L’aeroporto, la libertà e la fedeltà: viaggio a San Pancrazio

Il territorio di San Pancrazio Salentino, rappresenta il vertice sud-occidentale della provincia di Brindisi. Per raggiungerlo dal capoluogo, bisogna percorrere la moderna Statale n. 7, che per grandi linee, ricalca l’antico tragitto della “Regina Viarum”.
Da Brindisi a Mesagne, costeggiando il castello, si prosegue seguendo le indicazioni cittadine sino ad immettersi sulla Starda Provinciale n.74, di recente aggiornata e rivista nel tracciato, per renderla meno pericolosa, tanti sono gli incidenti che hanno stroncato vite, sacrificate non si sa bene, a quale divinità.
Guidare con prudenza, pertanto, è il minimo sindacale da chiedere al viaggiatore, nonostante la strada risponda alla giusta applicazione delle norme di sicurezza. I rondò non sono inutili dissuasori
Quanto Prudenza e giustizia siano parte di questo viaggio, lo scopriremo proprio a San Pancrazio, dove si giunge solo dopo aver reso omaggio ad un importante ma sconosciuto aspetto del territorio comunale. A pochissimi chilometri a nord del paese, infatti, insiste un aeroporto militare, di quelli che non ti aspetti, di quelli che solo la memoria da pesciolino rosso colloca nel dimenticatoio.
Tra l’autunno del 1943 ed il 1945, su un terreno favorevole, gli alleati anglo-americani, collocarono la base dei loro bombardieri. Quanto abbiano contribuito alla liberazione dell’Italia del nazi-fascismo, è sempre utile ricordarlo.
Della loro presenza resta una targa affissa, all’ingresso del palazzo del Municipio, mentre il campo di volo, parte integrante del Distaccamento aeroportuale di Brindisi, ha ospitato per diverso tempo le scorte della ONU dell’UNHCR” (il sistema delle Nazioni Unite del pronto intervento umanitario) di cui l’appena trascorso 19 dicembre si è celebrato il 25° dall’arrivo in città.
Nel 2017, presso l’ex aeroporto militare di San Pancrazio Salentino sono anche stati persino avviati test di sperimentazione per la produzione energetica mediante un prototipo mobile di generatore eolico d’alta quota sviluppato da una società italiana.
L’area militare, oggi è in apparente stato di degrado, ma resta, pur sempre, un luogo di possibili sviluppi potenziali.
Il centro cittadino si sviluppa in un raggio di 100 metri attorno al palazzo comunale, un bell’esempio di architettura del XIX secolo. La via su cui si affaccia, è titolata a Umberto I, ma è nient’altro che il tratto cittadino della Strada Statale 7 ter, ovvero la variante che la Via Appia compie a Taranto per congiungere il capoluogo jonico a Lecce. Fu voluta nel 1937 come strada di connessione con quell’area meridionale dell’alto salento altrimenti relegata al degrado, dopo la realizzazione delle province di Brindisi e Taranto, gemmate nel 1927 dalla originaria provincia di Lecce.
L’importante arteria che, rappresenta la prosecuzione dell’Autostrada A14 Bologna Taranto, oggi rientra in uno strategico piano viario, denominato “Bradanico-Salentino” da Matera a Lecce e stressa il piccolo centro di San Pancrazio che si vede attraversato nella piazza principale dal transito, anche di mezzi pesanti, che si aggiunge al già intenso traffico vacanziero che d’estate lo rende crocevia tra est ed ovest e nord e sud.
Come prassi urbanistica vuole, fronteggia il palazzo del municipio, la piazza titolata al medesimo Re, padre della Patria, dove si esalta in un disegno pulito ma elegante, la chiesa matrice dedicata a San Francesco d’Assisi e al patrono San Pancrazio. Fu realizzata su progetto del 1860 dell’ing. Magliola Giuseppe di Lecce ed i lavori di costruzione iniziarono nel 1866 e terminarono nel 1869.
Tra le suggestioni di cui si può godere, visitando la chiesa, il bel gruppo scultoreo che fa da cortina all’organo a canne e che sovrasta la parete interna del portale. “La Carità assisa tra la Giustizia e la Prudenza”. Una lettura sommaria del significato del bel gruppo scultoreo riecheggia lezioni di catechismo quando si apprende che la giustizia consiste nella volontà costante e ferma di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto, mentre la prudenza non è dell’indeciso, il cauto, il titubante, ma al contrario, di chi sa decidere con sano realismo, non si fa trascinare dai facili entusiasmi, non tentenna e sa andare contro una cultura lontana dalla legge di Dio.
Il Paese è intriso di significati religiosi e il suo stesso insediamento, si deve proprio a cura dei vescovi di Brindisi che ne hanno ripopolato il territorio dopo una epidemia di peste, garantendo ai brindisini che lì si sarebbero insediati, lo sgravio dei tributi. L’angolo occidentale del palazzo municipale si affaccia su via Sant’Antonio e neppure a trenta passi, la chiesa in austero stile francescano, col suo bel campanile a vela, vero centro pulsante della storia del Paese. Risalente al XII secolo e titolata anticamente a San Pancrazio Martire, conserva tracce importanti del trascorso basiliano ma soprattutto conserva, nella nicchia sovrastante il portale d’ingresso secondario, l’affresco del XVI secolo che raffigura il popolo di San Pancrazio in armi contro gli invasori turchi che per ben due volte hanno razziato il paese. Successivamente la chiesa fu rititolata a Sant’Antonio da Padova.
Altri trenta passi e su via castello, imponente si mostra, nella sua vigoria storica, il castello che è stata sede degli arcivescovi brindisini durante il periodo estivo.
La vasta area a meridione di Brindisi di proprietà dalla Contessa Sighelgaita, di cui è parte anche San Pancrazio, divenne nel 1077 di proprietà dell’arcivescovo di Brindisi, alla cui “Mensa Arcivescovile” il paese è rimasto legato sino al 1866, facendo del centro salentino, un baluardo religioso e di fervente fedeltà alla Diocesi di Brindisi di cui è tutt’ora parte.
Come tutti i centri del brindisino meridionale, anche San Pancrazio registra una lenta ma inesorabile decadenza della popolazione residente. Nei diversi bar che si affacciano sulle vie principali, gli avventori condividono le ansie e le preoccupazioni per i sorteggi di “Europa League” che non cambieranno certo il senso della vita, ma vengono vissuti con la passione e la partecipazione che oggi i ragazzi non mostrano più.
Qualche centinaio di metri ad est del palazzo municipale e sempre su via Umberto I, proprio sul punto d’incontro delle due direttrici viarie che da nord (Mesagne) portano a sud (le marine joniche) e da ovest (Taranto) portano ad est (Lecce) si registra la presenza di una architettura, moderna, risalente agli anni ’70 del XX secolo. Si tratta dell’avveniristica (per i tempi) sede della filiale della Banca Vallone, generata da una delle famiglie del notabilato salentino che seppe tradurre già nel XIX secolo la forza propulsiva dell’economia agricola in economia creditizia.
I Fratelli Vallone crearono la banca nel 1925 e svilupparono la loro presenza nel salento agricolo, facendo della filiale di San Pancrazio un crocevia economico-finanziario di primo livello. Nel 1991 la banca si fuse, per incorporazione nel Banco Ambrosiano Veneto, che nel 1989 ne aveva acquisito l’intero pacchetto azionario. Ancora oggi è sede di altro istituto di credito.
San Pancrazio è una comunità di poco meno di 10mila abitanti e resta, nonostante le difficoltà di una più vasta crisi d’identità, il luogo dove si sono rintanati nella chiesa matrice, la giustizia e la prudenza, ai piedi della Carità (Deus Caritas est) ci suggerirebbe il pensiero, ma conserva integre le potenzialità di crocevia di persone e di storie.
Ricordo che il Pancrazio è pure un tipo di lotta che gli atleti ingaggiavano durante i giochi di Olimpia e pensare che il sampancraziese conservi in sé, come dimostrò coi turchi, la forza di una comunità di lottatori, asserviti alla giustizia e alla prudenza, suggestiona e un po’ appassiona.
Prendo la strada del ritorno, ma devio dalla strada provinciale per incamminarmi lungo una stradina di raccordo con la provinciale n. 68 che porta a Torre S.Susanna. Tra le pinete ed un territorio dove è facile intravvedere la natura carsica del terreno, un’oasi di preghiera, (ancora una) è il santuario di Sant’Antonio alla Macchia. Un reperto di presidio basiliano, più volte fatto oggetto di razzie, ma bello e scenografico con la sua corte di grotte ed anfratti dove vivevano in piccola comunità i monaci basiliani, eremiti per vocazione, che scoprirono proprio nel salento la rivoluzone del cenobio, la vita in comunità. La chiesetta erede di quel che non c’è quasi più è dedicata a Sant’Antonio Abate, l’eremita del fuoco ed attorno una moderna struttura che racconta altro, il nuovo che contrasta, che contamina, forse scimmiotta il bisogno di appartarsi (darsi alla macchia) che spesso però non fa rinunciare agli agi moderni.
Chi mi accompagna si inoltra con una guida prudente, attraverso la macchia di pini, il cui profumo è ulteriore stimolo a riprendere il pensiero lento che accarezzi la natura, la tuteli, la custodisca, ma il viaggio continua, i limiti del Codice della Strada da rispettare e la prossima meta da raggiungere.
(La prossima meta del viaggio è Villa Castelli)