivarono i primi italiani, la gran parte dei quali brindisini del capoluogo e della provincia, per lavorare prevalentemente come operai nelle fabbriche di legname di cui la zona era ricca.
A distanza di 6 decenni da quel gelido gennaio in cui, dopo un viaggio di quattro giorni, dal treno proveniente da Monaco scesero infreddoliti i nostri giovani più intraprendenti, il 12 settembre scorso l’amministrazione comunale di Grossostheim, in collaborazione con il consolato italiano, ha inaugurato una scultura dell’artista Kai Kapraun che rappresenta l’abbraccio ideale tra l’accogliente comunità tedesca e i nostri concittadini che si stabilirono lì per regalarsi un’occasione di riscatto sociale e un’opportunità di prosperità economica. Il riconoscimento premia una storia di inclusione che attraversa i decenni senza mai interrompersi e che, nel mondo globale che viviamo, rappresenta un modello virtuoso di integrazione cui ancora oggi si deve guardare con interesse.
“Sono l’ultimo sopravvissuto della prima generazioni di brindisini arrivati qui circa sessant’anni fa”, ricorda, nel suo italiano vestito di leggera inflessione tedesca, Aldo Colonna, 86 anni e una lucidità sorprendente, mentre ripercorre la sua vita di emigrante perfettamente integratosi nel tessuto produttivo, sociale e persino politico del paesino bavarese. “Mi vengono in mente, in particolare, persone di Ceglie Messapica, Carovigno, San Donaci, Tuturano. Alcuni, dopo aver lavorato qualche anno e aver messo da parte un tesoretto, sono poi ritornati in Italia. Altri, come me, sono rimasti. Quando racconto la nostra storia, dico sempre che siamo arrivati da emigranti, con le valigie di cartone e senza alcuna conoscenza della lingua, e poco a poco, rispettando le usanze locali e mescolandole alle nostre abitudini, siamo diventati concittadini”.
La cerimonia, seguita da una grande festa, avrebbe dovuto tenersi lo scorso 23 aprile, ma le note restrizioni dovute alla pandemia da Covid-19 hanno impedito di onorare a dovere l’anniversario della salda amicizia italo-tedesca. Così, il 12 settembre, alla presenza di poche persone, il rappresentante consolare italiano e il sindaco di Grossostheim si sono limitati a scoprire il monumento commemorativo, una scultura metà in marmo di Carrara e metà in pietra di sabbia (una sorta di tufo molto usato nella costruzione delle case tedesche). “Ma i grandi festeggiamenti sono solo rinviati: non appena potremo, ci organizzeremo per bene”, assicura Aldo Colonna.
Aveva 26 anni, Aldo, quando l’idea di lasciare Brindisi iniziò a farsi strada nei suoi pensieri di giovane pescatore che lavorava giù alla Marina insieme al padre. L’ufficio di collocamento di Brindisi pubblicò un avviso di reclutamento per conto di attività industriali e manifatturiere tedesche. Era una modalità di assunzione “assistita”, dettagliatamente disciplinata, nei tempi e nei modi, dagli accordi bilaterali Italia-Germania del 1955 e basata sulla indispensabile mediazione dei Centri per l’immigrazione. Uno dei capisaldi del patto politico in base al quale avveniva il reclutamento era il principio di rotazione: i lavoratori italiani avrebbero dovuto prestare la propria opera professionale per un limitato periodo di tempo, che variava da uno a tre anni, e poi sarebbero dovuti rientrare in patria. La Germania fortemente nazionalista del dopoguerra mirava, in tal modo, ad evitare la stabilizzazione dei nostri connazionali sul proprio territorio e la “contaminazione” tra popoli. Tuttavia, non è così che andò: “Appena ebbi notizia della pubblicazione dell’avviso, mi recai all’ufficio di collocamento per iscrivermi. L’idea era quella di restare a lavorare soltanto qualche anno (gli accordi tra Italia e Germania prevedevano questo, in fondo), fare un’esperienza diversa che magari mi sarebbe stata utile per trovare più facilmente lavoro in Italia e poi rientrare a Brindisi. Ma la vita aveva altri piani per me”. Piani che Aldo Colonna è stato ben felice di assecondare: dopo le difficoltà iniziali, dovute prevalentemente a ragioni linguistiche, il giovane brindisino, complice la passionale storia d’amore con la graziosa signorina Enne Müller, cominciò a sentire la Germania come la sua seconda patria.
“Sono partito da Brindisi con amici e vicini di casa. Ricordo la stazione affollata dai famigliari accorsi a salutarci, alcune madri piangevano come se ci stessero spedendo in guerra. Prima della partenza, sostenemmo un colloquio preliminare all’ufficio di collocamento, per verificare che sapessimo leggere, scrivere e fare correttamente i conti. Gli analfabeti venivano giudicati come non idonei e scartati senza appello. Poi fummo sottoposti a visita medica in un ambulatorio di via Taranto: volevano accertarsi che non avessimo difetti fisici o malattie che avrebbero potuto interferire con le nostre mansioni lavorative. Una visita medica ancora più approfondita la affrontammo a Verona, dove facemmo scalo prima di proseguire per Monaco. Una volta arrivati in Baviera, trovammo ad accoglierci il direttore della fabbrica di legname dove saremmo andati a lavorare, che ci consegnò il contratto di lavoro. Scendemmo dal treno tra le 5 e le 6 del pomeriggio del 28 gennaio 1960 e da quel momento le nostre vite cambiarono”, racconta con entusiasmo Aldo Colonna.
All’epoca i giovani italiani venivano ospitati in anonimi bungalow situati in prossimità dei luoghi di lavoro: Colonna ricorda ancora l’odore di vernice che avvertì appena entrato nel suo alloggio, da poco ritinteggiato. Erano abitazioni perlopiù spoglie e anonime, ma vi si respirava l’aria della libertà, vi si allevava con tenacia e sacrificio il sogno del futuro benessere.
“Ho lavorato in questa impresa che fabbricava compensato per circa quattro anni. Dopodiché, sono passato ad un’azienda che era leader mondiale nella produzione di macchine tessili. Lì sono rimasto sino al mio pensionamento, nel 1992. Nel frattempo, avevo preso moglie ed ero diventato papà di tre figli. Il maggiore ha frequentato una scuola italiana e conosce benissimo la nostra lingua, anche perché la parla quotidianamente per lavoro, dato che è impiegato in una ditta si occupa di scambi commerciali tra Germania, Italia e Francia. Gli altri due la parlano meno, ma anche loro hanno un forte legame con le origini brindisine”.
I Tedeschi furono eccezionalmente accoglienti. Aldo Colonna smonta, un pezzetto alla volta, la rigida narrazione di una Germania chiusa e inospitale, ai limiti del razzismo. “Certamente ci fu un po’ di diffidenza, nessuno di noi potrebbe negarlo. Ma durò pochissimo, anche perché il consolato era sempre molto presente e svolgeva una grande opera di mediazione culturale. I più critici erano gli ex soldati tedeschi che, durante la seconda guerra mondiale, avevano servito in Italia. Ma venivano zittiti dalla gente che ci conosceva e osservava con quanto senso del dovere lavorassimo per costruire un avvenire migliore per noi e i nostri figli. Anche i miei suoceri furono scettici. Avevo conosciuto mia moglie Enne ad una festa da ballo, pochi mesi dopo il mio arrivo. All’epoca le ragazze tedesche erano incuriosite da noi italiani, eravamo giovani simpatici e spesso di bell’aspetto, lavoravamo con grande impegno, ma sapevamo anche divertirci. Lei fu colpita da questi aspetti del mio carattere, posso dire che fu un colpo di fulmine. Ma i suoi genitori, preoccupati che io fossi interessato ai suoi beni o magari ad acquisire la cittadinanza tedesca, non vedevano di buon occhio la nostra frequentazione. Si spinsero al punto da fare intervenire la polizia locale. Una sera li vidi piombare nel mio alloggio per un vero e proprio interrogatorio. Cercavano un pretesto per farmi rimpatriare. Mi chiesero se avessi precedenti penali, se magari fossi già sposato in Italia. La mia futura moglie non gradì questo comportamento, scappò da casa e andò a vivere per qualche settimana da una sua zia a cui, chissà come, stavo simpatico, perché mi permetteva di andare a trovare Enne. Dopo pochi mesi ci sposammo. I miei suoceri lentamente si sono avvicinati alla nostra famiglia, hanno iniziato a conoscermi e hanno finito per volermi bene come ad un figlio”, afferma con orgoglio Colonna.
La prima “colonia” di italiani a Grossostheim fu, dunque, un gruppo di circa 40 brindisini. Iniziarono tutti lavorando in fabbrica. Poi, negli anni successivi al reclutamento, con le somme accantonate come operai cominciarono ad aprire attività in proprio (panifici, salumerie, pasticcerie, pizzerie, parrucchieri per donne e uomini, sartorie, autosaloni), arrivando persino a dare lavoro ai tedeschi. Erano volenterosi, onesti, generosi, disponibili. “Grandi faticatori”, per dirla con un’espressione molto usata dalle nostre parti.
Nel corso dei decenni hanno contribuito allo sviluppo economico, sociale e culturale della cittadina bavarese, al punto da meritare, in segno di amicizia e fratellanza, la statua inaugurata il 12 settembre scorso. Aldo Colonna, fondatore addirittura di un patronato Acli in terra tedesca, ricorda come fu aperta da un cegliese la prima pizzeria di Grossostheim: “Nei dintorni l’unico posto dove si poteva mangiare la pizza era la città di Aschaffenburg, nella quale c’era il locale di un italoamericano. Poi questo amico di Ceglie decise che si era stancato di fare l’operaio e pensò di darsi alla ristorazione. In pochi anni l’attività si espanse e diventò una catena, un’altra persona entrò in società con lui e le mogli, che erano brave a cucinare, lasciarono i rispettivi lavori nelle aziende tedesche e si misero a fare le cuoche. Adesso in queste pizzerie il personale è misto, ci sono italiani e tedeschi. 60 anni fa ci hanno accolti e ci hanno dato lavoro, adesso siamo noi a ricambiare. Dormivamo nei bungalow, ora abbiamo tutti case di proprietà, la mia strada è piena di abitazioni acquistate da italiani. Dal nulla, abbiamo creato qui in Germania una piccola Brindisi. Non credo affatto di esagerare se dico che siamo diventati un unico popolo”.
In effetti, come un unico popolo italiani e tedeschi reagirono al terremoto del 1980 in Irpinia: tramite il console italiano a Francoforte, arrivò la richiesta di coperte per tutti gli sfollati costretti ad affrontare nei container il duro inverno appenninico. In quell’occasione, un’anziana di Grossostheim radunò un gruppo di donne che offrirono gratuitamente la lana e in un paio di giorni ultimarono la lavorazione di 50 coperte, imbarcate sull’aereo in partenza per l’Italia proprio pochi minuti prima che decollasse.
A dimostrazione di quanto i brindisini siano ancora benvoluti, c’è stata negli ultimi mesi la disponibilità del sindaco di Grossostheim a creare nella cittadina un archivio storico che racconti la presenza degli italiani sul territorio dagli anni Sessanta ai nostri giorni: “Il sindaco ci ha offerto gratuitamente un locale da utilizzare per le nostre attività, ma purtroppo la pandemia ha bloccato l’iniziativa. Speriamo di poter recuperare presto, perché sarebbe un ottimo modo per far conoscere alle generazioni che sono arrivate dopo di noi quanto sia stato importante il contributo degli italiani e, vorrei dire, dei brindisini, per la crescita di questa cittadina. Sarò felice di offrire la mia testimonianza con documenti, giornali, fotografie, purché non mi chiedano di mettere a disposizione la valigia con cui sono arrivato qui. Quella è un ricordo personale che conservo gelosamente, non ho voluto regalarla nemmeno al vicino Museo degli Emigranti. Racconta la mia storia più di qualunque altro oggetto che possiedo, me ne separerò soltanto quando sarò morto”, conclude solennemente Aldo Colonna.
Ha un unico grande desiderio, questo vivace anziano che da pescatore si è reinventato operaio e da 60 anni ogni giorno parla una lingua che non è la sua. Vorrebbe che l’amministrazione comunale di Brindisi venisse a conoscenza del riconoscimento tributato ai brindisini per lo sviluppo di Grossostheim e organizzasse qualcosa di simile: “Spero che il sindaco Rossi legga il vostro giornale e si inventi qualcosa per noi, un semplice omaggio al nostro impegno di emigranti che si sono guadagnati il rispetto dei tedeschi con il lavoro e l’onestà. Anzi, non sarebbe bellissimo se riuscissimo a organizzare un gemellaggio?”, azzarda Aldo Colonna.